Operai meccanici a Torino. 1900 circa |
Chissà se i leghisti che contestano ideologicamente l'Inno di Mameli sanno che tra fine Ottocento e inizio Novecento ne circolavano versioni parodistiche, che appartenevano al patrimonio di canti del lavoro degli operai torinesi. Nel quaderno in cui, nel 1913, l'operaio tessile Emilio Grosso, di Vallemosso (Biella), trascriveva le canzoni che voleva memorizzare, l'inno nazionale appare con il titolo Gli anarchici e questa strofa supplementare: «Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta / se l'elmo di Scipio ci taglia la testa / i nostri fratelli domandano mercé / abbasso l'Italia e poi schiacciamo il re». Nel 1921 sull'Ordine Nuovo di Gramsci un'altra parodia suonava così: «Compagni d'Italia / il popol si desta / il vecchio leone / rialzata ha la testa / A noi la vittoria! / Le turpi catene / di lutti e di pene / alfine spezzò». E più avanti: «Bastone fascista / il popol non piega / il vile soltanto / la fede rinnega...». Il caso fa parte delle molte scoperte, della messe d'informazioni e dei repertori musicali con cui un ponderoso volume che arriva nelle librerie oggi mette a fuoco l'originale deposito di canti, poesie, memorie del mondo operaio torinese: Le ciminiere non fanno più fumo di Emilio Jona, Sergio Liberovici, Franco Castelli e Alberto Lovatto (Donzelli editore). Gli stessi ricercatori (meno Liberovici, nel frattempo scomparso) avevano fatto un'operazione analoga tre anni fa sulle canzoni e i vissuti della risaia con Senti le rane che cantano.
Si tratta di libri costruiti con estremo rigore filologico, ma vivaci per il folclore, ricchissimi di spunti, anche su testi famosi come Addio Lugano bella o le ballate per Sante Caserio, e popolati di personaggi singolari se non eccentrici: i «portatori» delle canzoni che le trasmettono per via orale, o i compositori delle musiche e gli scrittori dei testi, spesso poeti. All'epoca Torino era il luogo d'Italia dove nasceva l'operaio massa della fabbrica fordista. Ciò significava la presenza di un nuovo soggetto sociale con tutto un bagaglio di linguaggi e di cultura, fra cui un tipo di canzone urbana che esprimeva l'impatto fra la tradizione della musica popolare e la nuova realtà sociale. La città era adatta a ricevere questi impulsi sia perché l'industrializzazione aveva favorito la formazione di una coscienza di classe e di una identità di quartiere sia perché aveva un'esperienza di società corali, coi maestri cantori, che erano espressione della vita dei quartieri e dell'associazionismo che vi prosperava. Il cuore di questo scenario canzonettistico, che prevedeva anche il dialetto, era una forma di espressione che i quattro autori chiamano la «cantata operaia», che veicola messaggi ideologici forti: l'orgoglio, la solidarietà, il riscatto, la giustizia, la lotta di classe; la cosa sorprendente è che sul piano del linguaggio sia musicale sia letterario questa cantata operaia si mostra in debito con diversi altri apporti, soprattutto con il melodramma ottocentesco, specie verdiano, che era allora una vigorosa sorgente della cultura popolare. La sua violenza, i suoi simboli, oltre alle sue arie e romanze, si travasano dal teatro lirico allo sferragliare delle officine. Il personaggio egemone, in questo panorama, è Carlo Sacchetti, di origine romagnola, ma di vita torinese; calzolaio con il padre, è da lui che, durante il lavoro, sente cantare e perciò trascrive Addio Lugano bella, la canzone anarchica per eccellenza, che però poi passa nel repertorio sia dei socialisti che dei comunisti. Addio Lugano ci porta a un'altra significativa figura di quei tempi: l'avvocato e giornalista Pietro Gori, che veniva dall'Isola d'Elba ma girò mezza Italia, autore delle parole dell'inno anarchico, quando nel 1895 si trovava nel carcere di Lugano, prima dell'espulsione dalla Svizzera. Fra i soggetti delle canzoni primeggia di sicuro il giovane anarchico Sante Caserio, che ventenne pugnalò il presidente francese Sadi Carnet, a Lione nel 1894: «Lavoratori a voi è diretto il canto / di questa mia canzon che sa di pianto». Attorno a Caserio, ghigliottinato poco dopo l'attentato, sbocciò una vera fioritura di canti, ballate, leggende, compresa una versione di Sacchetti che batteva il tasto della compassione, citando un biglietto dell'anarchico alla sua vecchia mamma. Quanto a testi che parlavano degli operai, il libro considera un lungo frammento - «Noi siamo i miseri, siamo i pezzenti / la sporca plebe di quest'età / che aumenta il numero dei sofferenti / per cui la vita gioia non ha» - che è noto con i titoli più vari: Inno dei pezzenti, La Marsigliese del lavoro, Canto dei miserabili, Canto dei sofferenti. Il libro e' l'esplorazione di un complesso continente di casi, aneddoti, costume quotidiano, episodi storici, con l'enfasi retorica della passione politica o semplicemente umanitaria, e le relative incongruenze. Rita Montagnana, prima moglie di Palmiro Togliatti, il fondatore del Pci, recita una strofa di Guarda dal monte, che faceva: «Ma nella strada un operaio / stava le pietre a frantumar / e quando piove il disgraziato / non ha nulla da mangiar». E quando non pioveva?
“La Stampa”, 29 luglio 2008
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