Valentino Zeichen |
Nell'universo di
Valentino Zeichen non c'è posto per la grazia. Il poeta non è una
creatura speciale, ispirata, palpitante. È una persona che
prevalentemente vive immersa nel conflitto. Il soldato Zeichen -
così viene di presentarlo - imbraccia robusti Kalashnikov e vola
su vecchi Spitfire: strumenti o meglio immagini mentali con cui
combatte la sua lotta per la sopravvivenza. Mi riceve dritto sulla
soglia della sua ormai mitica "baracca", ultimo avamposto
di un mondo solo in apparenza pittoresco. In realtà duro e povero:
una perla di squallore che brilla di opaca grandezza, nel cuore di
Roma. Ho letto con ammirazione la raccolta completa delle sue poesie
(in uscita domani da Mondadori). Non vi ho trovato disagio,
disperazione, infelicità, invocazione. Ma la disciplina del naufrago
che conta i giorni che lo separano dalla costa: "Non saprà mai
quando avvisterà terra, ma è per quella, in funzione di quella che
il naufrago si organizza", commenta Zeichen.
Cosa ama della
disciplina?
"È una domanda che
mi inquieta".
Perché?
"La disciplina fa
pensare alla difesa dell'ordine costituito. Io difendo solo me
stesso".
Da chi?
"Dai fantasmi, dai
topi, dagli scarafaggi, dai vicini. La disciplina è un esercizio
tutt'altro che astratto. Se vuoi sopravvivere, come nel mio caso,
bisogna sviluppare notevoli capacità organizzative".
Notevoli quanto?
"Arte
dell'adattamento. E del bricolage domestico. C'è stato un tempo in
cui stiravo. Le camicie erano il mio forte. Cadute le ambizioni
mondane, non stiro neanche più. Roma mi accetti come sono. Del resto
ci vivo, tranquillamente, da più di mezzo secolo".
Dove è nato?
"A Fiume. Lì ancora
si agitano i ricordi improbabili dell'impresa dannunziana. Ebbi un
padre legionario. E una madre sovrastata da un cattivo destino. I
miei si separarono che avevo tre anni. Quando ne avevo sette, Evelina
morì di tisi. La vidi l'ultima volta in una colonia marina. Era già
autunno. Ci prolungavano il soggiorno. Arrivò sorridente con i suoi
bellissimi denti e un pallore spettrale. Poche parole. Convenzionali.
Poi l'altoparlante avvertì che le visite stavano per finire. Se ne
andò promettendo di tornare. Sapevo che fingeva".
Che anno era?
"Il 1945. La guerra
era finita. Ne cominciò una peggiore. Il trasferimento nei campi
profughi. Vita da sfollati in una zona non lontana da Trieste.
Facevamo la fila per il pane, per le lenzuola, per tutto. Poi finimmo
a Roma. Come giardiniere del comune fornirono a mio padre un alloggio
nelle stalle di Villa Borghese. Ho passato lì la mia adolescenza.
Spesso scappavo di casa. Alla fine papà e la matrigna decisero, in
accordo con il commissario, di spedirmi in un riformatorio".
Dove?
"In una casa di
correzione a Firenze. Quasi tre anni. Studiai da perito chimico. La
sveglia alle sei e trenta. La scuola a Rifredi. Mi salvai grazie alla
fornita biblioteca del "collegio". Lessi di tutto.
Voracemente. Salgari, Tolstoj, Cechov, Balzac. Se sgarravi ti
punivano. Ho imparato, in un ambiente di ragazzi difficili, a
sopravvivere".
Come?
"Non pestando i
piedi. Vestivamo da galeotti: con la divisa a righe. I capelli
tagliati quasi a zero. La domenica, a messa, i fedeli ci guardavano
come fossimo dei criminali".
E i suoi non vennero a
trovarla?
"Mai. Papà aveva
altre priorità: i tuffi, il ballo e le scarpe. Aveva una venerazione
per le scarpe, soprattutto bicolori. Un sentimento, forse l'unico,
che mi ha trasmesso. Quanto al ballo ci portava, quasi tutte le
domeniche pomeriggio, alla sala Pichetti. Era il solo che ballava ".
Voi guardavate?
"Sì, la matrigna
che non faceva che lamentarsi. Mi trascura, diceva. Non si preoccupa
se qualcuno mi guarda il culo, aggiungeva. Che uomo è? Concludeva
inferocita".
Che uomo era?
"Dovrei detestarlo.
Ma fu un uomo che alla fine dei suoi giorni capì il senso della
vita. Cioè del suo esistere per niente. Si accorse che per tutto il
tempo aveva pensato solo alla distruzione del suo mondo".
