22.4.17

Dumézil e il “Mahabharata”. A letto con il dio (Pier Aldo Rovatti)

Il personaggio di Kunti, la grande madre, nel serial televisivo indiano dedicato al "Mahabharata"
Ci dovrà essere una guerra grandiosa e terribile, durante la quale le forze del bene e del male lotteranno fino all'estremo. Il bene risulterà vittorioso, ma il prezzo da pagare sarà altissimo e gli stessi vincitori ne resteranno sconvolti. La guerra servirà ad «alleviare» la terra: così ha stabilito una superiore provvidenza per frenare una crescita della popolazione ormai intollerabile. È guerra di uomini, anzi è una lotta familiare che oppone fratelli e cugini nel corso di generazioni; ma è, al tempo stesso, una guerra di dei: incarnatisi in alcuni eroi, questi dei combattono altri eroi nei quali si sono incarnati, a loro volta, demoni malvagi.
Ecco lo scenario in cui si svolgono gli intrighi del Mahabharata, Iliade e Odissea dell'epica indiana; quasi centomila versi (almeno nelle versioni del Nord), il poema più lungo di ogni letteratura, scritto non si sa bene quando né da chi, forse da successive generazioni di autori, certo a strati e con continue interpolazioni, e di cui si può solo dire che la forma nella quale oggi possiamo leggerlo risale a un periodo tra il IV secolo prima e il IV secolo dopo Cristo: ottocento anni! (Il lettore italiano ha a disposizione uno dei frammenti più importanti ed autonomi, il Bhagavad Gita, pubblicato da Adelphi. ne ha parlato su queste pagine Alfredo Giuliani. Ed ora anche il primo volume di Mito e epopea di Georges Dumézil, Einaudi, pagg. 264, lire 15.000, che è appunto un commento dell'interp poema.
Mahabharata è «la grande storia dei discendenti di Bharata»; ma solo gli ultimi sono importanti per la trama. Il re Santanu ha un figlio che si chiamerà Bhisma e che è l'incarnazione di un dio (Dyau, «il Cielo»). Bhisma rinuncia a regnare per consentire al padre di sposare una seconda moglie di cui è inna morato, e in cambio riceve uno straordinario privilegio: morire solo quando lo vorrà. Diventa così una specie di «deus ex machina»: zio-tutore, sarà lui con vari stratagemmi a garantire continuità alla stirpe e ad accompagnarla lungo tre generazioni.
Morti i due fratellastri senza lasciar figli, Bhisma farà in modo che le vedove abbiano egualmente .lenii eredi da un asceta, in segreto. Essi tuttavia porteranno i segni di questa oscura nascita: Dhrtarastra, il maggiore, nasce cieco perché la madre ha chiuso gli occhi durante l'amplesso; Pandu, il secondo, nasce smunto perché la madre è impallidita; il terzo, Vidura e addirittura bastardo, perché, non volendo sottoporsi ancora una volta alla prova, la regina si era fatta sostituire da un'ancella. Pandu è in grado di regnare, Dhrtarastra no. I cinque figli di Pandu - i Pandava - saranno i grandi protagonisti del romanzo; il maggiore dei cento figli nati dal cieco Dhrtarastra sarà invece il capo del fronte nemico: il suo nome è Duryodhana ed è una incarnazione del demone Kali.
Ma anche la nascita dei cinque Pandava non è tranquilla. Bhisma, che continua a reggere i fili, fa sposare a Pandu due donne, Kunti e Madri. Il regno di Pandu è d'altra parte breve e singolare: non abita nella reggia ma vive con le mogli nella vicina foresta. Lì, un giorno, mentre sta cacciando, ferisce mortalmente una gazzella; in realtà si tratta di un asceta che si era trasformato nell'animale per godere dei piaceri dell'amore. L'asceta lo maledice: anche lui, Pandu, dovrà morire al primo abbraccio con una donna. Ma Pandu vuole e deve avere degli eredi. Kunti allora gli rivela di possedere un potere eccezionale, un «mantra», una formula avuta da un bramino, pronunciando la quale ella potrà far apparire, per una volta, il dio che preferisce e avere con lui un bambino. Così, a intervalli di un anno, Kunti convoca, d'accordo con il marito, gli dei Dharma, Vàyu e Indra, e da essi ha tre figli: Yudhisthira, Bhima e Arjuna.

