Nel 1972 «Linus» ha
ormai sette anni e Giovanni Gandini, Oreste Del Buono e Umberto Eco
hanno provveduto a una prima ‘sdoganatura' del fumetto. I
giornalini, 'antipatizzati' e, a volte, avversati fortemente dalle
mamme, si sono già arrampicati su uno degli scaffali più alti della
nostra libreria e di Milton Caniff e Cari Barks si sente già
argomentare in maniera dotta e, a volte, pedante, mentre il piccolo
Nemo di Windsor McCay, risolta l'ambiguità onomastica con il
comandante verniano del Nautilus, si è già conquistato l'affetto e
la stima del dottor Freud.
Non siamo quindi, in quel
1972, nell'anno zero dell'Immaginario. Di figure e figurine si parla
parecchio, si chiosa, ci si appassiona. Ci si agita come presi da un
prurito salutare ma ancora quasi inconsapevole. L'illustrazione,
infatti, e segnatamente quella per ragazzi, non ha ancora un posto
fisso a tavola, ma il sospetto che quei ‘disegnini' non siano
soltanto una biblia pauperum per facilitare la lettura a un
mondo dove l'analfabetismo è ancora piaga diffusa, comincia a
insinuarsi tra gli osservatori più attenti e avvertiti.
Questo 2012 sta
consumando, già nei primi mesi, anniversari importanti, dalle Fiabe
dei Fratelli Grimm alla morte di Dino Buzzati. Aggiungiamo anche
questa, allora, tra le date significative: i quarant'anni dalla
pubblicazione del capolavoro di Antonio Faeti, Guardare le figure.
Gli illustratori italiani dei libri per l'infanzia che, dopo il
percorso glorioso della vecchia edizione Einaudi (che, nell'impianto
munariano della copertina riportava il ‘Sor Pampurio arcicontento'
di Carlo Bisi), si ripropone oggi in libreria in una nuova veste
(questa volta tocca a Sergio Tofano, con un elegantissimo disegno
preso da «Giornalino della Domenica»), voluta e curata da Donzelli
(«Saggi», pp. XLVI-417, € 32,00).
Per chi, negli anni
successivi, si è occupato di illustrazione e di grafica, Guardare
le figure è stato testo essenziale, da tenere sul comodino e
consultare continuamente, una specie di ‘faro nelle tenebre', il
'latte della mamma' da cui trarre nutrimento per una crescita
equilibrata e salubre. E ci scuserete certo per questo eccesso di
retorica.
Einaudi pubblicò il
lungo testo del giovanissimo Faeti (uno sponsor istituzionale di
eccezione fu Italo Calvino, che seguì l'iter editoriale del libro
con affettuosa sollecitudine), al numero 499 della collana dei
«Saggi», accanto a Claudio Magris, Cesare Brandi, Gillo Dorfles,
Mario Fubini e via elencando. Una partenza col botto.
Per limitare e definire
il campo della sua indagine Antonio Faeti, nel 1972, nel saggio
introduttivo alla prima edizione, rimandava a una definizione coniata
da Piero Bernardini, disegnatore fiorentino, vecchio 'figurinaio'. Di
‘figurinai' dichiara dunque di occuparsi il Faeti di Guardare le
figure, collegando tra loro le tradizioni più varie: «Il senso
della loro narrazione iconografica è spesso, inequivocabilmente,
favolistico: ma il tema della fiaba è affrontato direttamente da
quasi tutti i figurinai. A questo punto può risultare abbastanza
facile riconoscere la fisionomia complessiva del gruppo: i figurinai,
collegati intimamente con la tradizione delle stampe popolari,
religiose o profane, vicini al mondo del feuilleton, quasi
costretti a riprodurre i simboli della fiaba o del teatro dei
burattini, scompaiono quando il mondo dell'immagine si ricompone,
senza più dividere, in territori separati e in “classi”, i suoi
artefici. Il figurinaio non esiste più quando un'iconosfera
complessiva sembra obbedire ad un progetto totale che non esclude più
nessuno e convince tutti i disegnatori ad inserirsi entro un contesto
che richiede l'uso di un linguaggio comune».
