«Ieri ho giocato a
tennis, sono quasi vivo». Ieri l’altro, a Londra, non pago di
sessant’anni di giri del mondo a inseguire gli Slam e le sue
leggende, aveva assistito al solito atto tirannico di Novak Djokovic
contro il suo beneamato Roger Federer, ultimo custode di un tennis
classico che non è più. Il volo per Melbourne del prossimo gennaio,
per gli Open d’Australia si intende, è stato depennato per
precauzione, «ma ho sfiorato il tragitto in nave: trentaquattro
magnifici giorni, finalmente avrei fatto un diario di viaggio. Però
la compagnia non accetta gli over ottanta. Andrò e cercherò di
convincerli: che mi facciano un esame, a loro scelta».
Farsi prendere per mano
dalle storie di Gianni Clerici, autoironico e consapevolissimo
giovanotto a metà del guado tra gli ottanta e i novanta, è come
volare aggrappati al tappeto delle Mille e una notte. Si
volteggia su una tavola di osteria dell’Oltrepò, con pinta di
barbera obbligatoria sulla tovaglia a quadri e schermaglie verbali in
compagnia dell’amico Gioann Brera, negli anni storici della
redazione del Giorno (un dream team che ancor più oggi, in
tempi grami, fa tremare le vene ai polsi: l’immaginifico boss,
detto “principe della Zolla”, il suo protetto Clerici, Mario
Fossati, Pilade Del Buono).
Eppure, l’anticarriera
del narratore per eccellenza del tennis è stata parallela alle
medaglie: «La mia unica carica in un giornale? La direzione della
pagina dello sport di quel quotidiano: un giorno. Servì per mandare
via uno cattivo, che non merita neanche di essere citato. Poi, Brera
e io la affidammo a Giulio Signori, un genio nel fare i titoli, uno
che scriveva bene di tutto». Erano gli anni in cui non esisteva
ancora “la Repubblica”, che avrebbe strappato Clerici al
quotidiano dell’Eni a fine anni ’80; “il Giorno” tirava 250
mila copie, il Corsera 600 mila, “La Stampa” e “l’Unità”
400 mila, internet non aveva ancora soppiantato l’edicola. Un altro
mondo.
Un battito di ciglia e ci
si ritrova a Montagnola, sulle tracce del sciòr Hesse: perché i
liceali comuni, al più, Siddharta lo hanno letto o finto di
apprezzarlo. Invece, Clerici trovò giusto andare a cercarlo in
Svizzera. E lo trovò, preso a dipingere uno scorcio sul retro di
casa.
Un respiro e zac!, si
viene proiettati sul centrale di Wimbledon. Anzi, un po’ più in
là: il Clerici Gianni atleta, ai Championships di Church Road, ci
arrivò la prima volta in Cinquecento, imbarcandosi sul ferry boat
alla volta di Dover dopo aver percorso in solitaria la Como-Calais.
Giocò sul campo 16, un primo turno di lunedì dell’edizione 1953,
«e persi contro Laszlo, uno jugoslavo che avevo strapazzato mesi
prima sulla Costa Azzurra, tennista ancor più modesto di me. Per due
set non capii nulla di quei rimbalzi», anche se il tempo del match
gli fu sufficiente per accorgersi di due spettatori particolarmente
interessati, emissari dell’ambasciata, mandati a dissuadere il suo
avversario da legittimi propositi di richiesta di asilo politico. La
guerra fredda, il patto di Varsavia, la Jugoslavia tenuta insieme
dalla ferocia di Tito: sembra un altro pianeta, anzi, lo è.
Ancora un salto e giù, a
rotta di collo per le viuzze di Pamplona, alla ricerca del
significato esoterico della corrida, in compagnia di un tennista
danese a dir poco stravagante (era il barbuto Torben Ulrich,
curiosamente padre di Lars, il batterista della band dei Metallica)
prima dell’incrocio, indimenticato, con Hemingway, sorpreso durante
l’encierro di San Firmino seduto a bere anice al bar Txoko.
Se Bruce Chatwin fece un
libro sulla sua irrequietezza di anima errante, il suo ammirato
lettore Gianni Clerici (che aborre il “lei”) è l’irrequietezza.
