8.1.13

Elogio della diversità (di Marcello Cini)

A Marcello Cini, uomo di scienza e comunista di lungo corso recentemente scomparso, nel 2000 Lucio Magri, al tempo direttore della “Rivista del manifesto”, chiese un contributo sull’asse culturale che avrebbe dovuto ispirare una “grande riforma” dell’istruzione in senso socialista (tema squisitamente gramsciano). Cini produsse questa sorta di “manifesto”, in cui questioni epistemologiche e politiche si intrecciano in una proposta culturale che rompe esplicitamente – pur senza rinnegarla – con la tradizione comunista del ventesimo secolo. E’ proposta che sotto diversi aspetti non condivido, ma che dopo tredici anni – per la forza delle argomentazioni e l’autorevolezza etica oltre che scientifica di chi la formulava – mi pare degna di discussione e approfondimento anche per le elaborazioni e proposte “laterali” che la corredano. (S.L.L.)
1.
Nel secolo appena finito l'uomo ha instaurato il suo pieno dominio sulla materia inerte. Il Novecento è stato il secolo nel quale, dopo essere riuscito a formulare le grandi leggi universali che ne regolano le proprietà a livello macroscopico e aver individuato le diverse forme di energia di cui può essere dotata, ha appreso, con l'identificazione delle sue unità elementari - elettroni, atomi e molecole - a trasformarla in forme e aggregati nuovi, in modo da riuscire a progettare e costruire un mondo artificiale fatto di sostanze, macchine, apparati, destinati a soddisfare i suoi crescenti bisogni di beni e di strumenti materiali. Bisogni che, partendo dalle esigenze di una sopravvivenza ogni giorno più ricca e confortevole, sono arrivati ai più elevati livelli di sofisticazione, sotto lo stimolo del desiderio di estendere, mediante protesi più potenti e penetranti, la portata e l'intensità delle proprie capacità naturali di percezione, di azione e di controllo del mondo esterno.
Il nuovo secolo sarà il secolo del dominio dell'uomo sulla materia vivente e del controllo sui fenomeni mentali e sulla coscienza. La prima Grande Muraglia, che separa la materia inanimata e quella vivente, sta crollando vistosamente, dopo che, da un lato, sono state decodificate le modalità di autorganizzazione della vita e sono stati identificati i geni come sue unità elementari, e, dall'altro, è stato ricostruito il processo evolutivo che ha dato origine alla immensa varietà e complessità delle sue diverse manifestazioni. La seconda, quella tra corpo biologico e mente (e, in particolare, tra cervello e coscienza) sta cedendo sotto i colpi dei progressi delle neuroscienze nell'individuazione della gerarchia delle diverse strutture cerebrali e delle loro funzioni, dai singoli neuroni fino alla rete delle loro reciproche connessioni.
Essenziale, in entrambi i casi, è stata la scoperta del ruolo fondamentale della circolazione di informazione all'interno dei sistemi autorganizzati; una scoperta che a sua volta ha stabilito un collegamento stretto fra le discipline biologiche e quelle informatiche. Queste ultime, a loro volta, sulla base della formalizzazione del concetto di informazione e della definizione del bit come sua unità elementare, hanno portato all'incredibile sviluppo degli algoritmi per codificarla e sottoporla a procedure rigorose di calcolo, e delle macchine che la processano a velocità sempre più elevate, inferiori soltanto a quelle dei processi cerebrali.
Dopo aver cominciato ad apprendere come trasformare la vita in forme e aggregati nuovi, e come controllare i fenomeni mentali, gli uomini si apprestano dunque a progettare e costruire una biosfera artificiale fatta di organismi transgenici, chimere, cloni, e chissà quali altre forme viventi, regolata da una rete di menti artificiali di complessità crescente, con il proposito di soddisfare i loro insaziabili bisogni di qualsiasi natura. Bisogni che, partendo dagli obiettivi dichiarati di una lotta incessante contro le malattie, la vecchiaia e la morte, arriveranno a forme sempre più sofisticate generate dalla tentazione faustiana ad estendere incessantemente i confini di ciò che è possibile fare.