Ascesa al Paradiso
A questo punto anche la seconda moglie di Pandu. Madri, chiede di poter usare della formula, e Kunti glielo concede, ma per una volta soltanto. Madri rispetta solo in apparenza la condizione: fa venire a sé i gemelli divini, gli Asvin, da cui avrà due figli, pure gemelli, Nakula e Sahadeva. I cinque Pandava sono dunque figli di altrettante divinità delle quali conservano alcune qualità caratteristiche: Yudhisthira é la legge e la giustizia; Bhima la forza fisica; in Arjuna la forza si unisce alla bellezza; ed è una bellezza incomparabile quella che distingue Nakula e Sahadeva, gli inseparabili gemelli.
Siamo con ciò solo all'antefatto di questa epopea familiare e divina. Ho infatti riportato una parte del contenuto del primo libro, intitolato «libro dell'inizio». Ne seguono altri diciassette, diseguali per ampiezza, rilevanza e anche stile, in cui la trama si dipana in una selva di episodi collaterali e di ulteriori intrighi verso i preparativi dell' immane battaglia che occupa il centro del poema; fino al «libro della lunga marcia» in cui Yudhishira, ormai vecchio e stanco, coi fratelli, la moglie Draupadi e un cane fedele (un dio incarnato anch'esso!) cammina oltre l'Himalaya in direzione dei Paradisi, e infine vi giunge (canto XVIII: «libro dell'ascesa al Paradiso»): lì gli dei riprenderanno il loro posto, e finalmente i figli siederanno accanto ai padri.
Un'altra vicenda, più vicina a noi, molto ai margini — visto che riguarda un piccolo numero di studiosi — ma a suo modo non priva di avventura, è la storia delle interpretazioni occidentali del Mahabharata, dal colonnello De Polier a Georges Dumézil. Non più dèi, non più eroi, non più guerre sullo sfondo mitico delle origini della cultura indo-europea; ma schermaglie filologiche, colpi di scena interpretativi a ridosso di un testo che sembra senza fondo.
Lo svizzero De Polier, giovanissimo, presta servizio presso l'inglese Compagnia delle Indie: siamo nel 1780. De Polier si appassiona alle tradizioni indiane e al ritorno in Europa porta con sé dettagliati riassunti e commenti del Mahabharata; queste carte, in seguito trascurate dalla critica, danno materiale a un libro, cui seguiranno per decenni indagini e dibattiti. Il poema va ricondotto a una serie di avvenimenti reali? e quali? oppure il poema è la trasposizione eroica di rappresentazioni mitiche?
La prima ipotesi (secondo cui si tratterebbe di un abbellimento letterario di fatti storici) è stata dura a morire; oggi comunque si sa per certo che è sbagliata. La seconda (sostenuta con forza alla fine del secolo scorso da Alfred Ludwig) era nella direzione giusta, ma soffriva delle idee riduttive e semplicistiche che del mito si avevano in quegli anni. Nascerà poi la cosiddetta «mitologia comparata» — comparazione tra i miti di vari ceppi culturali anche assai distanti —; tuttavia questa disciplina cresce male, estrae i miti dal loro contesto, fa arbitrarie astrazioni linguistiche.
Questi studi decadono per loro interna debolezza; riprendono vigore solo in tempi recentissimi. Nel 1947 lo svedese Stig Wikander, in un articolo di poche pagine, dimostra che il sistema teologico-mitico che presiede all'intero poema è una «macchina» complessa e decifrabile: non un abbellimento posticcio, ma una struttura culturale che viene da tempi assai più remoti di quelli della presunta stesura del Mahabharata. Il colonnello De Polier, nella sua ingenuità, lo aveva intuito quando aveva ipotizzato che il poema si spiega come un momento delle grandi discese divine presso gli uomini.
In Mito e epopea Dumézil riprende e sviluppa le intuizioni di Wikander: intrigo romanzesco e struttura mitica compongono un corpo unico e variegato dove l'episodio fortuito e il dettato teologico si incastrano mirabilmente. Alla base di questo meccanismo Dumézil identifica un unico motore: la legge delle «tre funzioni». La divisione, già indo-iraniana, della società in tre parti (preti, guerrieri, allevatori/agricoltori), qui si presenterebbe come un complicato gioco di funzioni, non più e non solo riportabili a condizioni sociali, ma di tipo culturale-ideale, e assai più veritiere ed efficaci nello spiegarci, attraverso un documento letterario, la struttura di una mentalità.
Le ambizioni di Dumézil, come è noto, si spingono ben oltre: il modo con cui è stata raccontata la storia mitica degli antichi re di Roma, la mitologia scandinava, l'epica di un piccolo popolo caucasico (gli Osseti), unico ad aver mantenuto radici indo-iraniane — queste realtà così distanti tra loro e apparentemente cosi clamorosamente discontinue, presenterebbero notevoli tratti in comune, riscontrabili proprio nell'elemento trifunzionale (la triade Giove/Marte/Quirino per l'antica Roma, il pantheon scandinavo giocato su tre divinità principali e così via). A tali comparizioni sono dedicati i successivi due volumi di Mito e epopea (usciti in Francia nel 1971 e nel 1973).

Gioco di incastri
Un libro sul Mahabharata ha il fascino di un gioco di incastri manovrato con straordinaria abilità. Dumézil risolve le difficoltà di un gigantesco puzzle districando la rete dei rapporti di parentela e degli scambi tra uomini e divinità. Perché i Pandava sono cinque? Perché nascono in quella successione? Come sono riportabili alle tre funzioni? Perché, per una singolarissima casualità (un vero quiproquo), ad essi tocca in sorte una sola e stessa moglie, Draupadi, e perché viene accettato pur essendo così contrario alla morale vigente?
Ad ogni capitolo del libro si addensano quesiti del genere, e Dumézil allarga via via il raggio delle indagini, approfondendo la sua inchiesta, spingendola all'indietro nella materia mitico-religiosa che è la linfa del poema. Non tutti i pezzi vanno al loro giusto posto: perché, ad esempio, i nomi degli eroi restano spesso inspiegati, cioè al loro significato letterale non corrisponde la loro funzione? Da dove provengono questi nomi? La casualità romanzesca e la necessità dottrinale — come mostra Dumézil — si incrociano secondo un'arte dell'invenzione narrativa che non finisce di stupirci; ma certo, restano ancora delle ombre.


“la Repubblica”, ritaglio senza data, ma 1982

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