Il Grande Cretto di Gibellina fotografato nel 2014 da Marzia Migliora (Progetto "Aqua Micans") |
È l’estate del ‘79.
A undici anni dal terremoto che il 15 gennaio 1968 ha distrutto
Gibellina, il padre-sindaco comunista della città, Ludovico Corrao,
che ha avuto l’idea visionaria di chiamare i grandi artisti del
presente per far risplendere la città nuova – un’astronave
modernista inopinatamente atterrata nel paesaggio ancestrale della
Valle del Belìce –, riesce a farci venire il più grande di tutti.
Muto come sempre, Alberto Burri percorre i viali metafisici di quella
Brasilia ancora incompiuta (e che tale resterà sino ad oggi), di
quel museo a cielo aperto – la Stella di Pietro Consagra alle porte
della città, la chiesa sferica di Ludovico Quaroni, le mura di
ceramica colorata di Carla Accardi. I silenzi di Burri sono
famigerati, ma questo pesa come un macigno. Poi a qualcuno viene in
mente di portarlo a Gibellina Vecchia, a 18 chilometri di distanza.
Le macerie del terremoto sono restate lì, lutto che non si può
elaborare. A quel punto qualcosa, dentro di lui, finalmente si muove.
Torna a Città di Castello e, due anni dopo, deposita a Palazzo
Albizzini il suo progetto. Un’opera di proporzioni gigantesche.
Quasi 90 mila metri quadrati di cemento bianco da far colare sopra le
macerie di Gibellina Vecchia, per uno spessore di circa un metro e
sessanta. Un enorme rettangolo irregolare, 270 metri per 310,
percorso da scanalature larghe un metro, che seguono il tracciato
delle strade sepolte. Vista dal basso, sarà una città fantasma.
Visto dall’alto, con lo sguardo dal di fuori degli alieni o degli
dèi (del quale in quel 1981, proprio, scriveva Alberto Boatto), sarà
– semplicemente – il Grande Cretto.
Corrao trattiene il
fiato. Come realizzare una simile impresa? Con la sua proverbiale
ostinazione, dal 1985 al 1989, un po’ alla volta procura i fondi
che, tessera dopo tessera, consentono di realizzare parte
dell’immenso mosaico. A un certo punto, a dare una mano, arrivano
le ruspe dell’Esercito; segue i lavori l’architetto Alberto
Zanmatti. Nel maggio del 1987 Burri torna a Gibellina. In una foto di
Vittorugo Contino lo si vede scendere dall’auto di Corrao; per la
prima volta vede il Cretto, riflesso sui suoi occhiali. La sua
espressione è indecifrabile come sempre, ma un sorriso gli sfiora le
labbra. È chiaro, però, che l’opera non verrà mai completata.
Almeno non la vedranno compiuta né Burri (che muore nel ‘95) né
Corrao. Che nell’estate del 2011 fa una fine tragica, sgozzato dal
suo badante bengalese. A caldo un altro suo complice, Emilio Isgrò,
scrive un poemetto che si conclude con queste parole: «Non t’ha
ucciso Sayfùl, non t’ha ammazzato l’aria. / T’ha ucciso la
Sicilia per conto dell’Italia».
Alla gola dell’utopia,
quella coltellata è durata vent’anni. Nel ‘94 Corrao non viene
rieletto sindaco ma già da un pezzo quelle risorse, che una volta
riusciva ad attirare, si sono volatilizzate (Gibellina Nuova, per
scelta misteriosa del governo nazionale, è stata costruita su
terreni dei cugini Salvo. E sono questi gli anni in cui, sulla
Sicilia, il potere mafioso si stringe più che mai). Non solo non si
completano le architetture previste dal piano urbanistico (che nel
frattempo si coprono di ruggine) o almeno il Grande Cretto (che
s’ingrigisce, s’ingobbisce, si squarcia), mancano i soldi per la
manutenzione di quelle che ci sono, o per tenere aperto il Museo
d’Arte Contemporanea dove risplendono – o meglio
risplenderebbero, visto che è chiuso da più d’un anno –
Schifano e Boetti, Scialoja e Melotti. Le Orestiadi sono un’altra
grande idea di Corrao: che dal 1981 chiama i più grandi teatranti
del mondo, d’estate, a esibirsi proprio sul Cretto.
