10.4.17

E cammina, cammina. La lunghissima storia del tempo (Marco Belpoliti)

Il tema del tempo è certamente uno del temi fondamentali della riflessione occidentale. Senza la categoria del tempo non sarebbe infatti neppure pensabile la nostra civiltà, così come essa si è sviluppata.
Il «viaggio» dell’Occidente, il suo sviluppo, è infatti un viaggio nel corso del tempo, viaggio che procede alla temporalizzazione progressiva dello spazio; e la temporalizzazlone si sviluppa insieme al perfezionamento delle tecniche di misurazione del tempo.
Il mercante medievale è il primo che scopre «il prezzo del tempo nello stesso momento in cui esplorava lo spazio: per lui la durata essenziale è quella di un tragitto» (J.Le Goff, Tempo della chiesa e del tempo del mercante). É infatti la durata del viaggio per mare e per terra, da una città dell’altra a determinare i prezzi e a far diminuire od aumentare 1 guadagni. Il problema del capitalismo è, fin dai suoi | inizi, quello del tempo di circolazione delle merci. Il mercante dunque ha conquistato insieme tempo e spazio e, come ricorda Le Goff, citando lo storico dell’arte Pierre Francastel, è nello stesso periodo storico che la pittura, insieme alla prospettiva, scopre il tempo del quadro.
Nei secoli precedenti i diversi elementi dell’opera erano rappresentati sullo stesso piano, ed era la differenza di statura ad esprimere nella pittura la gerarchia sociale e religiosa. Il racconto non rispettava le fratture temporali, e non era il tempo a determinare le fasi del racconto ma la volontà di Dio. La prospettiva necessità di un occhio astratto, non «naturale», ed essa è «l’espressione di una conoscenza pratica di uno spazio nel quale gli uomini e gli oggetti sono raggiunti successivamente — secondo tappe quantitativamente misurabili — dal procedimenti umani». É il trionfo dell’istantaneo, dell’effimero immortalato, che regnerà poi nella fotografia. Ecco dunque che il tempo è un modo astratto di vedere il mondo e in quanto tale del tutto sconosciuto ai primitivi.
Il popolo dei Nuer — scrive Evans Pritchard — non ha alcuna espressione equivalente al nostro termine «tempo» e non può, come noi, parlare di tempo come fosse una realtà fattuale, che passa, che si perde, che si risparmia. I Nuer non coordinano le loro attività in rapporto a un astratto passare del tempo, perché le loro attività hanno un carattere di piacere. Gli eventi per loro seguono certamente un ordine logico, ma non sono controllabili da un sistema astratto. Non c’è un punto autonomo a cui le attività devono conformarsi.
Il tempo, come la civiltà occidentale lo ha pensato, non è un’essenza, ma una forma concettuale, una forma che ha subito delle profonde modificazioni nel corso dei secoli. Due sono state sino ad ora le principali trasformazioni: quella che si effettua dal tempo della chiesa al tempo del mercante e quella che si produce con la rivoluzione industriale. Con la prima il tempo concreto della chiesa, ritmato dagli uffici religiosi, dalle campane che li annunciano o dalle imprecise meridiane e clessidre, diviene un tempo laico, sempre più razionalizzato. É l’inizio del tempo urbano misurato dagli orologi.
Con la seconda invece si introducono rigide ristrutturazioni delle abitudini lavorative legate alla nascita della fabbrica moderna e al controllo disciplinare del tempo di lavoro. Recentissimamente sono stati tradotti due saggi che ci aiutano a ripercorrere l’arco culturale e tecnologico che si situa tra questi due momenti. Si tratta della traduzione di un libro di Carlo M. Cipolla, Le macchine del tempo (trad. ital. di Franco Praussello, Il Mulino, 1981), pubblicato nel 1967 in inglese e assai noto agli storici, e del corposo saggio di Edward P. Thompson, «Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale», pubblicato nella raccolta Società patrizia. Cultura plebea (a cura di Edoardo Grendi, Einaudi, 1981).
Il saggio di Thompson non si occupa di stabilire quanto la trasformazione della mentalità moderna sia dovuta al diffondersi degli orologi, dal secolo XIV in poi, o quanto, invece, fosse un sintomo di una nuova disciplina puritana e della precisione borghese. Egli considera invece i due elementi come contemporanei a partire dai dati incontrovertibili delle trasformazioni avvenute. Cipolla fornisce, dal canto suo, un’utile storia della diffusione dell’orologio non seguendo solo le linee dello sviluppo tecnologico, ma tenendo d’occhio i dati economico-sociali.

