20.4.17

Quell'anarchico di nome Franz. Il Kafka tutto politico di Michael Löwy (Mario Pezzella)

Un uomo ribelle, ironico, con simpatie sovversive: questo l'inconsueto ritratto di Kafka, come emerge dal libro di Michael Löwy Kafka, sognatore ribelle (Eléuthera, pp. 136, euro 13). Löwy ricorda i contatti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi e la «passione antiautoritaria», da cui prende origine la sua opera letteraria. La sua ribellione contro l'autorità patriarcale possiede una dimensione storica e politica, presente anche nei romanzi maggiori. Il Processo - secondo Löwy -, oltre ad essere un resoconto di disperazione esistenziale, compie una critica radicale del potere burocratico, che domina lo stato del Novecento. L'autorità contestata da Kafka non è solo quella familiare e paterna, ma è l'impersonale e anonima burocrazia, che la sostituisce in forma sempre più radicale nel corso del secolo passato (come mostreranno gli studi sull'autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte). Sembra che Kafka abbia affermato in una conversazione: «Le catene dell'umanità torturata sono di carta protocollo», riferendosi agli immani meandri e apparati amministrativi dello stato moderno, in cui l'individuo viene stritolato come una rondella insignificante. Il «Castello» dell'omonimo romanzo è il simbolo stesso di questa anonima impenetrabilità. Secondo Löwy, i romanzi di Kafka descrivono il passaggio epocale da un'autorità fondata sulla dipendenza personale, ad un potere astratto che si impone «come il meccanismo impersonale del congegno» (Löwy), destinato a uccidere i condannati nel racconto Nella colonia penale.
In realtà, più che ad una completa eliminazione del potere arcaico e personale assistiamo nell'opera di Kafka al suo inedito connubio con una tecnologia «sofisticata, moderna, esatta, calcolata, razionale» (Löwy). Il più arcaico e il più moderno si fondono nell'ottusa brutalità dei funzionari kafkiani, che sono nonostante tutto i rappresentanti di un'autorità astratta e insondabile. Come già aveva osservato Walter Benjamin nel suo saggio su Kafka, il diritto e la burocrazia sono le incarnazioni moderne del destino, che impedisce la libertà e l'autodecisione. La reificazione burocratica è un'espressione di quella generalmente imposta dal capitalismo, di cui sembra che Kafka abbia affermato: «Il capitalismo è un sistema di dipendenze che procedono dall'alto al basso e dal basso all'alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è una condizione del mondo e dell'anima».
Una lettura così dichiaratamente politica dell'opera di Kafka non esclude tuttavia altri piani di lettura - teologico, esistenziale, psicoanalitico -, collocandoli in una prospettiva critica e non convenzionale. Così, la meditazione teologica di Kafka non ha nulla in comune con le rassicuranti interpretazioni del suo amico Max Brod, per cui il Castello rappresenterebbe la Grazia o il governo di Dio. Come già avevano intuito Adorno e Benjamin, quella di Kafka è una teologia radicalmente negativa, in cui ogni Legge ed ogni Chiesa positiva hanno perso intima vitalità e si sono trasformate in apparati astratti al servizio del potere. «La non-presenza di dio nel mondo e la non-redenzione degli uomini», caratterizzano secondo Löwy la teologia negativa kafkiana. Come Benjamin, egli crede tuttavia in una «debole forza messianica», che sarebbe rimasta in possesso dell'umanità e sosterrebbe la sua resistenza contro il male e l'apparato del dominio. Come Bloch, Scholem e lo stesso Benjamin nei primi due decenni del secolo, Kafka è incline a una sorta di paradossale «anarchismo religioso»: la redenzione messianica richiede la cooperazione dell'uomo e questa si manifesta innanzittutto nella distruzione degli apparati di costrizione e di potere: «Il Messia verrà solo quando non sarà più necessario», scrive in tal senso Kafka in un aforisma del 1917, «non all'ultimo, ma all'ultimissimo giorno».
Anche l'ebraismo di Kafka va considerato alla luce della sua passione antiautoritaria. E' probabile che nella stesura del Processo Kafka sia stato influenzato da alcune condanne per «omicidio rituale», e dall'antisemitismo morboso che ne era derivato (in particolare quella contro Mendel Beiliss, del 1913). Esse gli ponevano innanzi in modo inconfutabile la maledizione del paria, che poteva colpire alla cieca e in modo irrazionale ogni ebreo (questa nozione è al centro di un grande saggio di Hannah Arendt del 1944). Tuttavia, questa condizione viene da lui progressivamente universalizzata. K. nel processo rapresenta la condizione ebraica, eppure allo stesso tempo la sorte che sempre più frequentemente può toccare ad ogni individuo sottoposto agli apparati giuridici della modernità. I romanzi di Kafka sono scritti «dal punto di vista dei vinti» (Löwy) e descrivono la reificazione che invade ormai ogni piega dell'esperienza soggettiva, senza risparmiare quel «foro interiore», che perfino Hobbes riteneva intangibile dalla violenza del potere. La corruzione della più intima soggettività è l'aspetto più inquietante dell'opera kafkiana, che Arendt ha indicato come interiorizzazione della colpa e identificazione con l'aggressore.
Alla fine del Processo, K. si lascia uccidere quasi senza reagire, come rassegnato e convinto della propria colpa. In realtà, per quel poco che sappiamo della sua vita, egli non è colpevole per avere resistito o trasgredito a qualche legge, ma per aver partecipato senza protesta all'apparato anonimo e impersonale, che ora lo colpisce personalmente. Burocrate egli stesso, K. è solitario, narcisista e indifferente alla sorte degli altri. Egli ha compiutamente interiorizzato la legge dell'apparato, prima di subirne e comprenderne sul suo corpo la cieca violenza. Il male compiuto da K. è una «banale» pertecipazione all'indifferenza e alla passività collettiva, come quelle che poi realmente permetteranno la creazione dei totalitarismi e dei campi di sterminio. Il romanzo descrive il risveglio doloroso della sua coscienza e la sua tardiva decisione a lottare. Come spesso Kafka ripete nella sua opera, il rinvio e la sospensione indefinita conducono a perdere l'attimo propizio, che precipita inesorabilmente nel tempo mancato.


il manifesto 20 aprile 2007

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