2.
Prima dell'abbattimento della Grande Muraglia tra materia inerte e materia vivente, quest'ultima si è evoluta per tre miliardi di anni attraverso un processo autonomo tendente ad accrescere la diversità e la complessità delle sue forme. Anche se le specie nascono e muoiono, come gli organismi, tanto che si calcola a qualche decina di miliardi il numero di quelle che hanno popolato la Terra dalla nascita della vita, il loro numero e la loro varietà sono andati crescendo. Eventi catastrofici eccezionali ne hanno di tanto in tanto ridotto drasticamente la presenza (nella grande estinzione del Permiano ne sopravvissero soltanto il quattro per cento), ma ad ognuno di essi ha sempre fatto seguito una fase di rigogliosa ripresa, con apparizione di nuove specie che hanno abbondantemente compensato le perdite subìte, portando alla ricchezza e alla multiformità della biosfera - più di quaranta milioni di specie - che esiste ancor oggi sulla Terra.
È la compresenza dei due momenti inscindibili del processo evolutivo darwiniano - quello della generazione aleatoria di un ventaglio di variazioni del patrimonio genetico di ogni individuo all'interno di una data popolazione, seguìto da quello della selezione dei fenotipi più adatti a sopravvivere nella nicchia ambientale corrispondente - che ha condotto alla crescente diversità delle specie e al tempo stesso alla differenziazione delle nicchie, in modo da garantire la continuità di un ciclo vitale complessivo nel quale ogni specie vive a spese delle altre, senza accumulazione di rifiuti non utilizzabili.
È infatti la diversità a tutti i livelli della gerarchia tassonomica della biosfera - una gerarchia che affonda le sue radici nelle ère primordiali - che garantisce, in presenza di mutamenti eccezionali improvvisi delle condizioni ambientali, la sopravvivenza degli organismi dotati delle proprietà eccezionali necessarie per affrontarli. Si sa bene che una specie formata da individui identici scompare non appena l'evoluzione crea il nemico in grado di attaccare anche uno solo dei suoi membri, come la storia della distruzione delle patate irlandesi agli inizi del secolo insegna. Fino ad oggi, dunque, i tempi del processo, tipicamente non finalizzato, dell'evoluzione biologica, sono stati dettati dal reciproco coordinamento dei ritmi dei cicli vitali delle differenti specie, in equilibrio dinamico con quelli, lenti o improvvisi, delle variazioni climatiche endogene o esogene.
Un discorso analogo vale per la Muraglia che separa il livello dei fenomeni biologici da quello dei processi mentali. Con la nascita del genere Homo, caratterizzato dalla formazione di una mente dotata di una coscienza ampiamente autonoma rispetto alla sua struttura biologica, ha inizio un processo di evoluzione culturale, anch'esso distinto nei due momenti della generazione di forme (idee) nuove e della selezione di quelle che possiedono maggiori vantaggi adattativi nell'ambiente dato. Si tratta di un processo simile, ma, per alcuni importanti aspetti anche diverso, rispetto a quello dell'evoluzione biologica. La differenza maggiore è, ovviamente, che nell'evoluzione culturale non esistono unità discrete come le specie, che sono isolate tra loro da una barriera riproduttiva, ma sistemi socioculturali definiti da un pool informazionale assai meno definibile di un pool genetico, separati soprattutto da barriere geografiche e storiche. Tipico è il caso, come hanno dimostrato gli studi di Cavalli Sforza, dell'evoluzione delle diverse forme di linguaggio e delle culture materiali e rituali ad esse legate. Anche per l'evoluzione culturale, comunque, prevale, finché sussistono le barriere tra unità socioculturali, la tendenza alla differenziazione. Oggi tuttavia la varietà delle lingue sta rapidamente scomparendo. Marco D'Eramo riferisce che, delle 6000 lingue ancora esistenti, il 96% è parlato da meno del 4% della popolazione mondiale. Allo stesso modo cadono le differenze culturali tradizionali, si uniformano i comportamenti, si standardizzano gusti e modelli di vita.

3.
