26.4.17

Burri a Gibellina. Ritorno al Grande Cretto tra le crepe della memoria (Andrea Cortellessa)

Il Grande Cretto di Gibellina fotografato nel 2014 da Marzia Migliora (Progetto "Aqua Micans")
È l’estate del ‘79. A undici anni dal terremoto che il 15 gennaio 1968 ha distrutto Gibellina, il padre-sindaco comunista della città, Ludovico Corrao, che ha avuto l’idea visionaria di chiamare i grandi artisti del presente per far risplendere la città nuova – un’astronave modernista inopinatamente atterrata nel paesaggio ancestrale della Valle del Belìce –, riesce a farci venire il più grande di tutti. Muto come sempre, Alberto Burri percorre i viali metafisici di quella Brasilia ancora incompiuta (e che tale resterà sino ad oggi), di quel museo a cielo aperto – la Stella di Pietro Consagra alle porte della città, la chiesa sferica di Ludovico Quaroni, le mura di ceramica colorata di Carla Accardi. I silenzi di Burri sono famigerati, ma questo pesa come un macigno. Poi a qualcuno viene in mente di portarlo a Gibellina Vecchia, a 18 chilometri di distanza. Le macerie del terremoto sono restate lì, lutto che non si può elaborare. A quel punto qualcosa, dentro di lui, finalmente si muove. Torna a Città di Castello e, due anni dopo, deposita a Palazzo Albizzini il suo progetto. Un’opera di proporzioni gigantesche. Quasi 90 mila metri quadrati di cemento bianco da far colare sopra le macerie di Gibellina Vecchia, per uno spessore di circa un metro e sessanta. Un enorme rettangolo irregolare, 270 metri per 310, percorso da scanalature larghe un metro, che seguono il tracciato delle strade sepolte. Vista dal basso, sarà una città fantasma. Visto dall’alto, con lo sguardo dal di fuori degli alieni o degli dèi (del quale in quel 1981, proprio, scriveva Alberto Boatto), sarà – semplicemente – il Grande Cretto.
Corrao trattiene il fiato. Come realizzare una simile impresa? Con la sua proverbiale ostinazione, dal 1985 al 1989, un po’ alla volta procura i fondi che, tessera dopo tessera, consentono di realizzare parte dell’immenso mosaico. A un certo punto, a dare una mano, arrivano le ruspe dell’Esercito; segue i lavori l’architetto Alberto Zanmatti. Nel maggio del 1987 Burri torna a Gibellina. In una foto di Vittorugo Contino lo si vede scendere dall’auto di Corrao; per la prima volta vede il Cretto, riflesso sui suoi occhiali. La sua espressione è indecifrabile come sempre, ma un sorriso gli sfiora le labbra. È chiaro, però, che l’opera non verrà mai completata. Almeno non la vedranno compiuta né Burri (che muore nel ‘95) né Corrao. Che nell’estate del 2011 fa una fine tragica, sgozzato dal suo badante bengalese. A caldo un altro suo complice, Emilio Isgrò, scrive un poemetto che si conclude con queste parole: «Non t’ha ucciso Sayfùl, non t’ha ammazzato l’aria. / T’ha ucciso la Sicilia per conto dell’Italia».
Alla gola dell’utopia, quella coltellata è durata vent’anni. Nel ‘94 Corrao non viene rieletto sindaco ma già da un pezzo quelle risorse, che una volta riusciva ad attirare, si sono volatilizzate (Gibellina Nuova, per scelta misteriosa del governo nazionale, è stata costruita su terreni dei cugini Salvo. E sono questi gli anni in cui, sulla Sicilia, il potere mafioso si stringe più che mai). Non solo non si completano le architetture previste dal piano urbanistico (che nel frattempo si coprono di ruggine) o almeno il Grande Cretto (che s’ingrigisce, s’ingobbisce, si squarcia), mancano i soldi per la manutenzione di quelle che ci sono, o per tenere aperto il Museo d’Arte Contemporanea dove risplendono – o meglio risplenderebbero, visto che è chiuso da più d’un anno – Schifano e Boetti, Scialoja e Melotti. Le Orestiadi sono un’altra grande idea di Corrao: che dal 1981 chiama i più grandi teatranti del mondo, d’estate, a esibirsi proprio sul Cretto.
Qui vanno in scena L’Orestea di Gibellina di Isgrò, colle scene di Arnaldo Pomodoro, Le troiane di Euripide per la regia di Thierry Salmon. Ma, lamenta da anni l’arabista Francesca Corrao (la figlia di Ludovico che ne presiede il comitato scientifico), come il Museo e la Fondazione Orestiadi, abbandonati dalle istituzioni, sempre più rischia di diventare una scatola vuota.
Proprio il Vuoto è il demone che insidia Gibellina. Il suo sogno, la sua utopia, le sue aporie. Diceva Burri (lo riporta Giuliano Serafini): «Se non si è capaci di dipingere grande, non si è pittori. Klee e Licini, per esempio, bravi e poetici, non c’è che dire, ma “leggerini”». E ancora: «La misura di una forma è la misura di quella determinata forma». Il Cretto deve essere Grande. Se lo vedi, dal basso come dall’alto, la vastità della concezione – la sua portata simbolica (dove del sostantivo si recuperi la lettera) – è qualcosa che ti lascia semplicemente senza fiato.
