15.4.17

Luciano Erba, la poesia di un maestro segreto (Mario Baudino)

Lo scenario era un festival letterario, qualche anno fa, dove un gruppo di autori spagnoli parlavano al pubblico dei loro libri, ma soprattutto di politica, di grandi sistemi, scenari internazionali. A un certo punto un elegante signore dai capelli bianchi, corti, fitti e ordinati, e l’aria lievemente annoiata, rivolse una domanda assai pacata, forse un po’ ironica: «Ma non vi sembra un po’ riduttiva, tutta questa gabbia politica, per uno scrittore?». Era Luciano Erba, il poeta che nel ‘60 aveva scritto una raccolta destinata a battezzarne anche oltre il dovuto un profilo critico: Il male minore.
È stato sempre fedele a un principio che amava riassumere così: «tutta la vita, a partire dalla mia famiglia, mi sono spinto a rifiutare i fasti gotici di una certa scuola, preferendo i piccoli dettagli della realtà di ogni giorno. Quelli che appartengono a una società intera», come fece ricevendo un premio alla poesia «civile». È morto l’altra sera nella sua casa milanese, a 87 anni; per mezzo secolo è stato uno di quei maestri segreti che hanno nutrito nel profondo una lunga stagione della nostra poesia. Il «male minore» gli ha anche un po’ nuociuto, visto che sulla base di un’evidente assonanza qualche critico che non lo amava ha finito per considerarlo un epigono montaliano; e il gusto per l’ironia, sempre leggera, elegante, metafisica, ne ha fatto un caso atipico nel panorama italiano.
Dal suo esordio nel ‘51 con Linea K alla grande antologia personale del 2000, Terre di mezzo, passando per libri con Il nastro di Moebius e L’ippopotamo, quasi un trattato morale per microimmagini (dell’89), Erba ha pubblicato relativamente poco, distillando una poesia che emergeva quando voleva lei, attenta alla grande tradizione italiana (Novecento compreso) lontana dalle ideologie, legata a un clima, a una terra e anche a una certa idea di Milano. Fra i suoi versi c’è anche una sorta di congedo, severamente bonario: «Questi ultimi anni avuti in premio/ hanno a volte il gusto un poco sfatto/ di certe scatolette di tonno/ che si mangiano ai bordi del torrente/ sull’erba corta, dopo una camminata:/ il vino è fresco/ la bottiglia tra sassi e corrente».


La Stampa, 5/8/2010  

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