La svolta rappresentata dall'abbattimento delle due Muraglie, quella tra materia inerte e materia vivente e quella tra sfera biologica e sfera mentale non è ancora percepita come epocale dall'opinione pubblica, né è ancora diffusa la consapevolezza che essa potrà avere conseguenze ancora più sconvolgenti, nel bene e nel male, di quelle, già rilevanti, prodotte a livello planetario dall'instaurazione del dominio dell'uomo sulla materia inerte. Prevale infatti la concezione tradizionale di una scienza che procede autonomamente nella scoperta dei segreti della natura, mentre una tecnologia sempre più sofisticata, utilizzando queste scoperte, fornisce all'economia gli strumenti per uno sviluppo finalizzato al raggiungimento di sempre più elevati livelli di benessere per l'umanità. Un progresso dunque senza scosse né salti di qualità.
C'è una ragione precisa per la persistenza di questa visione lineare e cumulativa dello sviluppo. Almeno a partire dalla metà dell'Ottocento infatti - come si legge nelle prime righe del Capitale - "la ricchezza della società si presenta come una immane raccolta di merci". E questa immane raccolta si è moltiplicata da allora all'infinito in ogni remoto angolo del globo, come una marea che ha sommerso ogni cosa, crescendo nei minimi interstizi della vita individuale e collettiva di tutti noi. Il capitale infatti, una volta che ha imparato a trasformare in merce la forza di lavoro dell'uomo, continua, come re Mida, a trasformare in merce, cioè in denaro, tutto ciò che tocca. Tutti i risultati delle attività umane, qualunque sia la loro motivazione iniziale, vengono immessi sul mercato e valutati in base all'unica unità di misura del profitto.
Da questo punto di vista diventa "naturale" attribuire ai geni e ai bit, così come è già accaduto per gli elettroni, gli atomi e le molecole, le fattezze di merce, per risalire poi da queste unità elementari fino a trasformare in merce la straordinaria varietà di gerarchie intrecciate delle forme viventi, considerate semplici combinazioni di geni, e le infinite possibili manifestazioni del pensiero umano, ridotte a pure collezioni di bit. Non c'è più bisogno di avvicinarsi con reverente cautela a barriere vecchie di milioni o di miliardi di anni, perché, dal punto di vista del mercato, non c'è, né può esserci, alcuna barriera che possa ostacolare, con la libera circolazione di merci, la crescita illimitata del capitale. Come dice William Tucker, responsabile del trasferimento delle tecnologie presso il Dna Plant Technology di Oakland, in California, "il fatto che una cosa abbia natura biologica e si autoriproduca non basta a renderla diversa da un pezzo di macchina costruita con dadi, bulloni e viti". Cadono così, per decisione degli Uffici Brevetti, le barriere della tassonomia tradizionale tra specie, generi, famiglie, ordini, classi e regni. Geni di topi e di batteri si trasferiscono nel genoma di piante e di insetti o viceversa; organi di maiale o di babbuino si trapiantano nel corpo umano. Ogni parte degli esseri viventi, e persino gli esseri viventi stessi, opportunamente trattati e modificati, diventano nuovi "prodotti", proprietà privata della multinazionale di turno. "Molto probabilmente - prevede Jeremy Rifkin - in meno di dieci anni tutti e 100.000 i geni che contengono il patrimonio genetico della nostra specie saranno brevettati, e in tal modo diventeranno esclusiva proprietà intellettuale delle industrie farmaceutiche, chimiche, agricole e biotecnologiche." In tutti i processi evolutivi della vita comincia già adesso a sostituirsi, al meccanismo della selezione delle forme più adatte all'interno di ognuna delle innumerevoli nicchie ambientali differenti dell'ecosistema terrestre, la selezione da parte del profitto in quanto unico parametro da ottimizzzare nelle scelte da compiere. La varietà dei tempi dei singoli processi evolutivi e dei cicli della natura si riduce al tempo di circolazione e di riproduzione del capitale. È il mercato che decreta la vita e la morte di organismi, popolazioni, culture.