Ora, se sei il visitatore di un giorno, senza fiato ci resti (forse) volentieri. Ma se invece lì ci vivi? Il rapporto dei gibellinesi colla città nuova, e con lo stesso Cretto – scenari troppo vasti e metafisici, troppo alieni – è quantomeno ambivalente. Se da Gibellina Nuova chiedi la strada per il Grande Cretto, può darsi che ti dicano che non la sanno (e, se non ti ci accompagnano, arrivarci è una piccola impresa). La musica cambia se dici che vuoi andare a Gibellina Vecchia. Una volta ho ascoltato Franco Purini (al cui progetto si deve il Sistema delle piazze) dire più o meno: può darsi che ai gibellinesi che hanno vissuto nella città vecchia la nuova appaia estranea. Ma come doveva sembrare l’architettura barocca, ai Siciliani d’Oriente, dopo il terremoto della Val di Noto del 1693? Eppure per noi, oggi, le volute di quel marmo bianco rosato dal sole sono la Sicilia più Sicilia che c’è…
Chi l’ha spiegato meglio di tutti è stato un geografo che capiva l’arte e la poesia, Eugenio Turri. Il paesaggio non è natura allo stato puro, wilderness. È invece natura umanizzata: nella quale l’uomo vive e opera. Il paesaggio è un testo: per la precisione, dice Turri, un testo teatrale. Che vive solo nelle sue interpretazioni: restando sempre se stesso ma anche modificandosi, di volta in volta, nella sensibilità di chi lo abita. Come un testo teatrale, non ha senso lasciarlo ad ammuffire nel cauteloso rispetto dei conservatori; così come interpretazioni troppo disinvolte – che non serbino cioè memoria del suo senso originario, delle interpretazioni che si sono succedute nel tempo e che nel tempo lo hanno arricchito – rischiano di obliterarlo. Cioè di distruggerlo.
Non è un caso dunque: né che sul Cretto si sia per anni tenuto uno dei maggiori festival teatrali, né che il Cretto lo abbia concepito chi da qualche tempo aveva preso a lavorare per il teatro. L’idea dei Cretti (composti di materiali che essiccandosi fessurano la superficie), ha raccontato Burri, gli era venuta mentre viaggiava nel deserto americano; per la precisione, nella Valle della Morte (già). Ma il primo fu, nel ’72 all’Opera di Roma, per il balletto November Steps, musica di Toru Takemitsu e coreografia di Minsa Craig (che Burri aveva sposato nel ‘55). L’anno dopo il Teatro Continuo a Parco Sempione, a Milano, si chiamerà così perché, dismesso come spazio scenico, sopravviverà come forma autonoma.
Neppure il Grande Cretto è una forma univoca. Come ogni grande opera è viceversa uno schermo: sul quale ciascuno di noi proietta se stesso. Non un dato, bensì un processo: appunto un teatro. Per questo forse Burri accettò che lo si mettesse in cantiere senza garanzie che venisse completato. E per questo disse a Corrao che l’ideale sarebbe stato che fossero gli stessi gibellinesi a realizzarlo. Il restauro più giusto, a trent’anni da quella prima colata di cemento, sarebbe allora quello partecipato: in cui la cittadinanza si riunisca una volta all’anno per commemorare i propri morti dando una mano di calce su questo che altro non è – e loro lo sanno benissimo – che un immenso e crudele e spaventoso e disumano, e umanissimo, monumento funebre. Così dice oggi un intellettuale gibellinese, Nicolò Stabile, che da qualche anno – dopo aver girato il mondo producendo spettacoli teatrali per le maggiori compagnie d’Europa – è tornato a casa con in testa un’idea precisa, che persegue colla stessa ostinazione maniaca di Corrao: riportare in vita il Cretto, farlo finalmente riconciliare colla comunità alla quale appartiene. Nel 2010 Stabile lancia un appello, firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e consegnato alla Regione e al ministero dei Beni Culturali. Per il restauro il ministero stanzia un milione e 100 mila euro, e la scorsa primavera viene inaugurata la prima tranche: il completamento della parte incompiuta. Solo che ora il Cretto è bicolore. Per un quarto è bianco, liscio e uniforme, come l’aveva pensato Burri; per tre quarti grigio e rugoso, bitorzoluto, abbandonato nello stato dell’ultimo ventennio. Dagli spacchi cresce una vegetazione spontanea, dal piglio tenace e sottilmente ironico. Stabile lavora a un documentario, sul Cretto; ho visto in anteprima le interviste agli amici di Burri, Zanmatti, Lorenzo Fonda… tutti d’accordo su quanto lo offendano le pale eoliche che ora cingono d’assedio il sito. Ma cosa avrebbe detto, Burri, di un Cretto bicolore!

