4.4.17

L'ambiguità di Pinocchio (Alberto Asor Rosa)

Il destino di un libro come Le avventure di Pinocchio è d'esser nato come un fantastico libro per bambini, per diventare poi, cammin facendo, un grande libro per grandi, senza smettere mai d'essere un fantastico libro per bambini. In questa duplicità, a tal punto ricorrente da divenire, se così si può dire, permanente, stanno il suo fascino, la sua illimitata disponibilità alla lettura, la sua capacità di parlare a popoli e generazioni diversi e di rivestire, al di là della versione originaria, altre forme e altri linguaggi in movimento (dai balocchi ai cartoons, dai films di animazione, celebre una reinterpretazione disneyana, ai films veri e propri, recente e volenterosa, anche se non pienamente riuscita, la rielaborazione di Roberto Benigni).
La molteplicità dei significati e delle letture appaiono tanto più sorprendenti in quanto le vicende della sua genesi riportano a un ambiente e a tematiche apparentemente ristretti come quelli della Firenze immediatamente postunitaria, che aveva alle spalle quella Toscana granducale, della cui piccineria e ristrettezza d'orizzonti molti scrittori e intellettuali del tempo (fra cui lo stesso Collodi, in alcune deliziose operine d'impronta macchiettistica) avevano discorso. Pinocchio, o, per citare il titolo esatto dell'opera, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, fu pubblicato a puntate sul Giornale dei bambini a partire dal 7 luglio 1881. Fra il luglio e la fine di ottobre di quell'anno apparvero, a scadenze abbastanza regolari, i primi quindici capitoli, l'ultimo dei quali si conclude con l' impiccagione del burattino da parte della losca coppia Gatto e Volpe e la sua presunta morte. Sicuramente la storia, nelle intenzioni dell'autore, doveva concludersi lì: non a caso l'autore vi appose in fondo la parola fine, regolarmente passata alla stampa. Non sappiamo per quale motivo Collodi decidesse di riprendere la narrazione, ma c'è da sospettare che lo facesse per le insistenze di Guido Biagi, vecchio amico suo e uno dei principali animatori in quel momento del “Giornale dei bambini”. Fatto sta che, con il 16 febbraio 1882, i capitoli riprendono a uscire, a intervalli piuttosto grandi compaiono lungo tutto quell'anno e l'ultimo, il XXVI, esce il 25 gennaio 1883 (...).
Carlo Collodi era, com'è noto, un Carlo Lorenzini (nato a Firenze nel 1826), che aveva preso il suo pseudonimo da Collodi, piccola frazione di Pescia, di cui era originaria sua madre. La sua famiglia, è il caso di precisarlo, era molto umile, il padre cuoco in casa del Marchese Ginori Lisci, la madre sarta. Intorno a Collodi (il paesino, non lo scrittore) si stende ancor oggi un paesaggio agricolo e naturale tipicamente toscano: boschi, campi e campetti, uliveti, forre e burroni. Insomma, il paesaggio che Collodi (lo scrittore, non il paesino) avrebbe poi travasato nel suo libro, facendone la dimensione spaziale privilegiata delle «avventure di Pinocchio», il luogo (paesano e rurale) delle sue memorabili sgambate di desiderio o di paura. Dentro le caratteristiche naturali di questa ambientazione visiva e percettiva si colloca poi un paesaggio umano, e questo è davvero un dato fondamentale, fatto d'incertezza, di precarietà e di miseria. La fame, è appena il caso di ricordarlo, è un dato costitutivo della vita contadina italiana (e anche toscana) di quei tempi. Molte delle vicende narrate nel libro riflettono, attraverso il velo fantastico della favola, questa dura realtà. Anche questo è particolarmente affascinante: le descrizioni, anche quando invadono il campo delle favole, non assumono mai l'aria zuccherosa e irreale che contraddistingue la maggior parte della tradizione fiabesca. Il fantastico c'è, eccome: il burattino che parla e si muove come un bambino (ma non è mai, se non nella conclusione, un bambino vero e proprio), la Fata turchina, gli animali variamente parlanti, la discesa di Geppetto nel ventre della balena, il Serpente, ecc. Ma attraverso l'invenzione i connotati del reale s'intravvedono bene (...). La duplicità è dunque connessa alla struttura stessa della narrazione collodiana: metà fiaba e metà «novella» (per riprendere il nome proprio della tradizione narrativa toscana, alla cui lezione Collodi attinse ampiamente). Si potrebbe parlare a