15.4.17

Due libri dall'Umbria. Primavera, primavere... (Salvatore Lo Leggio)

In origine c'è un incidente – reale, sognato, immaginato non importa – con un “indice … ingrossato” e c'è un programma: “sintonizzarmi alla primavera / reimparare il vagito”. Parte da qui il viaggio poetico di Sergio Pasquandrea nella sua terza silloge, Un posto per la buona stagione (edizioni qudu, Bologna, 2016). Oggetto della ricerca è l'identità, gli strumenti sono quelli classici della poesia, il sogno, il ricordo e soprattutto la parola, campo privilegiato di investigazione è il corpo, un corpo che – come la mente - “non ci appartiene”. Pasquandrea, insegnante, musicologo e poeta, foggiano di nascita, perugino d'elezione, ama comporre in una struttura per quanto possibile coerente i suoi frammenti lirici e sembra preferire ordinamenti in cui sia possibile riconoscere un percorso, una sorta di narrazione. E la cosa - qui come nella prima raccolta Approssimazioni - gli viene facile, naturale, sicché l'impalcatura narrativa non risulta essere un contenitore neutro di brani poetici, ma struttura attiva, capace di entrare in relazione con essi producendo senso e persino di generarne di nuovi. È pertanto utile individuare la trama.
Il titolo della prima sezione del libro, “Il sonno della materia”, è un calco dalla frase, non priva di ambiguità, che correda uno dei più celebri Capricci di Goya: lì a dormire (o forse a sognare) era la ragione, qui la materia, ma qui come lì la produzione di mostri è assicurata. In Lazzaro il risveglio si fa resurrezione ma dallo “specchio/ livido” ciò che emerge è “un groppo di tratti non miei”. La crisi dell'identità si fa più esplicita in Invasione ove si preannuncia l'avanzata di “nemici dagli occhi di mosca” nella propria stessa carne. I risvegli (con “l'esfoliazione della coscienza”) come i ricordi accentuano sofferenza e senso di inadeguatezza, sembrano confermare che “il corpo non ci appartiene // (e la mente neanche)”.
“Domesticazione della notte”, la seconda sezione inizia con un testo, il cui titolo Riti di passaggio segna il tono per la musica che vi si esegue. Le poesie alludono a passaggi impervi, talora li nominano (“la caduta a piombo” nel sonno, il “confine tra la pioggia e il tepore”, lo “slancio della traversata solitaria” e altri ancora), ma qui emerge e si afferma un “tu” che è sempre meno il tu istituzionale dei montaliani, e sempre più il pronome della confidenza e del dialogo, dell'apertura all'altro, forse dell'amore. Un amore dagli “occhi allegri”, che è arma di difesa verso quelli che “vanno in giro / con la faccia sigillata / le parole amare come ferro...” e che autorizza la speranza: “arriverà il giorno come un lupo buono / a consolarti”.
Non a caso è una bella, antica e moderna, poesia d'amore il Memorandum N.2, il testo che apre la terza, conclusiva e brevissima sezione: l'incipit (da cui deriva il titolo della raccolta) è ipnotico, da recitare in dormiveglia, è in senso proprio affascinante (“Cerchiamo – dicevo – un posto / per la buona stagione / perché non si sa mai ...”), il finale è luminoso: “sei così bella che non ho più voglia di sognare”. Ed è notevole la lirica filosofica che segue, De consolazione, che si conclude con una meditata lode dell'amore e della vita (“... la vita è più importante della morte / perché è più breve”).
Ed è ancora l'amore, sempre pieno di sorprese, a far concludere che “il peggio è passato” in Variante di valico.
Il racconto finisce qui. L'ultima poesia Commiato è una dichiarazione di poetica (“Dovremo un giorno liberarci delle nostre voci / come i bambini liberano le gambe dal peso // e scrivere poesie tutte diritte e taglienti / fuochi rapidissimi svaniti // prima di sporcare l'aria”). Questa dichiarata aspirazione ad una lirica purissima, nella ricerca di Pasquandrea, si pone però in contraddizione paradossale e feconda con una pratica poetica che si nutre dell'impuro della corporeità, delle scienze sperimentali, della medicina.
