L'articolo che segue, sul
declino italiano, è della Befana del 2012, più di 5 anni fa, ma -
riguardando soprattutto la storia italiana del Novecento – conserva
intera la sua attualità. La chiave di lettura scelta da D'Eramo
resta utilissima, meritevole di verifiche e di approfondimenti. Quel
che da allora è mutato è, casomai, l'aggravarsi della decadenza
economica e l'incancrenirsi della crisi che rende tutto più
difficile, perfino a Berlusconi e a Moratti che calciatori non
possono o non vogliono più comprarne. (S.L.L.)
L'inizio del declino
italiano ha una data esatta ed è il 26 dicembre 1991. Quel giorno si
sciolse ufficialmente l’Unione sovietica e finì la Guerra Fredda.
Con la guerra fredda finì anche quella che potremmo chiamare
l’eccezione italiana. Perché per 35 anni l’Italia era stata la
frontiera geografica e politica dell’impero occidentale. Frontiera
geografica (orientale) perché il blocco sovietico cominciava proprio
sull’altra riva dell’Adriatico. Frontiera politica perché il Pci
era il più forte partito comunista dell’Occidente. Quindi tutto fu
messo in opera (e tutto fu consentito) perché l’Italia americana
fosse una «success story».
Da qui il miracolo
economico, da qui la straordinaria stabilità politica di un regime
sostanzialmente monopartitico (i gabinetti cadevano sì uno dopo
l’altro, ma a rotazione le poltrone erano occupate sempre dagli
stessi).
D’altronde l'Italia non
era sola: anche il Giappone si trovava in una situazione analoga:
anch’esso era uno dei vinti deEa seconda guerra mondiale, anch’esso
era una frontiera geografica dell’impero, stavolta occidentale,
avendo dirimpetto Siberia e Cina. Anche in Giappone la sinistra era
forte. Così non stupisce che i due paesi abbiano avuto per tutta la
guerra fredda un destino parallelo: ambedue vissero un incredibile
miracolo economico (il Giappone partiva da più in alto e quindi
anche il suo miracolo lo portò più in alto); ambedue furono
governati da un regime monopartitico (a Roma dalla Democrazia
cristiana, a Tokyo dal Partito Liberal-democratico), ambedue erano
caratterizzati da una forte commistione tra politica e criminalità
(mafia in Italia, yakuza in Giappone).
E in ambedue i paesi il
sistema entrò in crisi esattamente con la fine della guerra fredda:
in Giappone esplose la bolla immobiliare e cominciò una recessione
da cui non è ancora uscito; anche a Tokyo, come a Roma, il regime
monopartitico entrò in crisi. A questi destini paralleli ha dedicato
un volumone intitolato Machiavelli’s Children: Leaders and their
Legacy in Italy and Japan (2003) lo storico Richard J. Samuels
della Cornell University.
In Italia la fine della
guerra fredda fu vero un terremoto politico con fortissime scosse
economiche di assestamento. In Italia il Pci si era già sciolto
pochi mesi prima, nel febbraio 1991. Ma nel giro di pochi mesi
scoppiò Mani pulite e implosero tutti gli altri protagonisti della
prima Repubblica Democrazia cristiana, Partito socialista,
socialdemocratici, liberali, repubblicani. Nessuna di queste
formazioni sopravvisse.
Ma quel che a noi
interessa è che allora finì l’eccezione italiana: non era più un
paese chiave, non era più indispensabile né per gli Stati uniti, né
per la Nato: diventava un alleato marginale tra gli altri, e
sostituibile, in termini strategici, da altri paesi dell’ormai ex
est europeo: era un drastico downrating di status, da
nevralgico pivot a periferia irrilevante. Fino ad allora era stato
persino sopportato un primo ministro con legami di mafia. Ora poteva
essere processato (anche se poi fu assolto). Fino ad allora
l’establishment economico internazionale aveva accettato che
l’Italia trasgredisse tutti gli accordi, svalutasse a ripetizione,
s’indebitasse più di ogni altro paese occidentale (anche qui in
parallelo col Giappone, che oggi ha un debito pubblico superiore al
doppio del Pii). Nessuna agenzia di rating attaccò mai l’Italia
che pure svalutava a go go (i meno giovani ricorderanno che alla fine
degli anni 1970 erano addirittura scomparse le monete metalliche
sostituite da mini assegnetti fai-da-te emessi dalle singole banche.
