20.2.17

Il fischio del treno. Una poesia d'adolescenza ritrovata (S.L.L.)


A casa della mia mamma (non l'ho mai chiamato mia, perché non è la casa dove sono cresciuto), ho trovato un foglio dal quaderno in cui io stesso copiavo in bella i testi di certe mie poesie. Era l'estate del 1963, quella dei miei quindici anni e di un tifo preso probabilmente per le cozze crude mangiate alla “Vucciria”, senza neanche spremervi sopra l'antisettico limone. Ah, l'orribile vizio della gola!
A Tina, la ragazzina dodicenne ma già ben sviluppata, con cui progettavo amori quasi casti e a cui facevo la corte aspettandola sotto la sua casa per vederla passare e mirandola con lunghi sguardi languidi tutte le volte che riuscivo ad incontrarla, quell'estate morì il padre, in un incidente automobilistico che commosse il paese. Bastò questo evento per trasformare nella mia testa un vago progetto in un grande amore.
Tina aveva capelli nerissimi e carnagione scura. Qualcuno la attribuiva all'Africa. Era nata, infatti, a Mogadiscio e lì aveva trascorso la sua prima infanzia, prima che il padre decidesse di venire via dall'ex colonia somala ad impiantare nel paese natìo una attività da imprenditore agricolo, quasi senza terra propria, ma con trebbia, trattori e altre macchine. La ragazza aveva uno sguardo profondo, penetrante e un po' triste già prima che il padre facesse quella fine, nel luglio.
Quando riemersi dal tifo, a metà agosto, già in paese si diceva che la ragazza avrebbe lasciato il paese e avrebbe seguito la madre nella città nativa di costei, Isernia nel Molise. Pare che fossero riuscite a vendere, neanche tanto male, le macchine agricole del morto e che, quando sarebbero arrivati gli indennizzi somali, sarebbero state benestanti, a Isernia, senza dover fare affidamento sul processo per le responsabilità nell'incidente mortale. Io speravo che non fosse vero e che Tina non partisse; avevo deciso di forzare i tempi, ma non trovavo il modo di comunicarle il mio sogno d'amore. 
Scrivevo poesie su poesie, d'amore e d'abbandono, di speranza e di paura. Con Tina non avevo avuto occasioni di conoscenza, non ci parlavamo e neanche ci salutavamo; e per dichiararmi dovevo vincere una feroce timidezza. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, la fermai in una strada secondaria e le consegnai una lettera che avevo scritto con molto impegno, appassionata e anticonformista. Non la rifiutò, disse: “Beh, grazie!”.
Qualche giorno dopo la fermai di nuovo per chiederle che ne pensasse. Mi disse: “Non posso dirle niente, parto!”. “Quando parte?”. “In settembre”. “Ma è già settembre”. “Alla fine”.
Fu l'unica conversazione di tutta la nostra vita, anche se nei giorni che seguirono cominciammo a scambiarci saluti, da lontano. Dopo che fu partita riuscii a procurarmi l'indirizzo. Le scrissi solo una cartolina a Natale, per ricordarle la mia esistenza senza crearle problemi in famiglia. Mi rispose con una cartolina a Pasqua. Poi più nulla. Credo che perse presto i contatti anche con i pochi parenti che aveva in paese. Anni dopo seppi che s'era trasferita a Roma, impiegata e sposata. Più di recente ne ho cercato le tracce in rete, ma invano.
In quei due o tre mesi, su questo amore infelice, composi alcune decine di poesie, copiate in un quadernino che ho perso di vista già negli anni del liceo, sepolto in chissà quale cassetto. Ne ricordo a mente un paio. Solo ora, inaspettatamente, viene fuori questo foglio isolato. Ho deciso di postare l'esile poesiola anche per potere raccontare questo frammento di vita agli amici di rete, da cui mi auguro comprensione per la mia inguaribile vanità. 
La poesia ha una datazione certa: settembre 1963, qualche giorno prima della partenza per il continente della mia Tina dai capelli nerissimi e dallo sguardo triste e profondo.

Campobello di Licata in una cartolina degli anni Sessanta del Novecento
Il fischio del treno
È notte,
è buio,
silenzio,
terrore,
è notte,
gettato
nel letto
di pianto,
ho udito
il treno
fischiare,
soffiare,
urlare,
portando
lontano
l'amore,
portando
lontano
ricordi,
affanni,
sospiri,
timori,
rimpianti...

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