La forza travolgente del mercato ha un duplice effetto. Da un lato sta riducendo drasticamente il numero di specie, di varietà, di ecosistemi. Edward Wilson calcola che, "se la distruzione delle foreste pluviali continuerà a questi regimi... in una ventina d'anni la metà di esse andrà persa. La totale estinzione delle specie a causa di questo sarà compresa tra il 10 e il 20%". La percentuale di perdite sale ancora quando si tratta della perdita di diversità genetica nell'agricoltura. La Fondazione internazionale per l'avanzamento rurale riporta che dei 75 tipi di vegetali che crescono negli Stati Uniti il 97% di tutte le varietà si è estinto negli ultimi ottant'anni. In India i contadini solo cinquant'anni fa, facevano crescere più di 30.000 varietà tradizionali di riso. Oggi 10 varietà moderne rendono conto di più del 75% dei raccolti annuali. Lo stesso fenomeno accade per l'allevamento degli animali. Per le mucche, le pecore e i maiali esiste solo una manciata di marche di genotipi e il resto viene eliminato dalle forze del mercato.
Dall'altro lato la forza del mercato sta introducendo nella biosfera organismi manipolati geneticamente che possono produrre un inquinamento ambientale dalle conseguenze ancora più pericolose e imprevedibili di quelle dell'inquinamento chimico e nucleare. Essi infatti si riproducono, crescono e si spostano. Una volta liberati è praticamente impossibile farli ritornare in laboratorio, specialmente se sono microscopici. "Introdurre nell'ambiente esseri nuovi - scrive Jeremy Rifkin - significa innescare una specie di "roulette ecologica": se esiste anche solo una piccola probabilità di scatenare una esplosione ambientale, e se questa dovesse davvero accadere, le conseguenze potrebbero essere significative e irreversibili."

4.
Il Novecento avrebbe dovuto essere, secondo Marx, il secolo in cui l'esortazione Proletari di tutto il mondo unitevi! sarebbe stata raccolta da tutti i lavoratori sfruttati dal capitale, ovunque fossero. Non è stato così. La classe universale, che liberando sé stessa avrebbe dovuto liberare tutta l'umanità, si è frammentata e dispersa in mille soggetti diversi, in concorrenza e spesso in lotta fra loro, separati materialmente e culturalmente da interessi contrastanti, quando non addirittura da odii atavici. Il crollo dei regimi a pianificazione centralizzata, e la loro sostituzione con organizzazioni statali prive di regole con una economia di mercato dominata da poteri mafiosi, ha decretato la fine di una utopia che, nel bene e nel male, ha impresso il proprio sigillo al secolo.
La profezia marxiana si è invece realizzata all'incontrario. È il capitale internazionale che ha unificato il mondo sotto la sua legge. Cosa c'era dunque di sbagliato? Certo non l'analisi del meccanismo di valorizzazione del capitale, e della sua inarrestabile tendenza a trasformare in merce tutto ciò che tocca, che si è dimostrata straordinariamente acuta e lungimirante. Dov'è allora che bisogna cercare per rintracciare l'origine di questo clamoroso insuccesso? Due sono, secondo me, gli elementi che hanno indotto l'autore del Capitale a ipotizzare un futuro che non si è realizzato.
Il primo elemento è l'impossibilità di prevedere, un secolo e mezzo fa, gli effetti dirompenti della trasformazione qualitativa del processo di accumulazione derivante dal vertiginoso sviluppo della produzione di merci non materiali. In poche parole, come abbiamo già detto poco sopra, di prevedere che nel corso del Novecento, il bit sarebbe diventato merce (anche perché non c'era nemmeno).
Questa trasformazione, come ho avuto occasione di ricordare nel mio articolo sul numero zero di questa rivista, ha prodotto due cambiamenti fondamentali nella natura del lavoro salariato: da un lato la creazione di una miriade di nuovi mestieri, professioni, specializzazioni, che ha frammentato la figura del lavoratore in un caleidoscopio di funzioni e di compiti, e dall'altro la possibilità di decentrare la produzione in una molteplicità di luoghi diversi, grazie al carattere immateriale dell'informazione, che non richiede di essere trasportata fisicamente, ma può essere facilmente trasmessa anche a grandi distanze. Entrambi questi cambiamenti hanno contribuito in modo determinante alla vittoria del capitale nel conflitto del secolo.