Oggi qualcuno rimpiange
la «laicità» della Democrazia rispetto al servilismo attuale dei
partiti verso la Chiesa, ma dimentica che allora la De doveva
ubbidire a due padroni, Usa e Vaticano, e non a uno solo: e non
sempre la diplomazia vaticana coincideva con quella statunitense,
basti l’esempio del Medio oriente su cui infatti un politico come
Andreotti aveva una posizione nettamente più filo-araba e meno
filoisraeliana di quella americana. Ma con la fine della Guerra
fredda, la Chiesa tornava a essere l’unica struttura insieme
organizzata, presente sul territorio e portatrice d’ideologia. Da
qui il revanscismo vaticano, il tentativo di reconquista
cattolica cui assistiamo.
Fino al 1991 la
delocalizzazione e l’off-shoring erano stati mantenuti entro
i limiti, proprio per non degradare l’economia e il mercato del
lavoro di una marca di frontiera Ma da allora non ci fu più nessuna
remora e da allora il Prodotto interno lordo del nostro paese è
sostanzialmente piatto, è anzi arretrato con l’ingresso nell’euro.
Ricordiamo che dal 1992 in poi, su mandato politico, l’Istat ha
mentito sistematicamente sui dati dell'inflazione: mantenendorli più
bassi del reale consentiva di pagare interessi minori sui Bot, di
rivalutare meno le pensioni, di abbassare la scala mobile. Quando fu
introdotto l’euro e i prezzi praticamente raddoppiarono d’un
colpo (la parità nominale era 1 euro = 2.000 Ere, la parità reale
era 1 euro = 1.000 Ere), l’Istat ebbe il coraggio di dirci che in
quell’anno i prezzi erano aumentati del 4 o 5 per cento, se non
ricordo male. Divenne un luogo comune dire che spendevamo in euro, ma
guadagnavamo ancora in lire. A detta dello stesso ex ministro Giulio
Tremonti, l’introduzione dell’euro provocò la più colossale
redistribuzione di reddito della storia repubblicana a scapito dei
lavoratori dipendenti (operai, insegnanti, infermieri, ma anche
professori universitari, giudici o diplomatici) e a favore del
cosiddetto «popolo della partita Iva».
Come il Giappone, quando
è scoppiata la crisi del 2007, anche l’Italia non si era ancora
ripresa dalla degradazione decretata dalla fine della guerra fredda.
Semmai, la nostra situazione era molto peggiore di quella giapponese
perché erano già in calo tutti gli indicatori, dalla percentuale
del Pil dedicata a ricerca e innovazione, alle spese di welfare, agli
investimenti in grandi opere, all’acculturazione dei giovani, al
mercato del lavoro).
Ma quel che è successo
potrebbe essere letto in modo ancora più impietoso: e cioè i
favoritismi nei confronti del nostro paese avevano mascherato durante
la guerra fredda la principale carenza di lunga durata dell’Italia
e cioè l’assenza di una classe borghese, in Italia ci sono
moltissimi ricchi, come si è visto l’altro ieri a Cortina ma
questi ricchi non fanno classe. Da decenni non si vede nessun
capitalista nostrano investire in università e ricerca. I ricchi
d’oltreoceano finanziano Harvard, Yale, e persino i più reazionari
tra loro sovvenzionano centri studi; da noi i Moratti, i Berlusconi e
gli Agnelli comprano tutt’al più calciatori. L’assenza di una
borghesia intesa come classe si ripercuote - sembra un’ovvietà -
nella totale latitanza di uno «stato borghese», di una «legalità
borghese». Nessun ricco italiano si sente membro della classe
dirigente, come invece succedeva a quel giudice della Corte suprema
statunitense che diceva «A me, come a tutti, scoccia pagare le
tasse, ma è il prezzo che pago per la civiltà».
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