Nel 2012 cade il
cinquantenario di uno dei libri obbligatori della nostra letteratura:
Memoriale di Paolo Volponi, romanzo dell’alienazione
dell’individuo nella moderna civiltà industriale. E, a proposito
di industria, se quella editoriale sacrifica la presenza di questo
scrittore in libreria lasciandone evaporare dai cataloghi, ancor
prima che dagli scaffali, la produzione persino maggiore, sta agli
editori piccoli e indipendenti riproporre e ridiscuterne opere e
pensiero senza distinzioni perimetrali, in omaggio al felice,
indistricabile connubio che ha fatto di lui (come di Fortini e di
Pasolini) uno degli emblemi di quella stagione degli
«scrittori-intellettuali» al tempo stesso in auge e al tramonto
dalla fine degli anni Settanta. Tanto attivo, Volponi, da avere un
ruolo determinante nella costituzione del Partito della Rifondazione
comunista, e, prima ancora, nel Senato della Repubblica, tra l’83 e
il ’93.
Una silloge dei più
significativi tra i suoi discorsi parlamentari, scelti da Massimo
Raffaeli e introdotti da Emanuele Zinato (curatore, tra l’altro, di
Romanzi e prose per la Nue, oggi pressoché introvabili), esce
per un editore militante come Ediesse – che dà in contemporanea
alle stampe, a dire delle infaticabili iniziative di recupero, un
libro «piccista» sconosciuto e fondamentale come il Palmiro
di Luigi Di Ruscio.
Precede i discorsi
volponiani ciò che resta di un «romanzo parlamentare-epistolare»,
concepito negli anni dell’impegno politico, sulla leggendaria
figura di un Senatore segreto con cui s’identificano i moventi di
azioni misteriose e presenze inspiegabili nei luoghi del potere
(«cattivi pensieri e scorregge infettive», nel testo).
Ma al di là della
inedita e curiosa spy story recuperata da Sofia Pellegrin,
l’interesse maggiore del libro sul piano storico-letterario risiede
proprio nei discorsi annunciati dal titolo complessivo: Parlamenti,
che fa pensare, per indebito accostamento, a un celebre titolo di
Gianni Celati, in cui il sostantivo si corredava dell’epiteto di
buffi (e in tutt’altra chiave, affabulatoria e picaresca, si
declinava in quelli, in effetti, l’atto del discorrere).
Quel che impressiona nei
«nuovi» Parlamenti (titolo stavolta editoriale e denotativo)
è invece la sporadica presenza (confinata per lo più nell’abbozzo
di romanzo) dell’ironia e, di contro, un rigore estremo nella
partecipazione politica, con l’impegno diretto e competente (al di
là dell’oratoria impeccabile) nella discussione pubblica dei
decreti, o mosse coraggiose come le dimissioni in caso di dissenso
dalla sua parte.
A testimonianza di una
concezione affatto personalistica del potere, rispetto alla quale le
condizioni di governo dell’ultimo decennio – a tenersi stretti –
hanno marcato una distanza di epoche molto più profonda di quanto
non dicano le date e i nomi mutati (e in fondo Volponi già parlava
degli effetti nefasti della televisione e della pubblicità sulla
lingua – il «vada» e il «venghi» fantozziani –, oltre che sui
costumi e sull’«inconscio»).
E però quel che
maggiormente rallegra è rinvenirvi la considerazione della politica
all’interno di un panorama più ampio, rivolto ai destini di un
organismo collettivo che a seconda dei casi si chiama, senza
fanatismi o populismi di sorta, l’interesse generale, la società,
la realtà.
Le parole chiave sono
dunque «lavoro», innanzitutto, e poi «industria», e in
particolare la definizione del suo sviluppo inteso come «capacità
di inventare una grande ricerca scientifica alla portata del paese,
della scuola, delle organizzazioni pubbliche, delle amministrazioni e
di tutte le forze del lavoro», laddove, però, con l’inseguire il
mero profitto, essa ostenterebbe, nella realtà effettuale, piuttosto
il proprio «prepotere» e «dominio», riducendo la «massa dei
dipendenti» a mera «scorta». Assunto tristemente attualizzabile e
dimostrato dalla fase di recessione presente, per cui determinandosi
uno stato di crisi è stato il mercato a sopravanzare la politica,
dove per Volponi questa dovrebbe viceversa incarnare in ogni
circostanza l’aggregato di tutte le forze e di tutti i poteri, in
nome di un interesse che li travalichi.
L’assunto che in
qualunque ambito, dalla politica alla cultura alla formazione, non
esistano obiettivi ristretti, ma un circuito di elaborazione,
condivisione e verifica delle idee («non vi è nulla di più pratico
della teoria»), è il principio guida di questi discorsi, che anche
rispetto all’occasione più contingente (dalla riforma della scuola
all’intervento per il mezzogiorno al piano energetico nazionale
alla guerra nel Golfo) si richiamano alla relazione imprescindibile
del piano ideale con la sua attuazione concreta («né piango perché
cascano le statue»: della fine del comunismo).Non a caso, ai termini
di stampo prevalentemente economico si affiancano categorie mutuate
da altri saperi e competenze, dalla letteratura alla psicoanalisi in
special modo, adoperate come strumenti di comprensione e di analisi
non pacificata del presente e dei suoi conflitti.
Così nella discussione
sul «decreto di San Valentino», che nell’84 abrogava la
famigerata scala mobile sancendo la nascita del precariato, Volponi
si avvale dell’«ossessione» per definire l’incapacità di
focalizzare un oggetto senza ingaggiare meccanismi di identificazione
o rivalità con esso, e senza coltivare per suo tramite «sogni
fallaci di onnipotenza»: il governo non è il decreto, dice
ottimamente Volponi (o, addirittura, il governo non s’identifica
con «i singoli componenti»), e il decreto non può essere il
fantasma del governo.
Senso dei tempi, ma anche
effettiva lungimiranza: tanto per smentire, insieme, quello che
voleva tenere i «poeti» fuori dallo stato e coloro, tra gli
scrittori di oggi, che si ritengono nel solo obbligo di scrivere «bei
romanzi». Principio guida dell’autore di Memoriale è
l’assunto che obiettivi e idee devono entrare in un circuito di
condivisione e di verifica.
“il manifesto”, 3
gennaio 2012
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