Qui vanno in scena
L’Orestea di Gibellina di Isgrò, colle scene di Arnaldo
Pomodoro, Le troiane di Euripide per la regia di Thierry
Salmon. Ma, lamenta da anni l’arabista Francesca Corrao (la figlia
di Ludovico che ne presiede il comitato scientifico), come il Museo e
la Fondazione Orestiadi, abbandonati dalle istituzioni, sempre più
rischia di diventare una scatola vuota.
Proprio il Vuoto è il
demone che insidia Gibellina. Il suo sogno, la sua utopia, le sue
aporie. Diceva Burri (lo riporta Giuliano Serafini): «Se non si è
capaci di dipingere grande, non si è pittori. Klee e Licini, per
esempio, bravi e poetici, non c’è che dire, ma “leggerini”».
E ancora: «La misura di una forma è la misura di quella determinata
forma». Il Cretto deve essere Grande. Se lo vedi, dal basso come
dall’alto, la vastità della concezione – la sua portata
simbolica (dove del sostantivo si recuperi la lettera) – è
qualcosa che ti lascia semplicemente senza fiato.
Ora, se sei il visitatore
di un giorno, senza fiato ci resti (forse) volentieri. Ma se invece
lì ci vivi? Il rapporto dei gibellinesi colla città nuova, e con lo
stesso Cretto – scenari troppo vasti e metafisici, troppo alieni –
è quantomeno ambivalente. Se da Gibellina Nuova chiedi la strada per
il Grande Cretto, può darsi che ti dicano che non la sanno (e, se
non ti ci accompagnano, arrivarci è una piccola impresa). La musica
cambia se dici che vuoi andare a Gibellina Vecchia. Una volta ho
ascoltato Franco Purini (al cui progetto si deve il Sistema delle
piazze) dire più o meno: può darsi che ai gibellinesi che hanno
vissuto nella città vecchia la nuova appaia estranea. Ma come doveva
sembrare l’architettura barocca, ai Siciliani d’Oriente, dopo il
terremoto della Val di Noto del 1693? Eppure per noi, oggi, le volute
di quel marmo bianco rosato dal sole sono la Sicilia più Sicilia che
c’è…
Chi l’ha spiegato
meglio di tutti è stato un geografo che capiva l’arte e la poesia,
Eugenio Turri. Il paesaggio non è natura allo stato puro,
wilderness. È invece natura umanizzata: nella quale l’uomo
vive e opera. Il paesaggio è un testo: per la precisione, dice
Turri, un testo teatrale. Che vive solo nelle sue interpretazioni:
restando sempre se stesso ma anche modificandosi, di volta in volta,
nella sensibilità di chi lo abita. Come un testo teatrale, non ha
senso lasciarlo ad ammuffire nel cauteloso rispetto dei conservatori;
così come interpretazioni troppo disinvolte – che non serbino cioè
memoria del suo senso originario, delle interpretazioni che si sono
succedute nel tempo e che nel tempo lo hanno arricchito – rischiano
di obliterarlo. Cioè di distruggerlo.
Non è un caso dunque: né
che sul Cretto si sia per anni tenuto uno dei maggiori festival
teatrali, né che il Cretto lo abbia concepito chi da qualche tempo
aveva preso a lavorare per il teatro. L’idea dei Cretti (composti
di materiali che essiccandosi fessurano la superficie), ha raccontato
Burri, gli era venuta mentre viaggiava nel deserto americano; per la
precisione, nella Valle della Morte (già). Ma il primo fu, nel ’72
all’Opera di Roma, per il balletto November Steps, musica di Toru
Takemitsu e coreografia di Minsa Craig (che Burri aveva sposato nel
‘55). L’anno dopo il Teatro Continuo a Parco Sempione, a Milano,
si chiamerà così perché, dismesso come spazio scenico,
sopravviverà come forma autonoma.
Neppure il Grande Cretto
è una forma univoca. Come ogni grande opera è viceversa uno
schermo: sul quale ciascuno di noi proietta se stesso. Non un dato,
bensì un processo: appunto un teatro. Per questo forse Burri accettò
che lo si mettesse in cantiere senza garanzie che venisse completato.
