Il
tema del tempo è certamente uno del temi fondamentali della
riflessione occidentale. Senza la categoria del tempo non sarebbe
infatti neppure pensabile la nostra civiltà, così come essa si è
sviluppata.
Il
«viaggio» dell’Occidente, il suo sviluppo, è infatti un viaggio
nel corso del tempo, viaggio che procede alla temporalizzazione
progressiva dello spazio; e la temporalizzazlone si sviluppa insieme
al perfezionamento delle tecniche di misurazione del tempo.
Il
mercante medievale è il primo che scopre «il prezzo del tempo nello
stesso momento in cui esplorava lo spazio: per lui la durata
essenziale è quella di un tragitto» (J.Le Goff, Tempo
della chiesa e del tempo del mercante).
É infatti la durata del viaggio per mare e per terra, da una città
dell’altra a determinare i prezzi e a far diminuire od aumentare 1
guadagni. Il problema del capitalismo è, fin dai suoi | inizi,
quello del tempo di circolazione delle merci. Il mercante dunque ha
conquistato insieme tempo e spazio e, come ricorda Le Goff, citando
lo storico dell’arte Pierre Francastel, è nello stesso periodo
storico che la pittura, insieme alla prospettiva, scopre il tempo del
quadro.
Nei
secoli precedenti i diversi elementi dell’opera erano rappresentati
sullo stesso piano, ed era la differenza di statura ad esprimere
nella pittura la gerarchia sociale e religiosa. Il racconto non
rispettava le fratture temporali, e non era il tempo a determinare le
fasi del racconto ma la volontà di Dio. La prospettiva necessità di
un occhio astratto, non «naturale», ed essa è «l’espressione di
una conoscenza pratica di uno spazio nel quale gli uomini e gli
oggetti sono raggiunti successivamente — secondo tappe
quantitativamente misurabili — dal procedimenti umani». É il
trionfo dell’istantaneo, dell’effimero immortalato, che regnerà
poi nella fotografia. Ecco dunque che il tempo è un modo astratto di
vedere il mondo e in quanto tale del tutto sconosciuto ai primitivi.
Il
popolo dei Nuer — scrive Evans Pritchard — non ha alcuna
espressione equivalente al nostro termine «tempo» e non può, come
noi, parlare di tempo come fosse una realtà fattuale, che passa, che
si perde, che si risparmia. I Nuer non coordinano le loro attività
in rapporto a un astratto passare del tempo, perché le loro attività
hanno un carattere di piacere. Gli eventi per loro seguono certamente
un ordine logico, ma non sono controllabili da un sistema astratto.
Non c’è un punto autonomo a cui le attività devono conformarsi.
Il
tempo, come la civiltà occidentale lo ha pensato, non è un’essenza,
ma una forma concettuale, una forma che ha subito delle profonde
modificazioni nel corso dei secoli. Due sono state sino ad ora le
principali trasformazioni: quella che si effettua dal tempo della
chiesa al tempo del mercante e quella che si produce con la
rivoluzione industriale. Con la prima il tempo concreto della chiesa,
ritmato dagli uffici religiosi, dalle campane che li annunciano o
dalle imprecise meridiane e clessidre, diviene un tempo laico, sempre
più razionalizzato. É l’inizio del tempo urbano misurato dagli
orologi.
Con
la seconda invece si introducono rigide ristrutturazioni delle
abitudini lavorative legate alla nascita della fabbrica moderna e al
controllo disciplinare del tempo di lavoro. Recentissimamente sono
stati tradotti due saggi che ci aiutano a ripercorrere l’arco
culturale e tecnologico che si situa tra questi due momenti. Si
tratta della traduzione di un libro di Carlo M. Cipolla, Le
macchine del tempo (trad. ital.
di Franco Praussello, Il Mulino, 1981), pubblicato nel 1967 in
inglese e assai noto agli storici, e del corposo saggio di Edward P.
Thompson, «Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale»,
pubblicato nella raccolta Società patrizia. Cultura plebea
(a cura di Edoardo Grendi, Einaudi, 1981).
Il
saggio di Thompson non si occupa di stabilire quanto la
trasformazione della mentalità moderna sia dovuta al diffondersi
degli orologi, dal secolo XIV in poi, o quanto, invece, fosse un
sintomo di una nuova disciplina puritana e della precisione borghese.
Egli considera invece i due elementi come contemporanei a partire dai
dati incontrovertibili delle trasformazioni avvenute. Cipolla
fornisce, dal canto suo, un’utile storia della diffusione
dell’orologio non seguendo solo le linee dello sviluppo
tecnologico, ma tenendo d’occhio i dati economico-sociali.
Fino
agli inizi del tredicesimo secolo l’Occidente aveva ancora molto da
imparare, sotto l’aspetto tecnologico, dall’Oriente. Due secoli
più tardi invece la supremazia tecnologica dell’Europa sull’Asia
era un fatto compiuto. La storia di questo sviluppo è anche la
storia della manodopera specializzata di quei secoli. Infatti la
supremazia produttiva e tecnologica, almeno nel campo degli orologi,
andrà fino all’Ottocento a quelle città, regioni e stati che
sapranno attirare manodopera assicurando stabilità economica ed
ordine politico agli artigiani europei. La storia dell’orologio è
dunque storia di migrazione di braccia e di cervelli. Il progresso
tecnologico non è però solo questione di artigiani, ma anche
applicazione sistematica di principi scientifici elaborati dagli
scienziati e dal ceto intellettuale dell’epoca, come Cipolla
ricorda insistentemente. Pare che l’invenzione dell’orologio si
debba datare alla fine del Duecento, quando viene inventato quel
meccanismo che è conosciuto col nome di scappamento a verga con
foliot, ed è
contemporanea all’apparizione delle prime artiglierie. Agli inizi
si trattò essenzialmente di orologi pubblici, installati nelle città
che, fino al Cinquecento, indicarono il tempo in maniera solo
approssimativa, e che perciò dovevano essere regolati di frequente.