Il secondo elemento è tuttavia ancora più profondo. C'è infatti qualcosa di irrimediabilmente datato e superato nella visione del futuro che animava il progetto marxiano. Si tratta, va detto chiaramente, dell'adesione, tipica della cultura più illuminata della seconda metà dell'Ottocento, a una concezione della conoscenza scientifica come marcia inarrestabile verso la scoperta delle leggi necessarie e oggettive che regolerebbero e determinerebbero il divenire di tutto ciò che accade nell'Universo.
È ben noto, a questo proposito, che Marx stesso, nell'esprimere la sua soddisfazione per il giudizio altamente positivo espresso dal recensore russo del Capitale ("il valore scientifico della indagine [di Marx] sta nella spiegazione delle leggi specifiche che regolano nascita, esistenza, sviluppo e morte di un organismo sociale dato, e la sua sostituzione con un altro, superiore"), ribadisce, nella prefazione alla seconda edizione, che, in effetti, il suo punto di vista "concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale" retto da leggi che "non solo non dipendono dalla volontà, dalla coscienza e dalle intenzioni degli uomini, ma anzi [le] determinano". Un punto di vista che spiega, fra l'altro, l'ammirazione dell'autore per Darwin, e la sua intenzione di dedicare a lui la sua opera. Ma, sia ben chiaro, si trattava del Darwin che scriveva: "Quantunque ogni modificazione debba avere la sua causa determinante, ed essere sottomessa a una legge, noi possiamo così raramente intendere la relazione precisa esistente fra la causa e l'effetto, che siamo portati a parlare delle variazioni come sorte spontaneamente". Un Darwin dunque che, in sintonia con i maggiori scienziati del suo tempo da Laplace a Lyell, credeva nel determinismo essenziale delle leggi della natura, e considerava l'introduzione del caso nella descrizione scientifica dei fenomeni naturali soltanto come un modo conveniente di tener conto della nostra ignoranza.
A conferma ulteriore della convinzione di Marx che l'eliminazione del caso da una teoria rappresentasse un sostanziale passo avanti per rafforzarne il carattere scientifico, testimonia significativamente un curioso scambio di lettere con Engels, a proposito del libro di un tal Trémaux che "faceva discendere le differenze fra le specie dalla conformazione del terreno". Questa tesi, di stampo lamarckiano, infatti affascina Marx, mentre Engels sostiene che "il libro non vale niente", proprio perché riuscirebbe a "dimostrare necessario un progresso che per Darwin è puramente casuale".
Insomma, anche se, ovviamente, sarebbe sciocco far colpa a Marx di essere figlio del suo tempo, sarebbe altrettanto sciocco negare che il limite principale del suo programma di ricerca stava nel suo "nucleo metafisico" (come direbbe Lakatos) consistente nell'identificazione tra scientificità e determinismo, con il conseguente rifiuto di accordare cittadinanza all'interno della scienza agli eventi casuali e ai processi aleatori, che, come ci insegnano oggi le scienze della complessità, sono componenti essenziali dei processi vitali, possibili soltanto sul bordo del caos, al confine tra il regime ordinato dei cristalli e il regime caotico delle nuvole e delle tempeste.

5.
Conviene dunque a questo punto riformulare in altro modo la domanda. Come avrebbe potuto - viene spontaneo chiedersi - una classe resa indifferenziata dalla tendenza inesorabile del capitale a uniformare ogni aspetto della società e della natura sotto le sembianze di merce, dare origine a una società di liberi produttori ricca di impulsi creativi, di individualità originali, di stili di vita diversi per gusti, inclinazioni e ambizioni? Dove avrebbe trovato questa classe, oppressa dai bisogni più elementari, limitata nei desideri, soffocata nelle aspirazioni, la capacità di farsi carico, quand'anche fosse riuscita a vincere nel conflitto con il suo antagonista, del compito di generare nella nuova formazione sociale quella diversità di soggetti e quella varietà di obiettivi senza le quali è impossibile la sopravvivenza e l'evoluzione di ogni organizzazione complessa? È a queste domande che conviene cercare risposta, perché, come vedremo, questa ricerca può forse aiutarci a scorgere qualche spiraglio di luce fra le nuvole nere che coprono l'orizzonte dell'avvenire. Proviamo a farlo partendo dai problemi di questo inizio di secolo.