Fino agli inizi del tredicesimo secolo l’Occidente aveva ancora molto da imparare, sotto l’aspetto tecnologico, dall’Oriente. Due secoli più tardi invece la supremazia tecnologica dell’Europa sull’Asia era un fatto compiuto. La storia di questo sviluppo è anche la storia della manodopera specializzata di quei secoli. Infatti la supremazia produttiva e tecnologica, almeno nel campo degli orologi, andrà fino all’Ottocento a quelle città, regioni e stati che sapranno attirare manodopera assicurando stabilità economica ed ordine politico agli artigiani europei. La storia dell’orologio è dunque storia di migrazione di braccia e di cervelli. Il progresso tecnologico non è però solo questione di artigiani, ma anche applicazione sistematica di principi scientifici elaborati dagli scienziati e dal ceto intellettuale dell’epoca, come Cipolla ricorda insistentemente. Pare che l’invenzione dell’orologio si debba datare alla fine del Duecento, quando viene inventato quel meccanismo che è conosciuto col nome di scappamento a verga con foliot, ed è contemporanea all’apparizione delle prime artiglierie. Agli inizi si trattò essenzialmente di orologi pubblici, installati nelle città che, fino al Cinquecento, indicarono il tempo in maniera solo approssimativa, e che perciò dovevano essere regolati di frequente. Non mancarono gli orologi privati, ma la loro diffusione fu limitata a re e principi. Fino al momento in cui i pesi costituirono la sola forza motrice,
gli orologi non poterono essere portatili.
L’orologio a molla è degli inizi del Quattrocento e la lancetta del minuti della seconda metà del Cinquecento. La produzione fino alla fine del Quattrocento non si localizzò mai precisamente. Erano infatti gli artigiani a viaggiare, anziché la merce. Tra il Cinquecento e il Seicento con la crescita della domanda si formarono gruppi stabili di artigiani, dapprima ad Ausburg e Norinberga, poi in Francia (Parigi, Blois e Lione). Questo comportò anche l’ascesa degli orologiai come corporazione, e una certa divisione del lavoro. Il salto tecnologico significativo fu apportato dal pendolo che sostituì lo scappamento a verga con foliot. Pensato da Galileo, fu attuato da Christian Huygens nel 1660. La comparsa del pendolo apri la strada agli strumenti di precisione e, come sostiene Cipolla, l’orologeria fu il primo settore manifatturiero a mettere in pratica le scoperte teoriche della fisica e della meccanica, e a sua volta contribuì a dettare il ritmo dello sviluppo generale della meccanica applicata. Con il Settecento l’attività di produzione si separa da quella di commercializzazione, tanto che lo stesso Voltaire nel 1770 aprì una propria fabbrica di orologi. I mercanti orologiai, imprenditori protocapitalisti, passavano gli ordini ai maestri, anticipavano i capitali e organizzavano la vendita della merce.
Con tutto questo, fino alla metà del Settecento la misura meccanica del tempo era ancora un privilegio della piccola nobiltà di campagna, degli artigiani in proprio, degli agricoltori ricchi e del commercianti. La stessa unificazione del tempo non era avvenuta. Montaigne nel Voyage en Italie racconta la confusione che deriva dal mutare del calcolo dell’inizio del tempo da una città all’altra. Alcune infatti fissavano l’ora zero a mezzogiorno, ed altre a mezzanotte, e in genere non ci si staccava dal tempo naturale che è marcato dal sorgere e dal tramontare del sole. L’unificazione del tempo non avverrà prima dell’Ottocento, con la rivoluzione industriale, con la rivoluzione dei trasporti (gli orari ferroviari impongono l’ora unificata e l’istituzione dei fusi orari). Il tempo unificato è quello del romanzo di Verne Il giro del mondo in ottanta giorni. È con l’introduzione del sistema di fabbrica che subentra la necessità di sincronizzare il lavoro stesso.
Fin che l’attività manifatturiera era gestita su scala familiare o in una bottega, «senza una suddivisione complessa del processi di lavorazione, il grado di sincronizzazione richiesto era basso ed era ancora prevalente l’orientamento In base ai compiti» (Thompson). La fabbrica elimina i tempi morti e unifica il tempo nel suo irrigidimento del tempo di lavoro (solo il custode nelle prime fabbriche deteneva l’orologio). Non si tratta però solo di un problema di maggior precisione dei ritmi orari, ma del rapporto esistente tra «senso del tempo» e il «calcolo del tempo», come mezzo di sfruttamento del lavoro. Le due cose hanno finito per coincidere sempre più durante lo sviluppo della società industriale, anche se il secondo non ha potuto ovviamente sopprimere il primo, ma solo modellarlo attraverso una ferrea disciplina. Così, in maniera analoga, la distinzione esistente nel medioevo tra tempo naturale, tempo professionale o tempo sovrannaturale, tende a sparire nella misura in cui l’aspetto religioso della vita del mercante si secolarizza. Il mercante deve sempre meno trovare una soluzione al problema del salvarsi l’anima in rapporto al proprio uso del tempo; e il tempo del mercante si libera del tempo biblico.
Il problema del tempo nella società attuale, che alcuni definiscono, postmoderna, è legato a quello della velocità, e in questo senso non è altro che uno sviluppo del problema che già il mercante medievale si era posto. Viviamo infatti in una dromocazione, e la temporalizzazione dello spazio lavora con i tempi di un calcolatore. La localizzazione diviene irrilevante, ed essere a Los Angeles o a Fiumicino può al limite essere indifferente. Tuttavia in questo modo il senso del tempo soggettivo tende a separarsi dal suo calcolo, in quanto nel suo culmine questo rende frazionabile il tempo sino alla sua scomparsa. La cancellazione del tempo, l’andar sempre più veloci, rilanciano la questione del tempo interiore: se lo non sono più localizzabile dal luogo in cui sono e dal tempo che mi separa da altri luoghi, è dentro di me che cercherò risposta, nello spazio interiore. Risorge così il problema della coscienza e del viaggio spazio-temporale che si percorre in essa.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1981

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