1.3.17

Sibilla Aleramo nel centenario della nascita (Rita Guerricchio)

Rita Guerricchio, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Firenze, è considerata tra i massimi specialisti sull'opera e sulla vicenda intellettuale di Sibilla Aleramo, cui dedicò il suo primo saggio uscito in volume, Storia di Sibilla (Nistri Lischi, 1974). Nel 1976, in occasione del primo centenario della nascita della scrittrice, Guerricchio scrisse il profilo della Aleramo che qui riprendo per “Riforma della scuola”, la prestigiosa rivista specializzata del Pci diretta da Lucio Lombardo Radice. (S.L.L.)

A cent'anni dalla nascita, Sibilla Aleramo non merita di essere oggetto di occasionale recupero, ha diritto bensì a diventare punto di riferimento stabile e integrante della storia del femminismo italiano, come, più latamente, di quella della società letteraria del nostro Novecento. La ristampa del suo romanzo più famoso ed emblematico, Una donna (Milano 1973), ha consentito una rinnovata messa a fuoco almeno di quel settore della sua produzione letteraria, quanto mai nutrito e sostanzioso, legato al femminismo. Proprio alla luce dell'attualità e forza della sua battaglia femminista, vale la pena allora di ripercorrere in breve le tappe della storia umana e culturale di un personaggio contraddittorio e controverso quanto si vuole, ma provvisto di una sua significativa memorabile singolarità.
Non è scontato rifarsi subito al movente principale delle prime riflessioni di Sibilla sulla «questione femminile», come si diceva a quel tempo, ovvero il movente autobiografico, legato alla geografia provinciale e stantia di un piccolo paese delle Marche, Porto Civitanova, alle relazioni familiari dovute a un padre amabile tiranno e poi ad un marito tiranno niente affatto amabile, precocemente sposato e precocemente in grado di immetterla nel più conforme dei ruoli di una piccolo-borghese 1890. Il rifiuto categorico della propria condizione caratterizzò la fisionomia dei primi nemici come dei primi interlocutori del suo femminismo, entrambi, a ragion veduta, borghesi.
La formazione di stampo positivistico orientò evoluzionisticamente la coscienza della necessità dell’emancipazione femminile, considerata quale tappa obbligatoria di un più generale deterministicamente inevitabile progresso umano e sociale. Ciò in accordo con il suo approdo al socialismo, mediato attraverso letture (Achille Loria, Guglielmo Ferrerò, Edmondo De Amicis) in grado di mantenere intatti certi equivoci legati a un populismo sostanzialmente umanitario e interclassista. Un radicale mutamento sociale, genericamente portatore dell’annullamento di ogni ingiustizia e disparità, fu il mito propulsore dei suoi interventi sulla questione femminile, anche se non sottese mai acquisizioni ideologicamente agguerrite. Eppure l'intransigenza della sua angolazione morale piuttosto che politica, la portò a concezioni e posizioni d'avanguardia: quelle ad esempio che, pur sottolineando il problema della condizione femminile come uno degli aspetti drammatici della più generale e irrisolta questione sociale, non ne sottovalutarono mai lo «specifico» strettamente inerente, ne sottolinearono anzi la carica rivoluzionaria. Il ruolo prescelto fu quello di «guastatrice», sia pure prevalentemente a livello teorico, teso a mettere in rilievo gli pseudo-valori cioè i condizionamenti ideologici imposti alla donna dalla classe dominante, identificata con la classe borghese, responsabile di un perbenismo ipocrita e conservatore, corrotto e reazionario. L'opera di sensibilizzazione e sollecitazione morale si rivolse soprattutto alla «donna proletaria delle classi medie», come a quella che, secondo una definizione delia Kuliscioff, le era autobiograficamente più vicina, e che riteneva la principale complice e vittima del sistema. A questo proposito sostenne il valore emancipatorio del lavoro, in grado di sottrarre la donna al predestinato alienante alveo familiare per inserirla in una «lotta per la vita» che immancabilmente avrebbe precipitato le sue convinzioni nel segno dì un dissenso attivo e partecipe nei confronti della società costituita. E qui Sibilla sottolineava la necessità di una saldatura con il movimento operaio valutato unico depositario e garante di una rivoluzione sociale che avrebbe adeguatamente coronato quella femminile, a patto di non considerare quest'ultima il meccanico risultato di quella.
Sono queste le direttrici fondamentali di un’impostazione che Sibilla via via maturava attraverso diversi articoli inviati alla stampa dell'epoca, stampa non necessariamente specializzata sull'argomento, e a tutt'oggi pressoché ignorata. All’interno del dibattito che in quegli anni si svolgeva sulla questione, quasi interamente in ambito socialista, esponenti e concorrenti principali le posizioni di Anna Kuliscioff e di Anna Maria Mozzoni, le proposte di Sibilla risultano in sostanza compromesse con il versante che non ignorando la necessità e l’importanza di puntuali battaglie rivendicative legate a un’emancipazione politico-economica della donna, riteneva primaria una lotta più ampia e generalizzata per una sua particolare e inimitabile emancipazione sociale. Le agitazioni per il diritto di voto, la parità salariale e la tutela del lavoro femminile, la videro comunque allineata sulle posizioni del Partito Socialista, di cui però non entrò a far parte. Nel 1899 durante una permanenza a Milano, ebbe modo di dirigere il settimanale «L'Italia Femminile», fondato da Emilia Mariani, socialista e tra le voci più autorevoli del dibattito femminista; ugualmente ebbe occasione di conoscere e frequentare diverse e insigni rappresentanti del movimento, Paolina Schiff, Alessandrina Ravizza, Virginia Olper Monis.