E per questo disse a Corrao che l’ideale sarebbe stato che fossero
gli stessi gibellinesi a realizzarlo. Il restauro più giusto, a
trent’anni da quella prima colata di cemento, sarebbe allora quello
partecipato: in cui la cittadinanza si riunisca una volta all’anno
per commemorare i propri morti dando una mano di calce su questo che
altro non è – e loro lo sanno benissimo – che un immenso e
crudele e spaventoso e disumano, e umanissimo, monumento funebre.
Così dice oggi un intellettuale gibellinese, Nicolò Stabile, che da
qualche anno – dopo aver girato il mondo producendo spettacoli
teatrali per le maggiori compagnie d’Europa – è tornato a casa
con in testa un’idea precisa, che persegue colla stessa ostinazione
maniaca di Corrao: riportare in vita il Cretto, farlo finalmente
riconciliare colla comunità alla quale appartiene. Nel 2010 Stabile
lancia un appello, firmato da un centinaio di personalità dell’arte
e della cultura e consegnato alla Regione e al ministero dei Beni
Culturali. Per il restauro il ministero stanzia un milione e 100 mila
euro, e la scorsa primavera viene inaugurata la prima tranche: il
completamento della parte incompiuta. Solo che ora il Cretto è
bicolore. Per un quarto è bianco, liscio e uniforme, come l’aveva
pensato Burri; per tre quarti grigio e rugoso, bitorzoluto,
abbandonato nello stato dell’ultimo ventennio. Dagli spacchi cresce
una vegetazione spontanea, dal piglio tenace e sottilmente ironico.
Stabile lavora a un documentario, sul Cretto; ho visto in anteprima
le interviste agli amici di Burri, Zanmatti, Lorenzo Fonda… tutti
d’accordo su quanto lo offendano le pale eoliche che ora cingono
d’assedio il sito. Ma cosa avrebbe detto, Burri, di un Cretto
bicolore!
Il suo bianco è
squillante, volutamente brutale. Funebre, certo, ma anche così
“siciliano”... Ma il grigio… l’anima di ferro che emerge
dagli spigoli nel cemento, coperta di ruggine; gli squarci nella
superficie, voragini. Ti arrampichi sopra, se ce la fai, e da quegli
squarci scorgi il palinsesto di Gibellina vecchia. Sostiene Marilena
Renda (che alla sua città ha dedicato un poema dal titolo eloquente,
Ruggine) che in uno di questi buchi, una volta, le è apparsa una
Madonnina: decorazione di qualche tabernacolo ancestrale. Mi dice
Stabile che sinora il progetto di restauro – in omaggio alle
concezioni di quello che è stato anche uno dei massimi interpreti di
Burri, Cesare Brandi – è stato di natura conservativa. Il minimo
indispensabile, cioè, col massimo rispetto per la famigerata patina
del tempo. Ma quello che vale (forse) per Michelangelo non può
valere per Burri. Diversa la concezione, diversa la funzione, diversa
(dovrebbe essere) la dottrina.
Il Cretto è un Teatro,
si diceva. Ma è anche un Monumento: il più grande monumento funebre
del mondo. Che come proprio primo ufficio, per etimo, ha quello di
ricordare. Ora, questa sua doppia anima appunto incarna la dialettica
della memoria. Non si può ricordare tutto. L’oblio è la selezione
che la mente, individuale e collettiva deve operare perché una
qualche memoria possa essere condivisa. Si conserva quello che conta
davvero, quello che resta. La memoria poi, insegnano Freud e Ricoeur,
funziona a strati: una struttura sedimentaria in cui uno strato si
sovrappone all’altro, ma certe eminenze del primo – certe sue
pieghe, con l’immagine di Gilles Deleuze – continuano a rilevarsi
anche nel secondo. La memoria è come la terra, insomma: una
struttura geologica. Ed è proprio letteralizzando questa metafora
che opera il Cretto. La crudeltà colla quale Burri ha spianato le
macerie di Gibellina Vecchia è l’unica condizione perché da
quelle ceneri una Gibellina Nuova possa, prima o poi, davvero
riprendere vita. Ora che, per ironia della sorte, il Cretto è a sua
volta una mezza maceria, è ai nuovi gibellinesi che tocca
prendersene cura. Solo così, finalmente, potranno nascere.
Pagina 99, 28 novembre
2015
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