Gentile Bellini, Ritratto del sultano Mehmet II |
Ci sono giorni che
possono cambiare la storia, date che diventano un simbolo, un
ologramma, un mantra. L’11 settembre 2001, la caduta delle Torri
Gemelle, per esempio, che ha impresso al XXI secolo il sigillo di
quello che viene chiamato uno scontro di civiltà, comunque di un
nuovo evo. O anche date meno agghiaccianti, ma ugualmente
emblematiche, come quelle cui si è soliti riferire la nascita
dell’evo moderno: il 1492, quando la scoperta dell’America
proiettò lontano dall’area d’irradiazione dell’ex impero
romano, poi bizantino, le rotte commerciali per secoli contese tra le
repubbliche mercantili; o il 1517, quando Lutero affisse le sue
novantacinque tesi sul portale della chiesa del castello di
Wittemberg. Ma questi due eventi sono strettamente legati a un terzo,
anzi, se ne potrebbero considerare epifenomeni. Se volessimo indicare
il vero inizio della modernità, l’evento che ha cambiato rotta ai
traffici mediterranei spingendoli a ovest, che ha tolto al papato
l’antagonista secolare dell’ortodossia lasciando spazio alla
Riforma protestante, dovremmo indicare un’altra data: il 29 maggio
1453, quando Costantinopoli cadde in mano ai turchi osmani di Mehmet
II Fâtih, il Conquistatore. Questo è il giorno che ha inserito
violentemente l’islam nella dinamica geopolitica europea, dove
l’impero ottomano si insedierà, continuando peraltro a
intrecciarsi alla tradizione grecoromana. Perché il 29 maggio 1453 è
la data di una caduta o di una conquista, a seconda dell’ottica con
cui la si vuole guardare.
“Quando l'ombra dei
riccioli scompigliati della notte simile a un indiano scese sulla
guancia bianca del giorno, i combattenti della jihâd traversarono il
fossato e appoggiarono scudi e scale alte come il cielo alle mura
delle torri. La battaglia durò fino al mattino, fino a che l’Armata
Greca dell’Alba non ebbe irrorato di sangue la piana dell'aurora
per contendere la Fortezza Celeste dalle dodici torri al Comandante
Negro del Crepuscolo che l'aveva occupata”. Così racconta lo
storico turco Tursun Bey nella sua Cronaca del Padre della conquista,
il capolavoro della letteratura ottomana antica, di cui finalmente
esce oggi da Mondadori la traduzione italiana integrale, fortemente
voluta da Pietro Citati e affidata a Luca Berardi, sotto il titolo La
conquista di Costantinopoli.
E’ incantata, quasi
allucinata, la descrizione dell’assalto all’alba del 29 maggio
1453, così crudamente e tragicamente riportato invece da Isidoro di
Kiev, uno dei testimoni oculari bizantini, rocambolescamente sfuggito
alla strage. La conquista di Costantinopoli fu un trionfo di sangue e
di morte, ma l’occhio ottomano la paragona a una seduzione.
Fortezza inespugnata, hortus conclusus dietro le altissime mura di
Teodosio, nel folto dei suoi giardini, la Polis è la “la Città
vergine”. Per lei il giovane sultano prova un'attrazione fisica,
come per una donna desiderata in modo incontenibile. Il simbolismo
sessuale ricorre ossessivamente nello strano linguaggio di Tursun
Bey, in cui la poesia si mescola alla prosa e il persiano all’arabo e al turco: «L'immagine
della sposa novella, la conquista di Costantinopoli, era divenuta la
compagna inseparabile delle sue notti». E’ esplicitamente erotica la descrizione stessa della Città:
grande fessura profonda tra il Mar Nero e l'Ak Deniz, è un immenso
organo sessuale femminile “che può accogliere nel suo seno
infiniti vascelli, e contiene giardini meravigliosi e odora dei soffi
profumati del nord e del nord-est”.
Per tutto l’assedio,
del resto, il ventenne Mehmet si astiene dai piaceri sessuali.
Costantinopoli è “la compagna inseparabile delle sue notti”. La
prosa di nuovo si contrae in versi: “Spero di espugnarti con il
cannone dei miei sospiri”.