E poi, in una frase sola,
Faeti delimita anche le coordinate temporali di Guardare le
figure. «L'autentica stagione del figurinaio, dalle immagini
ottocentesche del Pinocchio di Mazzanti, ai disegni di Gustavino per
la Scala d'oro è, in fondo, abbastanza breve. I condizionamenti
editoriali, i contatti con spazi iconografici contigui, non lontani
dai loro contenuti specifici, sono spesso capaci di “corrompere"
i figurinai (...) Il figurinaio scompare lentamente, mentre i
contorni del mondo delle immagini al quale egli può essere
accostato, diventano sempre più imprecisi e irriconoscibili».
Il ‘tempo dei
figurinai' che Antonio Faeti esamina si ferma quindi ai primi anni
cinquanta, ma l'autore fa in tempo a tracciare quasi una storia
popolare per immagini del ventesimo secolo. Si era partiti, come si
ricorderà, dai ‘visionari del Granduca' e dal ‘vernacolo
meraviglioso', di Enrico Mazzanti e Carlo Chiostri, dalle ansie
‘pedagogiche' dell'editoria fiorentina della fine del XIX secolo,
quella dei Barbèra, dei Salani, dei Le Monnier, dei Paggi, e si era
poi andati risalendo, per concetti e immagini, agli illustratori del
Cuore (Ferraguti, Nardi e Sartorio), ai cantori delle gesta
salgariane, all’art nouveaue al decò nostrani (Antonio Rubino,
Umberto Brunelleschi, Duilio Terzi) fino ad arrivare alla disamina
dei due più importanti giornali-palestra dell'illustrazione per
ragazzi, il «Giornalino della Domenica» e il «Corriere dei
Piccoli», senza nemmeno tralasciare una puntata nella grafica
durante i vent'anni del regime fascista.
Scorrendo i nomi e gli
argomenti appare subito chiaro come Faeti non si limiti a
un'elencazione tassonomica di nomi e libri, ma tracci un grande
affresco epocale, dove le figure sono spia e segnale della società e
in quella si riflettono. Per guardare e capire le figure, ci dice
quindi Antonio, si deve essere capaci di allargare a tutto tondo lo
sguardo.
Guardare le figure
è un libro, non ci sarebbe bisogno di dirlo, raffinato e colto ma, e
questo forse c'è bisogno di dirlo, «si legge come un romanzo»,
tanto la prosa è fluida, accattivante, bella. Il quadro che l'autore
traccia si veste di oggettività scientifica ma anche di divagazioni
aneddotiche gustose. A completare il quadro della 'narrazione' ci
pensa poi l'introduzione a questa seconda edizione di Donzelli, e
sbaglierebbe chi pensasse si tratti di un aggiornamento che dà conto
dei quarant' anni trascorsi dalla prima edizione. Il 'tempo dei
figurinai' è finito, si è detto, e nel quadro che Faeti aveva
tracciato nel 1972, forse ben poco c'era da aggiungere.
«Guardare le
figure, non è, assolutamente, né una storia della letteratura
per l'infanzia, né una storia delle illustrazioni dei libri per i
bambini. Che cosa penso che sia, allora, mentre oso riproporlo, ben
quarantatre anni dopo la sua prima ideazione? È un trattato di
sociologia dell'Immaginario che prende a pretesto i libri per i
bambini, ma guarda ai sogni collettivi, indaga sulle mentalità cerca
di frugare nelle cantine in cui, nel 1968, non era ancora entrato
nessuno».
L'introduzione alla
seconda edizione introduce allora una variante significativa: l'io
narrante di Antonio Faeti che ricolloca se stesso in quel 1968 in cui
nacque l'idea del libro e i passi di avvicinamento (di letture
significative, di film amati, di fumetti commentati...) senza i
quali, non dimenticando i maestri amatissimi del giovane professore,
nulla sarebbe stato meditato e scritto. Il racconto diventa dunque
autobiografia (ci sembra di vederlo, Antonio, mentre verga queste
note con l'inseparabile pennna stilografica e la scrittura rotonda,
leggibilissima) e il Faeti del 1968 si ricongiunge con il Faeti dei
nostri giorni. Quel testo di allora si accompagna ai tanti scritti
cui, durante gli anni, l'autore ci narrato della sua intensa vita
intellettuale, dei suoi amori letterari, della sua passione inesausta
per l'insegnamento e per le figure. Figure che Antonio ha guardato
con attenzione e che, va da sé, ha fatto guardare e amare a tutti
noi.
“alias domenica – il
manifesto”, 4 marzo 2012
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