8.5.11

Inculcare versus insegnare (di Roberto Monicchia - "micropolis" marzo 2011)

Da "micropolis" di marzo 2011 riprendo questa "battaglia delle idee" di Roberto Monicchia, nata come nota a margine di alcune dichiarazioni di Berlusconi contro la scuola pubblica, ma mi pare che il pezzo contenga riflessioni durature. (S.L.L.)

Alle tante provocazioni di Berlusconi, c’è chi propone di non rispondere, sia per “non fare il gioco dell’avversario”, sia per concentrarsi sui “problemi veri”. Certo, sarebbe bello prescindere da un tale interlocutore; tuttavia, come ogni sistema di potere, anche il berlusconismo possiede un multiforme apparato ideologico, che produce egemonia e consenso. Non serve dunque far finta di niente, come suggeriscono quei stessi che, una volta al governo, hanno evitato di affrontare il conflitto di interessi perché occorreva parlare d’altro.
Hanno fatto dunque bene coloro che hanno reagito mobilitandosi al discorso di Berlusconi sulla scuola. Ricordiamolo: “Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori”. Si tratta prima di tutto di un messaggio politico di appoggio ai tagli della Gelmini e disponibilità alle richieste vaticane. Ma nella brutalità di quelle parole c’è di più. Intanto esse non corrispondono a verità fattuali: la scuola italiana arranca perfino nell’insegnare le nozioni disciplinari di base, altro che inculcare. Usando quel verbo, Berlusconi è un caso da manuale di “falsa coscienza”: attribuisce cioè alla scuola quello che da trent’anni praticano le sue televisioni. D’altra parte, quando la contrappone alle famiglie, il cavaliere individua bene la scuola come luogo ancora non piegato al suo universo si valori, che certo non è quello della tradizione cattolica; ma semmai corrisponde al “liberismo popolare” veicolato dai suoi media: successo facile, arroganza pecoreccia, in breve “facciamo un po’ il cazzo che ci pare”.
Su questo egoismo sociale Berlusconi ha fondato il suo consenso, e se esso regge anche nella crisi, è perché al sogno dell’arricchimento individuale si sostituisce quello del “si salvi chi può”: chi se ne frega della scuola finché tiene parcheggiato mio figlio; chi se ne frega del contratto nazionale, finché mantengo uno straccio di occupazione.
D’altra parte è proprio su questo terreno, materiale e ideologico al tempo stesso, che il berlusconismo mostra segni di cedimento. Dopo i coraggiosi segnali di Pomigliano e Mirafiori, anche la forte reazione in difesa della scuola pubblica testimonia della diffusione di un’idea non contabile del bene comune, che mette in discussioni largamente diffusi anche a sinistra, quali appunto la centralità della famiglia e dell’impresa. La scuola pubblica, con tutti i suoi limiti, è tuttora la traduzione più importante dello spirito costituzionale di uguaglianza di diritti e opportunità. C’è speranza finché essa non accetta la riduzione a mera certificatrice di una riproduzione sociale sempre più iniqua, continuando a proporsi come fonte di cittadinanza attiva. Così, per battere Berlusconi occorre in un certo senso inverare le sue parole, “inculcando” principi e valori alternativi a quelli dominanti. Significa, a pensarci bene, insegnare.

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