La sua ultima opera – altre due sono in ballo per l’anno venturo,
non sia mai abbandonarsi al divano – è «una bio-eterografia. Ma
sì, perché ho conosciuto gente più famosa e molto più
interessante da raccontare», si schermisce, sfogliando Quello del
tennis – Storia della mia vita e di uomini più noti di me. «Ho
rinunciato alle cariche e viaggiato anche per scappare, per non
lavorare in un giornale. Mi è andata bene così: fare il cosiddetto
inviato speciale. Anche perché il giornalismo che mi piaceva, e che
ogni tanto riuscivo a fare solo dopo aver seguito il fùtbal, il
basket o lo sci, erano proprio i taccuini di viaggio. Ne ho in
quantità. Purtroppo, ai miei tempi, quel genere non esisteva; gli
unici a cimentarsi erano Nievo, il giovane Barzini, Guido Piovene».
Atleta, scrittore,
giornalista, autore teatrale, commentatore in tivù con il sodale
Rino Tommasi, una fama tollerata ma non agognata di quel del tennis
(«Vado a vedere nella mia libreria, ma sospetto di aver scritto 13 o
14 romanzi, più due libri di racconti e le poesie. Di tennis, in
fondo, solo cinque: son mica tanti»): Clerici poteva essere tutto o
anche niente, figlio di industriali «che aveva da mangiare senza
bisogno di fare altro». Lo sforzo di rimanere monografici, anche
conversando, è improponibile. È stato spesso in odore di un
qualcosa che non si è realizzato «e in un certo senso sì, dico che
ho vissuto l’esistenza del dilettante nel senso antico del termine:
uno nato da buona famiglia cui fu concesso il lusso di attività che
non avessero a che fare col lavoro». Quasi parlamentare per
desiderio di Pannella, quasi presidente della federazione tennis;
quasi disegnatore, quasi botanico, quasi mercante d’arte. «Ma
essendo l’ultimo erede dei Clerici borghesi mi sono messo a fare il
giornalista, direi per scarsissima fiducia nelle mie possibilità e
per un obbligo sociale di guadagnare qualcosa».
La scorciatoia della
letteratura da quotidiano, quella che Brera raccontava come il
destino di «ricevere soldi e applausi dagli analfabeti» per la
produzione di una prosa magari degnissima ma caduca, nata al mattino
e già defunta la sera, per lui è stata una camicia di forza,
seppure della miglior seta comasca: «È che per Brera era un
destino: era nato povero, figlio di mezzadri. Aveva vari fratelli, ed
era l’unico ad aver fatto l’università a Pavia, accettato al
Ghisleri per meriti scolastici. Tra lui e me c’è stata questa
differenza di origini, per cui col giornalismo lui doveva guadagnare,
io no». Ecco perché, ogni tanto, Brera lo invitava a «piantarla
col maledetto tennis» e prendere a organizzare dei party nella villa
sul lago, magari per guadagnarsi la benevolenza di chi votava per lo
Strega. Come Maria Bellonci, padrona di casa del salotto in cui il
premio venne concepito, la prima a marchiarlo con la (presunta)
diminutio del cronista tennistico: «“Lei è quello del
tennis?”, mi chiese, soggiungendo che sapevo usare i congiuntivi e
i condizionali». Come fosse, già nel 1965, un attributo di
eccezione per i giornalisti sportivi.
Scherza, Clerici, sulle
carte bruciate per indegnità, sulla vecchiaia che gabba ogni santo
giorno vivendo e lavorando come due quarantenni in uno e, in omaggio
all’insoddisfazione, sul libro che vorrebbe veramente scrivere: la
biografia delle cose come non sono andate e dei fatti che non sono
successi. Da ragazzo, ad Alassio, frequentava il figlio di Gino
Cervi, i fratelli Spinola, Paolo Ambrogio e Giorgio Arlorio: altre
occasioni di lasciare la racchetta e le pagine sportive dei
quotidiani, eppure «chi lo sa perché, curiosamente mi sono tirato
indietro pure quella volta ed è finita che non mi sono messo neanche
nel cinema».
