Ai primi di dicembre è uscito sul nuovo quotidiano “Pubblico” un articolo di Luciana Castellina che presenta l’antologia di scritti di Lucio Magri appena uscita per “Il Saggiatore”, Alla ricerca di un altro comunismo, curata dalla stessa Castellina insieme a Famiano Crucianelli e Aldo Garzia. Il libro mi pare molto importante anche per la presenza nelle sue pagine di una lunga conversazione con Magri, una sorta di testamento politico. Mi riservo di scriverne fra qualche settimana. Qui “posto” uno stralcio dell’articolo di Castellina, una sorta di profilo del comunista che poco più di un anno fa decise di porre termine alla propria vita. (S.L.L.)
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Lucio Magri, quando, un anno fa, ha deciso di porre fine alla sua vita, aveva lasciato detto che, per carità, non voleva orazioni funebri attorno alla sua bara. «Come alle presentazioni dei libri, in cui tutti parlano di se stessi anziché del volume perché non l’hanno letto» – aveva aggiunto.
E così il suo funerale fu sobrio e muto. E però a una cosa Lucio teneva: che quanto aveva scritto, se vi si fosse rintracciato un interesse, fosse discusso con serietà…
Era cresciuto a Bergamo, e ancora agli inizi degli anni ’50, in quella come nelle altre zone bianche, la scelta era quasi obbligata: la dialettica destra/sinistra era tutta interna alla sventagliata galassia cattolica, il comunismo alla portata solo di qualche piccolissima minoranza operaia, fra cui un ruolo importante ebbe Eliseo Milani, operaio a 14 anni alla Dalmine, poi anche lui con noi e il solo di cui Lucio riconosceva e accettava l’autorità…
Lucio Magri – l’ho scritto anche nel libro – aveva un pessimo carattere,era privo – diceva sempre il suo miglior amico,Michelangelo Notarianni – “dei sentimenti intermedi ”, quelli che rendono umani gli umani. Aveva però quelli fondamentali, innanzitutto una straordinaria generosità intellettuale, nessun interesse a che le idee portassero la sua firma, basta che circolassero. E una grande capacità di autocritica.
Fra gli scritti che abbiamo scelto per il libro c’è la relazione che tenne ad un seminario del Pdup a Bellaria,alla fine del 1977. Si intitola Le ragioni di una sconfitta e vi si affronta con coraggio, di nuovo con anticipazione, il tema della fine del lungo, decennale ’68 italiano. È una analisi molto lucida degli errori altrui ma anche nostri.
Se penso al fatto che il grande Pci è stato sciolto senza una seria riflessione critica sulla sua storia (la sola, peraltro, è stata scritta da Lucio Magri stesso, ne Il sarto di Ulm, pubblicato tre anni fa) ; e che tante pur importanti formazioni della Nuova Sinistra, penso in particolare a Lotta Continua, si sono dissolte senza parole, così come nessuno sembra ancora aver riflettuto sulle scissioni e contro scissioni di Rifondazione Comunista, se non per scambiarsi delle accuse, credo che quella relazione di Bellaria valga davvero la pena di rileggerla.
Si è detto che Magri era un uomo di un altro tempo, del ‘900. Per il peso, la centralità che dava alla politica. Per la sua convinzione dell’importanza del partito come intellettuale collettivo, la forma più avanzata e moderna della democrazia. È vero. Ma in un tempo in cui la politica sembra diventata solo generico antagonismo o declamazione di identità; in cui si è perso l’impegno a costruire una comune visione del mondo; a procedere ad una realistica analisi del reale; a valutare i rapporti di forza per ragionare davvero su come cambiarli e non invece esser sempre più autoreferenziali, incapaci di incidere davvero sul presente e al tempo stesso a nutrire di uno sguardo lungo il proprio che fare; nel momento in cui i partiti sembrano solo intenti a inseguire il consenso anziché proporre una risposta alla domanda di senso, c’è da riflettere se quel che era la politica nel ‘900 non sia tanto più moderna dello spettacolo attuale.
Non si tratta di ripetere modelli ormai irripetibili, ogni stagione deve inventare. Ma a quelli che dicono – parecchi oggi, purtroppo - che “bisogna liberarsi della cultura del 900”, e che questa sarebbe la premessa per dar vita a nuove formazioni politiche, vorrei consigliare di leggere questo libro. Il passato è passato, ma – per citare Giorgio Agamben – se si vuole capire il presente c’è bisogno dell’archeologia non della futorologia. Difficile costruire nuovi edifici se non si è capito e riflettuto – certo criticamente - sulla storia.
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