Mi piace citare ancora un brano dal Memorandum N.2, una sorta di raccomandazione (“E poi si sa che la primavera incide / il cielo fra i tetti / difficile è farsi trovare pronti non c'è inverno / che tenga non c'è pensiero / che duri più di un abbraccio”). Funge da utile raccordo con il secondo libro di cui qui si tratta, uno strano romanzo di idee di Mariano Borgognoni, dal titolo emblematico Le primavere nascono d'inverno (Cittadella editrice, Assisi, 2016).
Borgognoni è stato dagli ultimi anni 70 del secolo scorso fino ai primi anni del secondo millennio esponente politico della sinistra (Pci, Pds, Ds) con ruoli di prima fila (tra l'altro presidente del Consiglio regionale e presidente della provincia di Perugia). È tuttora – credo – nel Pd, sebbene senza ruoli pubblici ed in esplicito dissenso dalla dominante linea renziana: era tra i firmatari dell'appello per il No nel recente referendum costituzionale. Negli ultimi quindici anni, oltre ad esercitare la professione di insegnante di filosofia nei licei, ha seguito un'altra sua vocazione, quella religiosa, impegnandosi in regolari studi teologici e, poi, insegnando Teologia. Oggi è tra i collaboratori più impegnati della Pro Civitate Christiana di Assisi, retta da Tonio dell'Olio. Nel frattempo ha pubblicato diversi libri, di saggistica prevalentemente religiosa e di narrativa. Ma Le primavere è qualcosa di più dell'ultimo libro di Borgognoni, ha l'ambizione di essere il libro della vita, sebbene non sia, in senso proprio, un'autobiografia. Non solo c'è tanta “invenzione”, ma sono assenti gli eccessi dell'io che caratterizzano il genere, prevale piuttosto un “noi” generazionale e di gruppo. Nel libro in ogni caso confluiscono e si compenetrano la passione civile e l'inquietudine religiosa dell'autore e vi trovano spazio gli eventi, i passaggi, le figure, i libri, i dibattiti che ne hanno segnato la vita. Centrale è la figura di Alexander Dubcek, che del libro diventa uno dei personaggi, attraverso la descrizione di una visita in Italia e in Umbria dallo svolgimento improbabile. A Dubcek viene fatta raccontare, in forma diretta, l'esperienza della “primavera di Praga” e del “socialismo dal volto umano”.
Ma questo è solo uno degli aspetti di un libro complicato e ricco.
C'è, fortissima, la gioia del raccontare e dell'ascoltare, sottolineata dalla pluralità delle voci narranti, che moltiplica i punti di vista. C'è la saga familiare della famiglia Felici, dal vecchio e mitico Sabato, medico, sindaco, comunista libertario, erede di una tradizione familiare di impegno sociale e civile a Evel, partecipe di tutte le le battaglie del suo tempo e insieme abitata da una vocazione religiosa fortissima. C'è l'ecumenismo, il dialogo interreligioso. E c'è l'Umbria, con i suoi paesi, i suoi eremi, la sua vegetazione, le sue tradizioni politiche.
Si può parlare di cattocomunismo, a proposito di questo libro? Sì, se si libera l'espressione delle connotazioni polemiche e macchiettistiche. Il cattocomunismo (o comunque lo si voglia chiamare) che da questo libro emerge è, infatti, privo di connotazioni moralistiche e autoritarie e appare semmai percorso da venature libertarie. Il libro di Borgognoni ci dice che ci sono state, nel secondo Novecento, al di là delle reciproche scomuniche, aree di confine in cui cristianesimo di base e comunismo di base invece di combattersi si sono incontrati, hanno dialogato e si sono contaminati. E ci suggerisce che da questa vicenda tenta di attingere forza nel suo progetto di rinnovamento il papa argentino. Ma questo è un altro discorso...  

micropolis, marzo 2017

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