Per le ragioni che ho cercato di illustrare nella prima parte del mio ragionamento, sono convinto che l'obiettivo storico della sinistra continui a essere quello di contrastare la inesorabile tendenza del capitale a ridurre ogni bisogno dell'uomo, ogni sua attività e ogni momento della sua vita allo scambio di merci. Ma è la strategia da adottare per perseguirlo che deve essere profondamente cambiata rispetto a quella della tradizione comunista. Intendiamoci bene. Per molti anni mi sono identificato in questa tradizione, e non me ne pento, anche perché l'obiettivo di fondo per me è rimasto lo stesso. Ma è sempre più evidente che essa è del tutto inadeguata ad affrontare i problemi della società del ventunesimo secolo - l'unica che abbiamo dopo il crollo del tentativo generoso, ma fallito miseramente, di costruirne una nuova senza sfruttati e senza sfruttatori. È necessario dunque in primo luogo abbandonare ogni messianica attesa di un soggetto sociale unico e omogeneo - una classe monolitica animata da un progetto alternativo - capace di risolverli. Senza una chiara consapevolezza del fatto che il Messia non verrà, e che le regole formulate dai profeti che nel Novecento hanno agito in suo nome non servono più ad affrontare i problemi della società del Duemila, il sistema continuerà la sua corsa incontrollata.
Dirò di più. È tutta la tradizione marxista nelle sue varie espressioni storiche ad essere inadeguata. Essa è infatti nata e si è sviluppata con l'obiettivo di porre fine alla crescente disuguaglianza tra sfruttati e sfruttatori, tra padroni e lavoratori, tra capitalisti e proletari. Nel perseguire questo obiettivo ha conseguito, accanto a drammatici fallimenti, anche innegabili grandi successi. Il punto fondamentale, tuttavia, è che la realtà sociale non solo non è dicotomica - una classe contro un'altra - ma soprattutto non è unidimensionale. Certo, è ancora vero, anzi è sempre più vero, che la differenza fra le due estremità della scala che va con continuità dall'uomo più ricco del mondo al più povero è sempre più abissale, e dunque sempre più moralmente scandalosa. Ma spesso non si tiene conto che il povero è soprattutto più povero perché gli si è data una lattina di Coca Cola in cambio di tradizioni millenarie che gli arricchivano la vita.
Non basta dunque indignarsi per questo scandalo per farlo cessare. Una volta scesi sul terreno del capitale, assumendo il denaro come unità di misura di tutte le cose, e quindi anche dell'ingiustizia sociale, il capitale ha già vinto. Pochi sono disposti a dare a chi sta peggio una parte di ciò che ha, e chi lo fa, lo fa soltanto perché lo spinge una motivazione che non è stata ancora ridotta a merce.
Come ha argomentato con grande lucidità Amartya Sen nel suo libro fondamentale La disuguaglianza, "l'idea di uguaglianza deve confrontarsi con due differenti tipi di diversità: 1) la sostanziale eterogeneità degli esseri umani e 2) la molteplicità delle variabili in base alle quali l'uguaglianza può essere valutata". Se non si tiene conto di questa multidimensionalità del problema non solo non lo si può nemmeno sfiorare, ma si rischia grosso. Al limite, anche Pol Pot voleva l'uguaglianza, ma semplificava troppo il concetto.
Proporsi come obiettivo diretto l'eliminazione delle disuguaglianze rischia dunque di diventare, al meglio, soltanto una nobile intenzione incapace di raggiungere risultati concreti. Le cose cambiano, secondo me, se si coglie il nesso che lega l'aumento delle disuguaglianze e la distruzione delle diversità. Per esempio, il piccolo produttore di un prodotto tipico unico, diverso, va in miseria perché il surrogato standardizzato prodotto da una multinazionale costa meno. Contrastare la distruzione delle diversità può dunque essere un modo più efficace di combattere le disuguaglianze.