La militanza femminista
Costretta a ritornare in provincia, nel 1902 abbandona Porto Civitanova, cioè il marito e il figlio. È l'atto determinante e definitivo con cui Sibilla fa cominciare da sé quella nuova etica dei rapporti umani che aveva sostenuto, e con l’impegno lucido e spericolato dovuto a una conseguenza letterale e ineluttabile delle sue premesse ideologiche. La straordinaria coerenza, e il coraggio per quell’epoca, di una emancipazione vissuta e pagata di persona, radicalizzarono ancor più le sue posizioni, corroborarono la polemica e la protesta contro un'egemonia sociale sperimentata ancor più direttamente. A Roma dove si trasferì, si dedica all'attività filantropica che, in accordo con lo sviluppo del femminismo nazionale, faceva capo all’Unione Femminile. Fra le opere di assistenza sociale promosse dall’organizzazione, collabora in particolare alla creazione di scuole nell'Agro Romano. L'incontro e il legame con Giovanni Cena, socialista dai forti interessi umanitari nonché scrittore già affermato, le conferma il senso da dare all'istruzione, intesa come strumento di affermazione di diritti elementari, momento acceleratore del formarsi di una prima coscienza sociale nei contadini sfruttati dai proprietari terrieri romani. Nel 1909 partecipa con Cena, Josephine Lemaire, Gaetano Salvemini, a un'inchiesta sulle scuole in Calabria, dove si era già recata per il terremoto del 1908.
Sono tutte attività che non escludono il concentrarsi verso una sua nuova dimensione, quella di scrittrice. Nel 1906 infatti esce Una donna, in pratica la storia di se stessa fino a quel momento, proiezione particolareggiata di vicende autobiografiche in cui convoglia risentimenti e proteste già esposte, ma inserite nel vivo di esperienze ancora brucianti.
Chi ha letto il libro, ha potuto constatare di persona l'indubbia suggestione che ancora proviene dalle sue pagine, dove il percorso accidentato di uno svincolo graduale dalle costrizioni tradizionalmente imposte alla donna, viene proposto e discusso con notevole forza persuasiva. Nonostante il lirismo traboccante che lo percorre dall'inizio alla fine, il libro conserva a tutt’oggi la sua attualità, in forza soprattutto della denuncia che si appunta nei confronti dell'istituzione familiare, di cui vengono messi in luce conformismi e pregiudizi e la sostanza reale di struttura funzionale al sistema. È noto, e non fu casuale, i1 successo straordinario che il libro consegui, tradotto presto nelle principali lingue europee. Meno note le discussioni cui dette origine la famosa soluzione finale (appunto l'abbandono del figlio) che al pari dell’ibseniana Casa di bambola, costituì oggetto di polemiche, e non sempre benevole come si può immaginare, da parte delle stesse femministe più avanzate.
In base a ciò la raggiunse una notorietà che fini col coinvolgere piuttosto che la scrittrice, il «personaggio», rappresentativo di una scelta morale che scavalcava istituzioni e convenzioni con un'audacia che non le fu mai perdonata. La prima guerra mondiale la trovò pacifista convinta, sta pure per ragioni umanitarie piuttosto che politiche, e da qualche anno ormai sganciata dal movimento femminista. Coincise infatti con l'inizio di un periodo che all’insegna di un dispendioso disordine esistenziale e sentimentale, vide il formarsi della sua «leggenda», legata a una libertà di comportamento che, pur non aliena da suggestioni estetizzanti, quella di D'Annunzio in primo luogo, si autopropose quale modello di vita e di sistema morale. D'ora in poi è in un certo senso privatamente, ossia sul piano di un'insurrezione individuale, che Sibilla continua la sua battaglia