A casa della mia mamma
(non l'ho mai chiamato mia, perché non è la casa dove sono
cresciuto), ho trovato un foglio dal quaderno in cui io stesso copiavo
in bella i testi di certe mie poesie. Era l'estate del 1963, quella
dei miei quindici anni e di un tifo preso probabilmente per le cozze
crude mangiate alla “Vucciria”, senza neanche spremervi sopra
l'antisettico limone. Ah, l'orribile vizio della gola!
A Tina, la ragazzina
dodicenne ma già ben sviluppata, con cui progettavo amori quasi
casti e a cui facevo la corte aspettandola sotto la sua casa per
vederla passare e mirandola con lunghi sguardi languidi tutte le
volte che riuscivo ad incontrarla, quell'estate morì il padre, in un
incidente automobilistico che commosse il paese. Bastò questo evento
per trasformare nella mia testa un vago progetto in un grande amore.
Tina aveva capelli
nerissimi e carnagione scura. Qualcuno la attribuiva all'Africa. Era
nata, infatti, a Mogadiscio e lì aveva trascorso la sua prima
infanzia, prima che il padre decidesse di venire via dall'ex colonia
somala ad impiantare nel paese natìo una attività da imprenditore
agricolo, quasi senza terra propria, ma con trebbia, trattori e altre
macchine. La ragazza aveva uno sguardo profondo, penetrante e un po'
triste già prima che il padre facesse quella fine, nel luglio.
Quando riemersi dal tifo,
a metà agosto, già in paese si diceva che la ragazza avrebbe
lasciato il paese e avrebbe seguito la madre nella città nativa di
costei, Isernia nel Molise. Pare che fossero riuscite a vendere,
neanche tanto male, le macchine agricole del morto e che, quando
sarebbero arrivati gli indennizzi somali, sarebbero state benestanti,
a Isernia, senza dover fare affidamento sul processo per le
responsabilità nell'incidente mortale. Io speravo che non fosse vero
e che Tina non partisse; avevo deciso di forzare i tempi, ma non trovavo il modo di comunicarle il mio sogno d'amore.
Scrivevo poesie su poesie,
d'amore e d'abbandono, di speranza e di paura. Con Tina non avevo
avuto occasioni di conoscenza, non ci parlavamo e neanche ci
salutavamo; e per dichiararmi dovevo vincere una feroce timidezza.
Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, la fermai in una strada
secondaria e le consegnai una lettera che avevo scritto con molto
impegno, appassionata e anticonformista. Non la rifiutò, disse:
“Beh, grazie!”.
Qualche giorno dopo la
fermai di nuovo per chiederle che ne pensasse. Mi disse: “Non posso
dirle niente, parto!”. “Quando parte?”. “In settembre”. “Ma
è già settembre”. “Alla fine”.
Fu l'unica conversazione
di tutta la nostra vita, anche se nei giorni che seguirono
cominciammo a scambiarci saluti, da lontano. Dopo che fu partita
riuscii a procurarmi l'indirizzo. Le scrissi solo una cartolina a
Natale, per ricordarle la mia esistenza senza crearle problemi in
famiglia. Mi rispose con una cartolina a Pasqua. Poi più nulla.
Credo che perse presto i contatti anche con i pochi parenti che
aveva in paese. Anni dopo seppi che s'era trasferita a Roma,
impiegata e sposata. Più di recente ne ho cercato le tracce in rete,
ma invano.
In quei due o tre mesi,
su questo amore infelice, composi alcune decine di poesie, copiate in
un quadernino che ho perso di vista già negli anni del liceo,
sepolto in chissà quale cassetto. Ne ricordo a mente un paio. Solo
ora, inaspettatamente, viene fuori questo foglio isolato. Ho deciso
di postare l'esile poesiola anche per potere raccontare questo
frammento di vita agli amici di rete, da cui mi auguro
comprensione per la mia inguaribile vanità.
La poesia ha una datazione certa:
settembre 1963, qualche giorno prima della partenza per il continente della mia Tina
dai capelli nerissimi e dallo sguardo triste e profondo.
Campobello di Licata in una cartolina degli anni Sessanta del Novecento |
Il fischio del treno
È notte,
è buio,
silenzio,
terrore,
è notte,
gettato
nel letto
di pianto,
ho udito
il treno
fischiare,
soffiare,
urlare,
portando
lontano
l'amore,
portando
lontano
ricordi,
affanni,
sospiri,
timori,
rimpianti...
rimpianti...
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