La contraddizione fondamentale della società del capitale globale, come ho cercato di illustrare nella prima parte del mio discorso, sta infatti nella spinta a ridurre tutto all'omogeneità indifferenziata della forma di merce, da un lato, e nella necessità di soddisfare attraverso il mercato bisogni individuali e collettivi che investono tutto l'arco infinito delle esperienze umane, dall'altro. Tanto per fare un esempio, deve ridurre a merce sentimenti ed emozioni, gioie e dolori, bellezza e sacralità, e al tempo stesso deve convincere i consumatori che queste merci sono esperienze "vere" che possono essere vissute nel loro senso pieno anche dopo essere passate attraverso il filtro del mercato.
Se questo è il senso del processo di globalizzazione, occorre porre la questione della difesa della diversità - diversità degli individui, diversità delle culture, diversità delle forme di vita - al centro dell'azione volta a contrastarne le tendenze più pericolose e distruttive. In questo modo la prospettiva cambia radicalmente. Solo un meta-soggetto formato da soggetti diversi decisi a difendere la propria identità minacciata dal processo di omologazione può infatti porsi questo compito. È proprio il carattere locale e parziale dell'interesse di ognuno di essi a salvare la propria identità che fornisce la motivazione di una azione comune una volta che sia stato individuato l'obiettivo. Non è difficile a questo punto vedere nel movimento che a Seattle si è battuto contro il Wto - l'istituzione più significativa di questo processo di omologazione del mondo all'insegna del mercato - un seme che può stimolare l'aggregazione di questo meta-soggetto.

6.
Mi era stato chiesto un intervento sulla nuova scuola riformata, e sull'asse culturale che dovrebbe caratterizzarla. Ma era difficile farlo, in questa fase di rimessa in discussione delle categorie fondamentali di interpretazione della realtà che dovrebbero caratterizzare la sinistra, senza cercare di giustificare preliminarmente il mio punto di vista. Quella che avrebbe dovuto essere una premessa è però via via cresciuta fino a diventare un discorso a sé, non lasciandomi spazio per sviluppare l'argomento specifico che avrei dovuto affrontare. Non credo, tuttavia, di essere andato completamente fuori tema. Avere identificato nella difesa della diversità l'obiettivo di fondo per riuscire a contrastare gli effetti più distruttivi del processo di globalizzazione dell'economia sulle condizioni concrete di sopravvivenza della nostra specie, e le violazioni più ripugnanti dei valori della nostra civiltà che questo processo produce, mi permette infatti di concludere con alcune brevi osservazioni sui contenuti culturali che la scuola del XXI secolo dovrebbe a mio giudizio trasmettere.
La prima riguarda il ruolo che deve assumere, nella cultura della diversità, il pensiero evoluzionista, nodo centrale della svolta vissuta trasversalmente dalla maggior parte delle discipline scientifiche più avanzate negli ultimi decenni del Novecento. Sia ben chiaro, però, che la parola chiave "pensiero evoluzionista" non ha assolutamente nulla a che fare con alcuni nefasti spettri del passato come il darwinismo sociale di Spencer o addirittura l'eugenetica di Galton e le aberrazioni del razzismo; anzi ne vuole rappresentare l'antitesi.
Quelle teorie infatti, non solo trasferivano pari pari sul terreno sociale il meccanismo biologico del processo evolutivo delle specie senza tener conto della differenza essenziale che corre tra queste e le formazioni sociali soggette all'evoluzione culturale, ma, soprattutto, confondevano la competizione interspecifica all'interno di una nicchia e le sue violenze che spesso si traducono nella regola mors tua vita mea, con le relazioni fra gli individui della stessa specie, che comunque, pur nella loro enorme varietà, tendono sempre ad assicurarne la sopravvivenza. Il risultato era, in soldoni, una pseudo giustificazione biologica dell'abilità dell'individuo più forte nel sopraffare il più debole. Nessuna confusione dunque tra "pensiero evoluzionista" e socialdarwinismo.