questo proposito di «struttura di compromesso». E del tutto evidente, infatti, che Le avventure di Pinocchio sono finalizzate e unificate da un intervento educativo, quasi inesistente all'inizio e poi sempre più chiaro e definito (soprattutto dal momento in cui la narrazione riprese), fino al punto di costituire il fondamentale strumento di riorganizzazione retroattiva dell'intera vicenda, che solo dalla conclusione assume davvero tutto il suo significato: il burattino, dopo una lunga serie di prove, anche dolorose, si riscatta dalla sua scapataggine e diventa «un bravo ragazzo» (...). Osservando i caratteri del protagonista, si può scoprire che essi sono perfettamente coerenti con l'impostazione ambigua, anzi ambivalente, della struttura. Anzi, si potrebbe probabilmente dire che questa ambiguità e ambivalenza ne discendono. Anche Pinocchio, infatti, come protagonista è fondato su di una tipica «struttura di compromesso». In poche parole, Pinocchio fin dall'inizio è qualcosa che sta a mezzo fra un burattino di legno e un ragazzo, e come l'uno o come l'altro verrà di volta in volta riconosciuto a seconda delle situazioni in cui si trova o in cui gli altri lo guardano. In taluni casi, è il burattino stesso a pensarsi come un ragazzo (...).
Giorgio Manganelli, che su Pinocchio ha scritto un libro bellissimo, sostiene che sia possibile leggere un altro libro su di un piano parallelo a quello su cui si colloca qualsiasi testo scritto, insomma, il doppio vero e proprio della carta stampata del primo. Per un testo come il nostro (e spero che il senso di questo ragionamento sia a questo punto abbastanza chiaro), molti e diversi potrebbero esserne proposti. Io penso che Pinocchio possa (forse debba) esser letto, oltre che come un libro di avventure per bambini oppure come un libro di proposta pedagogica, come un libro di metamorfosi. Il meccanismo fondamentale e al tempo stesso il tema radicale del protagonista è la trasformazione, il continuo passaggio del protagonista da una condizione all' altra. Persino l'incessante dinamismo, di cui abbiamo parlato, e le inquietudini psichiche, da cui il protagonista non è esente, sono indizi di una costante inclinazione alla trasformazione (...). Questi «transiti» si compiono in un mondo in cui è raramente dominante la luce del giorno. Anzi: si potrebbe dire che Collodi colloca buona parte della narrazione (direi quasi sicuramente più di un terzo, forse la metà) in un contesto notturno. Aggiungo: questo contesto notturno è in genere tempestoso e invernale (spesso il freddo s'accompagna alla fame). Ancora: nel contesto notturno tempestoso e invernale si svolgono le (dis) avventure più clamorosamente catastrofiche di Pinocchio (...). A questa ambientazione notturna s'accompagna spesso, a turbare anche da questo punto di vista il tranquillo svolgimento di un racconto di fiaba, la vera e propria ossessione mortuaria, da cui Collodi sembra essere tormentato (dalla morte di Pinocchio stesso, svoltasi e descritta in maniera orribile, a quella della Fatina, con conseguenti ostentazioni funerarie, ecc.) (...).
Se le cose stanno così, allora una nuova conclusione potrebbe esser questa. Non possono essere sottovalutati nella costruzione del personaggio Pinocchio questo elemento del buio, della «notturnità», il terrore dell'oscurità, che accompagna il rapporto di qualsiasi bambino con quelle che non possono non apparirgli come le tenebre primordiali (anche quando si tratti della normale oscurità notturna, che quotidianamente segue alle luci del giorno). Se introduciamo anche questa nuova dimensione nell'apprezzamento del racconto, la soglia di comprensione si sposta e gli sdoppiamenti di Collodi e di Pinocchio, si prolungano fino a rimettere in discussione quello che ad un certo punto ci era sembrato il tranquillo punto d'arrivo dell'intero processo. Evidentemente, come accade sovente nei temperamenti estroversi, ironici, dissacratori (e quello di Collodi sicuramente lo era), c'è un versante del suo carattere che s'affaccia sull'umor nero, la «melancolia», il ripiegamento e la depressione. Insomma, un Collodi saturnino e un po' perverso accanto o dentro un Collodi motteggiatore e teatrante, macchiettista e freddurista (...).


la Repubblica, 4 gennaio 2005  

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