femminista, e. al di là di discutibili archetipi culturali, con imperterrita coerenza. Scriveva nel '27:«Tutta la vita sono stata la refrattaria, la ribelle, oh ma inerme!... La società, non mi perdona proprio questo, non mi perdona ch’io vada sola ed indifesa, io donna, e cosi condanni implicitamente, s'anche in silenzio, il suo modo di essere, e le sue corazze, i suoi pugnali, e i suoi veleni. Non mi perdona, e sì vendica, è logico. Cioè, crede di vendicarsi, forte del suo oro, dei suoi statuti, della sua infinita viltà». Non vennero a mancare dunque né si attenuarono le ragioni di un dissenso antico e ora tanto più motivato. Lo comprese, tra i pochi, Piero Gobetti, che nel '24 le dedicò un saggio, in cui, fuori dai connotati ormai acciarati di Superdonna, le rivendicava forza morale e sensibilità sociale. L’intreccio di nomi, luoghi, occasioni culturali avvicinati con maggiore o minore adesione si fa intanto in questi anni quanto mai fitto e intricato. A Firenze entra in contatto con l'équipe della «Voce», stabilendo intensi rapporti d’amicizia o d'amore con i suoi rappresentanti più significativi, da Papini a Boine da Rebora a Slataper a Campana. Attraverso Boccioni avvicina il futurismo, di cui recepisce l'aspetto eversivo e vitalistico. A Parigi conosce D’Annunzio, al quale sarà legata da infrequenti ma duraturi rapporti di amicizia. Dalla folta corrispondenza (che intrattiene) con i vari personaggi, emerge la sua straordinaria carica passionale, ma anche la coscienza di una infrazione continua e smisurata rispetto al cerchio di pregiudizi e conformismi di cui anche i migliori interlocutori risultano vittime fin troppo passive. Le opere pubblicate tra il '19 e il ’21, il romanzo Il Passaggio, la raccolta di poesie Momenti, il volume di prose Andando e stando, ripropongono la dimensione autobiografica come invariante tematica ormai di tutta la sua produzione, stilisticamente vicina alle esperienze del frammentismo vociano come del D'Annunzio segreto. Anche il suo discorso femminista risulta legato alla sfera letteraria, in relazione al problema della donna scrittrice, cioè alla rivendicazione anche in letteratura di un punto di vista femminile in grado di sottrarsi alla mimesi fino allora verificatasi, di un’ottica ancora essenzialmente maschile. Anche questa polemica suona anticipatrice: sono gli anni del resto in cui una nuova leva di scrittrici (la Manzini, la Banti) si rifanno a Sibilla come al precedente più illustre in Italia.
L'iniziale avversione al fascismo (fu tra i firmatari del manifesto di Croce), trova modo di intiepidirsi attraverso gli anni, sebbene troppo alonata di scandalo fu la sua fama per riuscire ben accetta al regime. Vive appartata e fuori dalla cultura ufficiale, oltre che alle prese con notevoli difficoltà economiche. Le opere pubblicate in questo periodo, e sono ancora romanzi, prose, poesie, ottengono scarso successo, anche se la critica continua a prestarle attenzione.
La seconda guerra mondiale, vissuta in condizioni estremamente precarie, costituì anche per Sibilla il reagente di una nuova presa di coscienza: nel diario che scrive in questi anni (pubblicato per una parte nel ’45), si assiste alla rinascita di antiche convinzioni umanitarie e socialiste. Lo spettacolo della guerra rinfocola la protesta sociale, ma in nome di risentimenti che da individuali tendono a recuperare una dimensione collettiva. Alcune amicizie convalidano le rinnovate esigenze (Debenedetti, Guttuso, Mucchi, Sapegno) e mediano il suo passaggio al comuniSmo. Nel '46 infatti si iscrìve al Partito comunista italiano al quale rimane legata sino alla morte (avvenuta nel gennaio del ’60).