Non mancarono gli orologi privati, ma la loro diffusione fu limitata
a re e principi. Fino al momento in cui i pesi costituirono la sola
forza motrice,
gli
orologi non poterono essere portatili.
L’orologio
a molla è degli inizi del Quattrocento e la lancetta del minuti
della seconda metà del Cinquecento. La produzione fino alla fine del
Quattrocento non si localizzò mai precisamente. Erano infatti gli
artigiani a viaggiare, anziché la merce. Tra il Cinquecento e il
Seicento con la crescita della domanda si formarono gruppi stabili di
artigiani, dapprima ad Ausburg e Norinberga, poi in Francia (Parigi,
Blois e Lione). Questo comportò anche l’ascesa degli orologiai
come corporazione, e una certa divisione del lavoro. Il salto
tecnologico significativo fu apportato dal pendolo che sostituì lo
scappamento a verga con foliot.
Pensato da Galileo, fu attuato da Christian Huygens nel 1660. La
comparsa del pendolo apri la strada agli strumenti di precisione e,
come sostiene Cipolla, l’orologeria fu il primo settore
manifatturiero a mettere in pratica le scoperte teoriche della fisica
e della meccanica, e a sua volta contribuì a dettare il ritmo dello
sviluppo generale della meccanica applicata. Con il Settecento
l’attività di produzione si separa da quella di
commercializzazione, tanto che lo stesso Voltaire nel 1770 aprì una
propria fabbrica di orologi. I mercanti orologiai, imprenditori
protocapitalisti, passavano gli ordini ai maestri, anticipavano i
capitali e organizzavano la vendita della merce.
Con
tutto questo, fino alla metà del Settecento la misura meccanica del
tempo era ancora un privilegio della piccola nobiltà di campagna,
degli artigiani in proprio, degli agricoltori ricchi e del
commercianti. La stessa unificazione del tempo non era avvenuta.
Montaigne nel Voyage en Italie
racconta la confusione che deriva dal mutare del calcolo dell’inizio
del tempo da una città all’altra. Alcune infatti fissavano l’ora
zero a mezzogiorno, ed altre a mezzanotte, e in genere non ci si
staccava dal tempo naturale che è marcato dal sorgere e dal
tramontare del sole. L’unificazione del tempo non avverrà prima
dell’Ottocento, con la rivoluzione industriale, con la rivoluzione
dei trasporti (gli orari ferroviari impongono l’ora unificata e
l’istituzione dei fusi orari). Il tempo unificato è quello del
romanzo di Verne Il giro del mondo in ottanta giorni.
È con l’introduzione del sistema di fabbrica che subentra la
necessità di sincronizzare il lavoro stesso.
Fin
che l’attività manifatturiera era gestita su scala familiare o in
una bottega, «senza una suddivisione complessa del processi di
lavorazione, il grado di sincronizzazione richiesto era basso ed era
ancora prevalente l’orientamento In base ai compiti» (Thompson).
La fabbrica elimina i tempi morti e unifica il tempo nel suo
irrigidimento del tempo di lavoro (solo il custode nelle prime
fabbriche deteneva l’orologio). Non si tratta però solo di un
problema di maggior precisione dei ritmi orari, ma del rapporto
esistente tra «senso del tempo» e il «calcolo del tempo», come
mezzo di sfruttamento del lavoro. Le due cose hanno finito per
coincidere sempre più durante lo sviluppo della società
industriale, anche se il secondo non ha potuto ovviamente sopprimere
il primo, ma solo modellarlo attraverso una ferrea disciplina. Così,
in maniera analoga, la distinzione esistente nel medioevo tra tempo
naturale, tempo professionale o tempo sovrannaturale, tende a sparire
nella misura in cui l’aspetto religioso della vita del mercante si
secolarizza. Il mercante deve sempre meno trovare una soluzione al
problema del salvarsi l’anima in rapporto al proprio uso del tempo;
e il tempo del mercante si libera del tempo biblico.
Il
problema del tempo nella società attuale, che alcuni definiscono,
postmoderna, è legato a quello della velocità, e in questo senso
non è altro che uno sviluppo del problema che già il mercante
medievale si era posto. Viviamo infatti in una dromocazione,
e la temporalizzazione dello spazio lavora con i tempi di un
calcolatore. La localizzazione diviene irrilevante, ed essere a Los
Angeles o a Fiumicino può al limite essere indifferente. Tuttavia in
questo modo il senso del tempo soggettivo tende a separarsi dal suo
calcolo, in quanto nel suo culmine questo rende frazionabile il tempo
sino alla sua scomparsa. La cancellazione del tempo, l’andar sempre
più veloci, rilanciano la questione del tempo interiore: se lo non
sono più localizzabile dal luogo in cui sono e dal tempo che mi
separa da altri luoghi, è dentro di me che cercherò risposta, nello
spazio interiore. Risorge così il problema della coscienza e del
viaggio spazio-temporale che si percorre in essa.
“il
manifesto”, ritaglio senza data, ma 1981
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