Veniva da lontano.
"Ma non andò da
nessuna parte. Si accompagnò solo con quella ridicola tomboletta
della matrigna".
Non ne ha un gran
ricordo.
"Si sbaglia, devo a
lei se sono diventato un poeta. Devo alla sua meticolosa crudeltà il
fiorire delle mie parole. Avrei fatto qualunque cosa per esaudirne il
desiderio. Certe tarde mattine mi obbligava a metterle lo smalto
sulle unghie dei piedi. Poi, con uno specchietto, controllava il
risultato. Era affetta da una demenza teatrale che mi ipnotizzava. Fu
una musa ostile e involontaria".
Cosa le ha dato?
"Quel tanto di
follia profonda senza la quale non si fa poesia".
Finiscono gli anni del
riformatorio e torna a Roma.
"Mio padre mi dice:
o ti trovi un lavoro o vai via di casa. Mi occupai prima come aiuto
tipografo e poi come fattorino. Con una bicicletta distribuivo nelle
parrocchie i vangeli che la tipografia aveva stampato. Credo di non
essere mai stato così vicino al sacro come in quel periodo. Poi mi
iscrissi a una scuola di recitazione. Avevo 18 anni ".
Voleva fare l'attore?
"Frequentai per due
anni l'Accademia di Sergei Sharov, un signore scampato ai bolscevichi
che applicava il metodo Stanislavskij. Forte di tutto quello che
avevo letto, cominciai ad amare il teatro. È difficile avere una
profonda cognizione di ciò che accade senza buone letture alle
spalle".
E che percezione ebbe?
"Era la metà degli
anni Cinquanta. Roma stava cambiando pelle. Le greggi di pecore erano
soppiantate dai primi gruppi di turisti americani. Stava per
esplodere la "Dolce vita"".
Con che spirito
l'affrontava?
"Con diffidenza.
Frequentavo Villa Strohl Fern dove c'erano i miei amici artisti.
Molto meno via Veneto e i suoi caffè frutto di un'acida cordialità
letteraria".
Restavano pur sempre
le periferie.
"Erano un orrore che
neanche il comandante Kurtz avrebbe potuto tollerare. Non ho mai
capito Pasolini e la sua carica di retorica per le borgate. Non ho
mai condiviso quel suo tentare di rendere compartecipi gli altri alla
tragedia della sparizione delle lucciole. Sui vantaggi della luce
elettrica potrei scrivere un trattato".
Vive in un ambiente
che sarebbe piaciuto a Pasolini.
"Non credo che ci
avrebbe mai abitato. Occupò, forse a sua insaputa, dimore più
signorili. I poeti e gli scrittori spesso si ostinano a immaginare un
altrove comodo ed esotico".
Come definirebbe la
sua poesia?
"La mia poesia è
senza speranza. Non parlo di mondi onirici. Nella mia poesia entra la
comicità, l'ironia, la precisione. Ci sento lo zampino della
matrigna. E quindi la diffidenza verso il sentimento. O meglio: verso
la menzogna del sentimento. Esiste una purezza della poesia alla
quale sono fedele".
Quale?
"L'esclusione del
cuore. Non mento mai. Il meccanismo della scrittura può ingannare il
lettore, ma non la sostanza che abita la poesia".
È duro scrivere
poesie?
"Cosa vuol dire
duro? Si può scrivere un verso meraviglioso in trenta secondi. E in
perfetta surplace. Sono un poeta d'occasione. Non di quei miseri
solitari e ambiziosetti che soffrono e palpitano. La poesia mi ha
aiutato a procurarmi pranzi e cene".
Alberto Moravia
apprezzò i suoi versi.
"Ci vedeva il
riverbero del suo realismo. Più esattamente definì la mia poesia
un'eco di Marziale nella Roma contemporanea".
Insomma, è un poeta
epigrammatico.
"Preferisco
definirmi occasionale".
Perché?
"Sono uno svogliato.
La mia poesia maschera la mia pigrizia. Non ho volontà di andare a
fondo. Non l'ho mai avuta".
Teme il suo inconscio?
"Al contrario! La
mia vita è solo inconscio. Non ho niente da nascondere. E poi...".
E poi?
"Detesto la
presunzione dell'intelligenza che molti hanno a loro insaputa. Un
buon inconscio spazza via tutto. Cancella la presunzione. Se sei un
imbecille viene fuori in maniera evidente. Molto più che se hai
talento".
E lei si riconosce del
talento?
"Sono gli altri che
devono riconoscerlo. Un poeta rischia solo la propria disfatta. Per
questo gli occorre disciplina. E strategia. Penso alla mia poesia
come a una variante della geopolitica".
