Il quaderno di scuola. Un umile strumento
che, seguendo le mode, resiste impavido
alla concorrenza di computer, Internet e telefonini
alla concorrenza di computer, Internet e telefonini
Un tempo a campeggiare
erano profili duceschi
e tavole pitagoriche.
Dagli anni 60 l'impronta italian style
tra fumetti e riproduzioni di quadri.
L'eleganza è la versione classica rossa e nera.
L'eleganza è la versione classica rossa e nera.
Sono scomparse le cartelle, e le asticciole delle penne (da succhiare durante certe interminabili spiegazioni), e la bella varietà di pennini, e i nettapenne, e le lunghe righe di legno, strumento indispensabile per le baruffe extra moenia alla fine delle lezioni. Sono cambiate le aule, i banchi, le cattedre e gli stessi maestri e maestre hanno perso l'aura di serena infallibilità che costituiva la loro riconoscibile divisa. Invece i quaderni resistono e sfidano impavidi qualsivoglia innovazione tecnologica.
Prendiamo un anno a caso, un anno cifra tonda: il 1940, per esempio. L'Italia sta entrando o è entrata in guerra, il Fascismo è onnipresente, pervasivo, una gramigna radicatasi in ogni interstizio sino a ricoprire l'intera superficie della nazione, e ovviamente è presente anche sulle copertine dei quaderni. Copertine di cartone sottile, dai colori spenti (verde muschio, ocra, azzurrino) su cui campeggiano fasci littorii, motti apodittici o in cui compare la figura stessa del Duce in una delle sue multiformi performance: a torso nudo su una trebbiatrice, con il casco da minatore, sulle sudate carte sotto il fascio di luce di una lampada da tavolo... Nella quarta di copertina, di nuovo lui, o meglio il suo profilo mascelluto, ma non sempre, perché spesso deve cedere il posto alla tavola pitagorica o alle formule per calcolare l'area dei poligoni regolari. I quaderni in uso alle scuole elementari avevano pochi fogli, e strapparne uno perché imbrattato da macchie d'inchiostro o deturpato da sgorbi e svolazzi (Mi è scappata la penna!) era azione più vicina al peccato mortale che a quello veniale. Infatti scattava subito il brusco rimbrotto della maestra, avallato dal richiamo a una più alta autorità: «Gesù non vuole», se la maestra era un po' bigotta; oppure «Il Duce non vuole» se era fascista. Il fatto è che la carta scarseggiava ed era un bene prezioso, ma come farlo capire a dei marmocchi di sei-sette anni?
Dopo il 1945, un bel disastro. Per un errore di previsione, cartiere e cartolerie avevano poderose riserve di quaderni con le copertine ducesche (durante la guerra oltretutto se ne erano smerciati pochini perché le scuole funzionavano a singhiozzo). Che fare? Vendere e usare quei quaderni significava esporsi al pericolo di ritorsioni, buttarli via era una perdita secca. Furono le maestre e i maestri a salvare capra e cavoli, impartendo l'ordine perentorio di foderare i quaderni con carta trasparente rossa per quelli di italiano e verde per quelli di aritmetica (o viceversa). La carta trasparente era poco trasparente, perciò era tutto un ti vedo e non ti vedo riguardo a quello che c'era sotto. (Le sovracopertine di plastica all'epoca non erano ancora state inventate.) Smerciati i residui di magazzino, i quaderni ebbero una nuova veste. Copertine (perlopiù di desolante bruttezza) con abbozzi di foglie e fiori di fantasia, con le cosiddette «cronache piccine», ovvero scenette di gioco disegnate - presumo - da orbi non veggenti, con cornicette e ghirlandine tipo tracce da ricamo. Finché - ma siamo già a ridosso degli Anni 60 - l'italian style si afferma nel mondo intero e rivoluziona anche le copertine. Sono di cartone piu' spesso, sovente plastificato, ed esibiscono strisce di fumetti o i loro eroi a tutto campo, composizioni ottiche, riproduzioni di quadri o opere d'arte famose. Ma, per eleganza e raffinatezza, svetta da sempre su tutti un «classico», snobbato dagli scolari e adorato dai liceali, dai professori e dagli scrittori: é quello con la copertina di cartone nero e il taglio delle pagine rosso, quello su cui e' gia' stampata un'etichetta rettangolare con gli angoli arrotondati, bianca e bordata di rosso, su cui scrivere il proprio nome e cognome. E se non è stampata, l'etichetta si può appiccicare, sempre bianca e rossa, con i bordi frastagliati come quelli delle fotografie di un tempo. Intanto erano arrivati i quadernoni. Scomodissimi, ma molto amati dalle maestre, non si sa perché, dal momento che non sono maneggevoli per i bambini. Di peggio ci sono soltanto i quadernoni ad anelli, un'invenzione demenziale. Demenziale perché se si lasciano i fogli negli anelli, questi impacciano a pagine alterne la mano di chi scrive, sia destrorso o mancino; se invece i fogli si sfilano, non si sa dove appoggiarli in modo che la biro ci possa scorrere sopra senza impuntarsi, e inoltre, dopo la seconda o terza sfilata e infilata, la striscia sottile di carta accanto ai buchi per gli anelli si rompe e il foglio diventa volante. I quaderni non sono appannaggio esclusivo dell'età scolare e vengono usati anche dagli adulti. Dai bottegai, per segnare «chi fa libro», cioè paga la spesa alla fine della settimana o del mese; dai viaggiatori, per fissare impressioni e incontri che nella memoria avrebbero vita breve se non fossero resi definitivi - e spesso taroccati - dagli appunti presi sul momento o alla sera, nella camera d'albergo. Dagli scrittori, soprattutto, nonostante la compresenza del computer. Per segnare la traccia iniziale di una storia, per svilupparla negli snodi essenziali, per indicare qualche caratteristica dei personaggi, per appuntare una nota bibliografica. Oppure per farli entrare nell'opera stessa: i quaderni bruciati frettolosamente nella stufa dal Maestro nel capolavoro di Bulgakov; quello del piccolo Anton nel racconto Il primo della classe di Joseph Roth; quello che compare alla fine di Mal di pietre, della Agus, su cui una donna ha reinventato e perciò reso tollerabile la propria vita.
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