Il pensiero evoluzionista rappresenta piuttosto, come ho già accennato nel mio articolo sul numero zero della rivista, un nuovo modo di percepire e comprendere il divenire di tutto ciò che esiste. È, per così dire, il trionfo di Darwin su Laplace. Dall'evoluzione dell'universo all'evoluzione della vita sulla terra; dall'evoluzione dell'uomo e della sua mente all'evoluzione delle società e delle loro istituzioni; dall'evoluzione della mappe cerebrali all'evoluzione del sistema immunitario, ci troviamo infatti sempre di fronte all'alternanza tra caso e necessità, tra differenziazione e selezione. Questo significa che conoscenza scientifica e conoscenza storica non sono più due forme fondamentalmente diverse di spiegazione del mondo fra loro incompatibili.
Un cambiamento "paradigmatico" come questo getta dunque un formidabile ponte culturale tra le scienze "dure" e le discipline storiche, e fornisce le basi per una didattica capace di proporre analogie profonde tra campi diversi del sapere, alleggerita dal compito di accumulare masse di nozioni, liberata dall'ossessione di dover coprire tutto lo scibile, aperta a offrire agli allievi una molteplicità di opzioni tra periodi storici da approfondire o settori disciplinari delle scienze da analizzare in maggior dettaglio, lasciandoli liberi di scegliere a seconda dei loro gusti e dei loro interessi.
Questo cambiamento apre anche la strada per una socializzazione del sapere scientifico di vasta portata. La ragione principale infatti che rende la cultura scientifica così ostica alla stragrande maggioranza delle persone non sta tanto nell'astrattezza dei suoi concetti o nel rigore formale delle sue deduzioni, quanto nella sua estraneità rispetto alle cose ritenute importanti nella vita di ognuno. È dunque l'immagine tradizionale di una scienza che ha per scopo di ridurre la complessità della vita, e in particolare della mente e dell'animo umano, a interazioni elementari fra atomi o molecole, che respinge istintivamente la maggior parte delle persone. Questa immagine erige una barriera di diffidenza nei confronti di un sapere giudicato astruso e incapace di aiutare l'uomo a cavarsela nelle contingenze della sua esistenza, fino a generare diffidenza o addirittura paura per le conseguenze imprevedibili che la sua marcia non controllata da vincoli etici e sociali può determinare sul futuro dell'umanità. Ci troviamo dunque di fronte al paradosso di una società che sempre più affida la propria dinamica di sviluppo e la stessa propria sopravvivenza alla ricerca scientifica e all'innovazione tecnologica e al tempo stesso è incapace di trasmettere ai propri figli attraverso la scuola un sistema di valori che giustifichi socialmente ed eticamente questa attività.
Questa osservazione ci porta infine ad accennare a un altro fondamentale problema che la nuova cultura deve affrontare: quello del rapporto fra conoscenza e valori, e cioè del nesso fra la ricerca della "verità" e il perseguimento di "retti" comportamenti individuali e collettivi. Non è una novità: già Dante diceva "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza". Ma ai suoi tempi le due cose andavano insieme. Da Cartesio in poi sono state tenute rigorosamente separate, e l'abisso che le separa si è andato approfondendo. Oggi, tuttavia, questa separazione, codificata nel dogma della avalutatività della conoscenza scientifica che ancora sta alla base della deontologia professionale degli scienziati, comincia a essere rimessa in discussione. Hans Jonas ce ne spiega chiaramente il perché: "Con quello che facciamo qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, - leggiamo nel suo ultimo libro dedicato al tema Tecnica, medicina ed etica - influenziamo in modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a venire, che nella questione non hanno avuto alcuna voce in capitolo... Il punto saliente è costituito dal fatto che l'irrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene, costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo dato di fatto si chiama: responsabilità".
Quando riusciremo a parlare di queste cose nelle nostre scuole?

“la rivista del manifesto” numero  3  febbraio 2000

Nessun commento:

statistiche