La «quarta esistenza»
Il mito della giustizia sociale, l'esaltazione del popolo lavoratore, sempre contrapposti all'ipocrisia e alla corruzione della classe borghese, nell’ambito di una volontà palingenetica già fondamentale nei suoi precedenti socialisti, trovano sbocco naturale nel partito, subendo un principio di rigore ideologico e di concreta verifica. Comincia cosi quella che lei chiamò la sua «quarta esistenza», o «seconda giovinezza» come dissero altri, vedendola a 70 anni impegnata in una milizia che se escluse sempre sapienza dottrinale o ampiezza di analisi, fu tuttavia assidua e appassionata. Presente in molte delle iniziative culturali del partito, come intellettuale si sentì in dovere di compiere opera di diffusione e divulgazione, andando in giro per l'Italia, nelle case del popolo, a leggere le sue poesie, i suoi resoconti di viaggi nei paesi socialisti, le sue lunghissime frastagliate memorie. Rinnovato anche l'impegno femminista, entra nell'Udi e collabora di frequente alla stampa femminile del partito, in particolare redige per qualche tempo su «L'Unità» una rubrica diretta esclusivamente alle donne. Non cambiò sostanzialmente l'impostazione data un tempo alla questione femminile: sia pure innestati nel corso di battaglie precise e ancorati più strettamente a un obbiettivo politico, i suoi rinnovati appelli si svolsero sempre, ed è quanto ci lascia in eredità, nel senso di un'auspicata determinante interiorizzazione da parte della donna non solo dei diritti da conquistare ma anche di quelli già conquistati. Poiché, come scriveva, nell'ambito di una « lotta per l’uguaglianza morale e civile nella famiglia e nella società [...] moltissimo è ancora da fare, qui in Italia, [...] nel costume, nello spirito ». La necessità di una reale incidenza della donna in una società da trasformare valutava dunque nei giusti limiti anche la sua uguaglianza formale, del resto consentita dalla società capitalistica in grado di manovrarla e svuotarla di senso e di mantenere intanto una subordinazione reale.
Ciò che pubblicò risulta strettamente legato al suo impegno sociale: raccolse articoli e conferenze in Il mondo è adolescente (1949) e in Luci della mia sera (1956) l'ultima produzione lirica. Sono opere in cui sia pure in mezzo a mai abbandonati risvolti oratori, si insinua con forza quel «sì alla terra» che secondo il titolo sintomatico di una sua raccolta di poesie del '35, equivaleva al suo vitalistico ma intrepido e incessante «ottimismo della volontà». In questo senso da promuovere e da condividere, ancora.


"Riforma della scuola", ritaglio senza data, ma 1976

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