Filippo Turati da giovane (1882) |
Parigi, domenica 11 giugno.
Carissimo, se avessi tempo e non dovessi fra un’ora partire per l’Inghilterra ti scriverei la descrizione per “la Farfalla” della festa funebre franco-italiana da cui torno in questo istante. Una cosa grande — ti dico — una cosa smisurata, quale solo Parigi può dare, e che produsse in me la più grandiosa emozione ch’io abbia provato in mia vita. Quante migliaia erano? Non te lo so dire. Era tutta Parigi democratica, era tutta la Francia repubblicana. Ed io là solo, smarrito fra quel monte di teste e di braccia francesi, agitantisi in una tempesta d’entusiasmo nel nome di Garibaldi, nel nome d’Italia! T’immagini?
Dalla triste mattina che il “Figaro” m’apprese la morte dell’eroe smisurato, uno strano isterismo di malinconia m’avea preso l’anima, un sentirmi a disagio in paese straniero, in ambiente ostile, un parermi che gli amici lontani dovessero aver bisogno di me nella sventura che colpiva la patria, come io sentivo di aver bisogno di loro per espandere quel dolore improvviso e che lungi d’Italia mi riesciva a mille doppi intollerabile. Ho avuto un impeto fanciullesco di torrare fra voi: ma lo stesso intontimento in cui ero caduto mi trattenne - inerzia a Parigi.
Ricordo che alla posta, quella mattina, al ricevere le lettere consuete, mi trovai d’accanto ad alcuni italiani, fra cui una coppia di sposi in viaggio di nozze. Avevo tra mani spiegato il giornale e, senza conoscerli, mostrai loro il telegramma fatale: «È morto Garibaldi!». Rimasero come istupiditi, increduli, sbigottiti, quasi da un cattivo augurio: corrucciati della loro letizia di sposi novelli su cui quel telegramma spargeva tant’ ombra. - E in Italia allora?... Anch’essi parvero sospirare all’Italia.
La giornata d’oggi ha dissipato tutte le tristezze. L’entusiasmo di Roma, di Milano, non poteva avere rivelazioni per me: non ne può avere per un italiano. Era qui che bisognava essere. Ed era qui che bisognava trascinare oggi le vipere del giornalismo e della politica - i piccoli mettimale che schizzano il veleno degli odii fra le nazioni sorelle. Che esempio, e che lezione per essi!
«Viva l’Italia» è un grido banale in Italia. Ma imaginati l’effetto che dee produrre in orecchie italiane, uscito a un tratto da diecimila bocche francesi, imaginati i brividi di emozione, i sudori freddi e le vertigini di compiacenza, di gratitudine, di tenerezza che mi scossero tutto, mentre l’inno garibaldino, il nostro vero e solo inno nazionale, il simbolo di tutta l’epopea italiana, fu accolto, fu accompagnato, fu coperto dagli hurra! dagli evviva! di tutto questo popolo entusiasta, non mai sazio di udirlo...
Ma ci amano dunque davvero! E le rivalità d’Africa sono bisbeticherie di diplomatici, senza eco nel cuore dei popoli? E la diplomazia dov’è, e perché non protesta?
O v’è dunque una diplomazia dei popoli mille volte più solenne di quella dei governi! E mentr’io pensavo queste cose e si acclamava a me d’intorno alla pace latina, agli stati uniti d’Europa, alla fratellanza umana, alla repubblica universale, io mi sentivo orgoglioso e commosso di essere italiano, e di ricevere da un popolo di stranieri una lezione di patriottismo.
Ma ora mi applaudo - oh se mi applaudo! - di essere rimasto.
Sceaux, Busto di Clovis Huguet (1851 - 1905) |
A un certo punto — non ti narro i discorsi, le bandiere italiane e francesi intrecciate, le coccarde quadricolori in seno alle donne, gli intermezzi piccanti che saprai dai giornali - a un certo punto, dal lato al presidente della festa, Giosuè Carducci si leva per leggere dei versi. Non ridere, proprio lui: la sua capigliatura arruffata, il suo tipo selvaggio, il suo atteggiamento leonino, la sua irrequietezza nervosa. Non riesco a spiegarmi Giosuè Carducci a Parigi, e mi impensierisco sul serio dell’effetto che produrrà sull’uditorio la sua pronuncia incorreggibilmente etrusca - quand’ecco sento mormorare il nome di Clovis Hugues, il simpatico deputato di Marsiglia, il poeta della rivoluzione, e per più d’un rispetto il Carducci della Francia.
Nell’atrio, a due palmi di distanza, ho poi constatata un’altra volta questa strana somiglianza fisica dei due poeti, le cui rassomiglianze intellettuali sono oggi curiosissimo di studiare più a fondo.
Per finire. Da più di quindici giorni calpestavo in lungo e in largo il selciato parigino, interrogandone con amore di touriste le persone e le cose, suscitandone le memorie, raccogliendone le impressioni, eppure, lo dovetti confessare scrivendone all’amico Pessimista (uno degli pseudonimi di Felice Cameroni, n.d.r.), malato lui, poveretto, di nostalgia parigina, finora, anche fra l’ammirazione, qualche cosa rimaneva in me di refrattario, di chiuso alle emozioni che questa grande metropoli ha destato in tanti visitatori.
Dovevo confessarmi con non poco dolore del mio amor proprio, inetto a comprendere, a sentire tutto un ordine di grandezze. L’entusiasmo che mi desta in cuore ad ogni piè sospinto lo squallido paesaggio delle Alpi, non m’aveva mai toccato né davanti al Louvre, né davanti all’arco della Stella. Ero avvilito, ti giuro...
Non so che sia. Ma la festa e la commozione di oggi mi pare che abbiano aperto nel mio seno una fontana di sensibilità nuova e più fresca, che abbiano sciolto quel ghiaccio, che m’abbiano messo nuova lente negli occhi. Mi pare da oggi di capire Parigi! È forse perciò che la abbandono. Mia mamma picchia alla porta dice che è l’ora.
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