Il suo bianco è squillante, volutamente brutale. Funebre, certo, ma anche così “siciliano”... Ma il grigio… l’anima di ferro che emerge dagli spigoli nel cemento, coperta di ruggine; gli squarci nella superficie, voragini. Ti arrampichi sopra, se ce la fai, e da quegli squarci scorgi il palinsesto di Gibellina vecchia. Sostiene Marilena Renda (che alla sua città ha dedicato un poema dal titolo eloquente, Ruggine) che in uno di questi buchi, una volta, le è apparsa una Madonnina: decorazione di qualche tabernacolo ancestrale. Mi dice Stabile che sinora il progetto di restauro – in omaggio alle concezioni di quello che è stato anche uno dei massimi interpreti di Burri, Cesare Brandi – è stato di natura conservativa. Il minimo indispensabile, cioè, col massimo rispetto per la famigerata patina del tempo. Ma quello che vale (forse) per Michelangelo non può valere per Burri. Diversa la concezione, diversa la funzione, diversa (dovrebbe essere) la dottrina.
Il Cretto è un Teatro, si diceva. Ma è anche un Monumento: il più grande monumento funebre del mondo. Che come proprio primo ufficio, per etimo, ha quello di ricordare. Ora, questa sua doppia anima appunto incarna la dialettica della memoria. Non si può ricordare tutto. L’oblio è la selezione che la mente, individuale e collettiva deve operare perché una qualche memoria possa essere condivisa. Si conserva quello che conta davvero, quello che resta. La memoria poi, insegnano Freud e Ricoeur, funziona a strati: una struttura sedimentaria in cui uno strato si sovrappone all’altro, ma certe eminenze del primo – certe sue pieghe, con l’immagine di Gilles Deleuze – continuano a rilevarsi anche nel secondo. La memoria è come la terra, insomma: una struttura geologica. Ed è proprio letteralizzando questa metafora che opera il Cretto. La crudeltà colla quale Burri ha spianato le macerie di Gibellina Vecchia è l’unica condizione perché da quelle ceneri una Gibellina Nuova possa, prima o poi, davvero riprendere vita. Ora che, per ironia della sorte, il Cretto è a sua volta una mezza maceria, è ai nuovi gibellinesi che tocca prendersene cura. Solo così, finalmente, potranno nascere.


Pagina 99, 28 novembre 2015

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