Conquista dei mondi?
"Conoscenza dei
mondi. Pensare il mondo è dare del tu al tempo. Una confidenza che
ritrovo solo nelle grandi opere d'arte. La mia poesia si è spesso
occupata d'arte".
Il fascino di
sottomettersi al capolavoro?
"Una forma di
feticismo. Che ho sviluppato con la lunga frequentazione dei musei.
Vi andavo perché non avevo nulla da fare o per rimorchiare. Quando
svanivano le ragazze, restava il giudizio estetico ".
Ha avuto parecchie
donne?
"Non ho mai fatto la
corte e sono quasi sempre stato conquistato. La mia vita sentimentale
è stata un continuo insieme di fughe. Con qualche storia più lunga
e importante. Ma alla fine, come direbbe Fitzgerald, sono decisivi
gli estratti conto. Il mio è quasi sempre stato in rosso. Cosa
potevo offrire?".
Meglio soli?
"Sì, con qualche
saltuaria compagnia".
So che ha una figlia.
"Nata fuori dal
matrimonio. Per caso. E penso non ci sia modo migliore per nascere.
Oggi ha 40 anni e fa la biologa marina in Inghilterra ".
Che rapporti
intrattiene?
"Di affetto e
cordialità. Mi rendo conto di essere stato un padre solo per
l'anagrafe. Ho applicato le regole della vecchia scuola di famiglia
".
E se ne pente?
"No, la cosa che in
fondo ho amato di più è stata la libertà. Nel suo nome avrei fatto
qualunque cosa. Ho combattuto solo per essa. So che ci sono regole da
rispettare. Ma la testa deve essere libera. Anche al prezzo di
restare poveri".
Le pesa la povertà?
"Relativamente.
Delle volte se non ho da mangiare digiuno. Mi convinco che fa parte
della mia dieta. Sono un esempio di quella decrescita su cui molti
oggi blaterano. Quante inutili parole per dire: consumate meno,
camperete più a lungo".
Come vede la
vecchiaia?
"Invecchiare è
orrendo. Perdere la propria autonomia è orrendo. Siamo sempre lì:
una questione di libertà".
Cosa l'ossessiona
della libertà?
"Me lo sono chiesto
spesso. Non ho risposte leggiadre".
La dia greve.
"Sono per la libertà
di non fare un cazzo. Questa è la verità. Non ho voglia di
impegnarmi in niente. Mi sono inventato la poesia d'occasione per
lavorare poco. La mia conclusione è che la vita o la interpreti con
un pizzico di fantasia o ti adatti al suo spietato grigiore ".
Da che parte si mette?
"Dello spietato
grigiore, ovviamente. Non puoi evadere dalla realtà".
La letteratura lo ha
fatto spesso.
"Quella occidentale
è stata grande quando non si è imposta con degli atti arbitrari
della fantasia. Fino a quando Kafka interpreta lo "spietato
grigiore" è superbo, quando trasforma un uomo in uno
scarafaggio commette un arbitrio".
Non è ammissibile?
"Non è plausibile.
Non dico che sia sempre così. Nel mondo islamico delle Mille e
una notte, dove tutto è possibile, anche un tappeto può volare.
La nostra tradizione, invece, è basata sul diritto dei fatti. Se no
il mondo si sfalda, si distrugge".
Ne difende la
compattezza?
"Difendo le
ingiunzioni sulle procedure mentali. La verità è una faccenda
seria. Noi abbiamo una scuola, una tradizione. Forse manchiamo di
futuro".
Come vede il suo?
"Per dirla con un
mio verso, sono come quei vecchi ragazzi che videro nel retrovisore
molti coetanei sparire nell'avvenire. Più si invecchia più il tempo
accelera e ti inghiotte. C'è una poesia di Kenneth Patchen: solo da
qui a qualche anno l'erba crescerà sulle nostre tombe. Siamo a
cavallo del divenire. Poi, a un tratto, verremo disarcionati ".
Come si immagina il
dopo?
"L'aldilà lo penso
come un paradiso per ricchi: il nulla più frivolo che si possa
immaginare. Uno, cento, mille Billionaire. Lusso per pochi eletti.
Insomma, la solita fregatura".
È sempre così
caustico?
"Il sentimentalismo
mi offende. La vera sensibilità è irrisa e derisa. La cosa più
terrificante è che indossando delle belle corazze continuiamo a
parlare di disponibilità, di educazione, di solidarietà senza
capire che la sensibilità è morta. Pochi privilegiati possono
permettersi questo oscuro sentimento così poco democratico".
“la Repubblica”, 16
febbraio 2014
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