La giostra dei personaggi
e degli aneddoti fa perdere la contezza del tempo e dello spazio, di
ciò che è vero o solo verosimile, serio o burlesco, il filo del
discorso sembra perdersi e invece no, perché il nesso tra Rod Laver
e Oscar Wilde forse non si vede, ma c’è. Si finisce per atterrare
sulle sorti del giornalismo ai tempi dei giornali col collo
strozzato, dei contratti di solidarietà, delle informazioni
polverizzate su Facebook e Twitter, della scrittura in estinzione. «E
chi lo sa. Non avrei 85 anni, se sapessi dire chi sarei e cosa farei,
se mai iniziassi a lavorare oggi. Una volta ho conosciuto per sbaglio
a New York, dopo aver giocato un doppio con Dinkins, il sindaco nero
che faceva deviare gli aerei perché non passassero su Flushing
Meadows durante il torneo, il boss del New York Times. Mister
Sulzberger. Mi disse: “Guardi che noi, tra dieci o quindici anni,
non ci saremo più”. Invece si era sbagliato: la carta c’è
ancora. Io non sono in grado di immaginare cosa capiterà, ma mi
riesce difficile pensare che non possa sopravvivere una forma di
scrittura. Per conto mio, ho sempre consigliato a tutti, quelli bravi
intendo, di non scrivere di sport, magari sbagliando. Perché ci sono
stati Ring Lardner e Damon Runyon, Hemingway stesso e John Fante, che
sono nati nel giornalismo e poi diventati scrittori. Altri, non mi
risultano».
Neppure Brera, che
Umberto Eco definì un «Gadda spiegato al popolo» e l’etichetta,
racconta Clerici, fu fonte di dispiacere per l’interessato – e
pure per lui – perché diminutiva e, in definitiva, ingiusta. Con
altra classe, Italo Calvino ebbe a dire che Gianni Clerici è uno
scrittore prestato al tennis. Un prestito senza patto di riscatto,
giacché il cronista dei successi di Ken Rosewall e Lew Hoad, Stan
Smith e Nastase, Borg e McEnroe, Lendl e Becker, Sampras e Agassi
fino ai mostri del nuovo millennio avrà sì trascorso la vita
(fingendo?) di inseguire chissà quale conferma o accettazione
terrena lontana dai campi da tennis ma, nel mentre, e forse non del
tutto consapevolmente, ha provveduto a creare una maniera, una scuola
– che risulta senza allievi – nel racconto dello sport. Il
rifiuto di raccontare ciò che non ha visto e sentito con occhi e
orecchie non mediati «dall’apparecchio», nome clericiano del
televisore, ha vinto: i giornali hanno deforestato le tribune
cancellando inviati e trasferte, Google ha soppiantato il reporter,
le sale stampa si desertificano. Eppure lui c’è: l’unica
concessione alla tecnologia, il portatile in vece della Olivetti
Lettera 22, che non recava con sé problemi di connessione, maledette
password, odiose reti wi-fi col lucchetto e altri stupidi orpelli
hi-tech, utili a irreggimentare una mandria di pecore tecnologiche.
Leggendo gli articoli di
Clerici, ridacchiava spesso il socio Rino, forse non saprai cosa è
successo, ma capirai il perché. Vero: del resto, per le statistiche
e le immagini in alta definizione, insomma, per raccontare l’ovvio,
c’è la tivù, ci sono i telefonini, la banda larga. O forse non
capirai niente della partita, perché avrà parlato di tutt’altro;
ma sarai più ricco nel conoscere i fatti di quella sera di
quarant’anni prima con l’omologo Bud Collins e Sergio Tacchini,
in Sardegna, a sradicare l’insegna dei postfascisti, o saprai di
quei mesi vissuti in Fleet Street, passando per l’apologia del
dritto di Federer e la nostalgia per le racchette di legno, senza cui
il gioco è diventato una faccenda riservata ai bruti. Viene da dire
che, tra cento mestieri, Clerici forse non ha scelto il più adatto a
sé; certamente, il migliore per noi.
Pagina 99, 12 dicembre
2015
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