Se la frenesia di
conquista di Mehmet è, ad occhi ortodossamente islamici,
“provvidenziale” perché ispirata dall’“ordine
dell’incomparabile Bontà Divina”, motore della storia, nella
spiritualità islamica, animata dal “grande vento del platonismo”,
a sua volta l’ordine divino si traduce, nella realtà terrena, in
eros mistico, proprio come vediamo l’ordine celeste e zodiacale
rispecchiarsi, per Tursun Bey, in uno stato di continuo presagio e di
vero e proprio delirio astrologico.
Il simbolismo zodiacale,
l’attenzione al cielo, alle sue congiunzioni, ai suoi segni,
delineano la topografia e la cronologia dell’assedio, condizionano
gli stati d’animo e determinano anche l’azione bellica: “Con
zelante fervore in qualche giorno i soldati ottomani ridussero ad
appiattirsi al suolo alcune torri, che prima costituivano una linea
parallela alla costellazione dell’Ariete”.
La struttura
dell’accampamento del sultano rispecchia un ordine non solo
gerarchico ma anche esotericamente cosmico: “Al centro fu posta la
sala del trono, simile al Mondo, adorna come il Padiglione dell’Eden.
Le tende dei giannizzeri formavano un cerchio tutt'attorno e la
circondavano così come l'alone circonda la luna”.
Ancora oggi la bandiera
turca rispecchia la congiunzione di necessità provvidenziale e
geometria astrale nel cielo di quella notte: una falce di luna
calante, com’era il 29 maggio 1453, con accanto la fulgida stella
mattutina della sospirata Città.
Panagiotis Zografos , La presa di Costantinopoli |
Appendice
L'assedio a Santa Sofia
visto dai Cristiani e dagli Islamici
L’OCCHIO
GRECO
“Tutti i viali, le
strade e i vicoli erano pieni di sangue e di umore sanguigno che
colava dai cadaveri dei civili sgozzati e fatti a pezzi. Dalle case
venivano trascinate fuori le donne, nobili e libere, l’ancella
insieme alla padrona, a piedi nudi. Avresti dovuto vedere la più
infima soldataglia turca scovare e spartirsi fanciulle giovanissime e
nobilissime, laiche e religiose. Nella chiesa che si chiamava di
Santa Sofia, e che ora è una moschea turca, buttarono giù e fecero
a pezzi tutte le statue, le icone e le altre immagini di Cristo, dei
santi e delle sante. Saliti come invasati sul ripiano dell’ambone,
sulle are e sugli altari, si facevano beffe, esultando, della nostra
fede e dei riti cristiani e cantavano inni e lodi a Maometto.
Abbattute le porte
dell’iconostasi, agguantavano tutte le suppellettili sacre e le
sante reliquie e le gettavano via come cose spregevoli e abbiette.
Preferisco passare sotto silenzio ciò che hanno fatto nei calici,
nei vasi consacrati, sui drappi. I paramenti intessuti d’oro con le
immagini di Cristo e dei santi li usavano come giacigli per i loro
cani e per i loro cavalli”.
(Lettera di Isidoro di
Kiev a Bessarione, spedita da Candia il 6 luglio 1453. )
L’OCCHIO
TURCO
“Mentre il sultano
passeggiando visitava le file di abitazioni, le strade e I mercati di
quell’antica metropoli e vasta fortezza, espresse il desiderio di
visitare la chiesa chiamata Aya Sofya, che è modello del paradiso: O
sufi, se cerchi il paradiso,/ Aya Sofya del paradiso è sommo cielo.
Dopo aver goduto dello
spettacolo delle meravigliose e strabilianti opere d’arte presenti
sulla superficie concava della cupola, il Sovrano dell’Universo
salì sulla sua superficie convessa: la scalò come Gesù – l’Alito
di Dio – ascese al Quarto Cielo. Dopo avere ammirato, dalle
gallerie che sono fra i suoi piani, il pavimento simile a un mare
ondoso, uscì all’esterno della cupola. Quando vide la degradazione
e la rovina degli edifici annessi, pensò all’instabilità e alla
volubilità del mondo. Considerò che la sua fine è la rovina, e
malinconicamente, dalla sua favella che diffonde zucchero, scaturì
questo distico: Il ragno tira le tende alla finestra di Cosroe,/
il gufo suona la musica di guardia nel palazzo di Efrâsyâb.
(Da Tursun Beg,
Conquista della fortezza di Costantinopoli, pp.
81-82. )
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