13.4.17

Edgar Rice Burroughs. Tarzan tra colonialismo, Eden e liberty (Caterina Ricciardi)

La domanda che sorge cent’anni dopo è: che cosa mosse Edgar Rice Burroughs, nato a Chicago nel 1875 e buon conoscitore dell’ultimo Far West, a inventare nel 1912 la figura pulp di Tarzan? Ne scaturì immediatamente un mito popolare che Burroughs coltivò, avventura dopo avventura, in 26 libri di successo fino al 1947, quando il mito era già divenuto un culto hollywoodiano e fumettistico, lasciando all’industria disneyana una tardiva interpretazione (1999), con l’eroe bambino ridotto a una mistura di Mowgli e di Bambi.
Ma da quale archivio culturale, o mentale, saltò fuori Tarzan? L’evoluzionismo darwiniano? Un’esaltazione del machismo? Il fascino di terre esotiche, alimentato da romanzi allora popolari sulle giungle dell’Africa o dell’India - di Rider Haggard, Kipling, Conrad - che raccontavano storie di colonialismo europeo, affiancato da scorci di paesaggi misteriosi perduti dall’Occidente? Il West americano che a fine Ottocento concludeva la sua epopea di cancellazione del Nativo e di terra vergine? Nostalgia di un Eden come alternativa al progresso? Un interesse ‘pseudoantropologico’ per l’Africa (di moda nelle coeve avanguardie europee), dei cui umiliati discendenti l’America era colpevolmente popolata? E ancora: un obliquo venire a patti con i razzismi? Oppure, un semplice ecologismo umano, come ha sostenuto Gore Vidal? Domande che oggi a un rilettore adulto vengono sollecitate da Tarzan Racconti della giungla (Donzelli, traduzione di Nello Giugliano, con 22 tavole di Burne Hogarth), sesto libro del ciclo, apparso negli USA nel 1916, e in seguito illustrato da numerosi cartoonists, da James Alien St. John a Rex Maxon, da Hai Forster all’espressionista «michelangiolesco» Burne Hogarth.
Le dodici storie iniziano in medias res, con un Tarzan («pelle bianca» nella lingua delle scimmie) bello, glabro e muscoloso, «la reincarnazione di qualche antico semidio», tormentato dal primo innamoramento. L’oggetto del desiderio è la «bella» compagna di giochi infantili Teeka, la quale lo preferirà a un corteggiatore dalla pelle più folta di peli. C’è molta gelosia da parte dell’«uomo scimmia», orfano di un Lord inglese (ma di quanta americanità è plasmato Tarzan!) e nutrito alla nascita dal «seno di una ripugnante e pelosa femmina di scimmia», proprio come Romolo e Remo (così pensava Burroughs), figli di latte di una lupa che i romani avrebbero imparato a venerare come Tarzan venera la memoria di Kala, la madre adottiva uccisa da una tribù di uomini neri - i Gomangani -, sui quali egli si accanirà inesorabilmente. Dopo lungo struggimento cederà Teeka al giovane maschio Taug, scoprendo d’improvviso di essere un «uomo», destinato ad andare «solo» nella giungla perché ogni creatura appartiene a una diversa specie: scimmia con scimmia leone con leonessa e così via.
Ha inizio in questo modo, con una patetica ricerca di affetto, il ciclo dei racconti rivolto ai giovani lettori, quelli che, come il giovane Burroughs, sanno «sognare a occhi aperti» di un mondo alternativo e più disinibito, tradotto dalle illustrazioni di Burne Hogarth nella fantasiosa realtà cartacea (né Burroughs né Hogarth erano mai stati in Africa) di colori splendenti e ombreggiature di foglie, l’ultimo reame incontaminato della natura che, con i suoi abitanti legittimi, ospita l’atletico campione dai capelli corvini e i limpidi occhi azzurri.
Persa Teeka, a Tarzan mancherà l’amore di una ragazza, o di una madre, o persino di un balu (un figlio), fino a spingerlo a cercare il Dio amorevole di cui ha imparato a leggere nei libri abbandonati dei suoi veri genitori. Si tratta tuttavia di un’entità difficile da riconoscere: «E cos’era Dio? Com’era fatto? Tarzan non ne aveva idea ma era sicuro che tutte le cose buone venissero da Dio». E, forse grazie a Dio, egli non sarà mai solo in queste avventure di sopravvivenza e di salvataggio, situate in una fase della sua biografia che ancora attende l’arrivo di Jane Porter. È vero, Tarzan ha molti antagonisti: il leopardo Sheeta, il serpente Histah, il leone Numa, il gorilla Bolgani; ma anche qualche aiutante: l’elefante Tantor, la bertuccia Manu, e soprattutto lo scintillante pugnale da caccia recuperato dalla capanna dei genitori. Il pugnale della civiltà è l’unico elemento a renderlo competitivo nel mondo animale, quasi fosse vago ricordo del pragmatismo di Robison Crusoe, un modello che Burroughs poteva avere in mente nelle sue modeste ricerche sui naufragi, ma con il quale Tarzan non ha nulla da spartire. Familiari invece risuonano le consonanze con il mondo civile, con i soliti buoni e cattivi nella lotta fra bene e male, fra sconfitta e rivalsa. Congiunture moralistiche che non diminuiscono le suggestioni di sostegno al mito del «buon selvaggio».
Il ritmo di azioni fulminee tiene uniti brani della narrazione e commento visivo. I racconti seguono un passo veloce rispondente al pericolo in agguato, un passo incrementato dalla mobilità aerodinamica delle liane che avvolgono anche il lettore in acrobatici spostamenti. Ed è questo tratto dello stile di Burroughs che Hogarth, studioso e maestro del più posato disegno anatomico, cercò di rendere quando si candidò a illustrare quattro dei racconti qui raccolti, alternando staticità e movimento, comprimendo in una sola tavola - con gradualità di enfasi e di sfondi prospettici - diversi momenti della vicenda e limitando la funzione delle didascalie a mera conferma (non disambiguazione) delle sovrapposte entità semantiche implicate nella tecnica pittorica.
È difficile circoscrivere il risultato di Hogarth al solo gusto estetico (e consumistico) della sua epoca: persino il fotografismo del poster pubblicitario, o il fermo «muralismo» espressionista del New Deal ne escono rianimati. Più facile pensare a un’intenzionale integrazione di citazioni da più culture visive: il colorismo «fauve», le decorazioni floreali del Liberty (i racemi che spesso fanno da trono a Tarzan), il dinamismo di Superman, la posatezza della statuaria classica nei magistrali ritratti dell’eroe a ‘riposo’. Tappe variegate di una storia dell’arte figurativa che si va avviando verso la riabilitazione del Pop.


“alias domenica – il manifesto”, 4 marzo 2012

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