Un'immagine di Giordano Bruno |
In fin dei conti, non c’è
grande differenza tra un dizionario biografico e un normale cimitero.
Le tre righe secche e indifferenti con cui nella maggior parte dei
casi i dizionaristi riassumono una vita sono l’equivalente della
semplice sepoltura che accoglie i resti di coloro che (mi si perdoni
il facile gioco) non lasciano resti. La pagina piena, con autografo e
fotografia, è il mausoleo di bella pietra, porte di ferro e corona
di bronzo, più il pellegrinaggio annuale. Ma il visitatore farà
bene a non lasciarsi confondere dalle facciate d’architetto, dalle
sculture e dalle croci, dalle prefiche di marmo, da tutto lo scenario
che la morte pomposa ha sempre apprezzato. Così come dovrà fare
attenzione, se si trova in campo aperto, senza riferimenti, a dove
mette i piedi perché non gli accada di trovarsi sotto le scarpe il
più grande uomo del mondo.
Non starà tuttavia
calpestando la tomba di Giordano Bruno, perché questi fu bruciato a
Roma, arse atrocemente come arde il corpo umano, e di lui, che io
sappia, neppure le ceneri furono conservate. Ma allo stesso Giordano,
affinché ogni cosa stia nel posto che le compete e giustizia infine
sia fatta, furono riservate quattro righe in questo dizionario
biografico. In cosi poco spazio, in cosi poche lettere, tra la data
di nascita (1548) e la data di morte (1600), limiti di un universo
personale che visse nel mondo, ben poco si dice: italiano, filosofo,
panteista, domenicano, abbandonò l’ordine, si rifiutò di
rinunciare alle proprie idee, fu bruciato vivo. Nient’altro. Nasce
e vive un uomo, lotta e muore, così, per questo. Quattro righe,
riposa in pace, pace alla tua anima se in lei credevi. E noi facciamo
un’eccellente figura tra amici, in società, in riunione, a un
tavolo di ristorante, nelle discussioni profonde, se lasciamo cadere
al momento opportuno, in modo spigliato e competente, la mezza
dozzina di parole di cui abbiamo fatto una specie di grimaldello o di
chiave falsa che crediamo possa aprire una vita e una coscienza.
Ma, per nostra
costernazione, se siamo in un momento di rara lucidità, le grida di
Giordano Bruno erompono come un’esplosione che ci strappa di mano
il bicchiere di whisky e ci spegne sulle labbra il sorriso
intellettuale che abbiamo scelto per parlare di certi casi. Si,
questa è la verità, la scomoda verità che viene a sconvolgere il
pacato intento del dialogo: Giordano Bruno gridò quando fu bruciato.
Il dizionario dice soltanto che fu bruciato, non dice che gridò. E
allora, che dizionario è mai questo che non informa ? A che mi serve
una biografia di Giordano Bruno che non parla delle grida che egli
lanciò, li, a Roma, in una piazza o in un cortile, circondato dalla
folla, chi attizzava il fuoco, chi assisteva, chi redigeva
serenamente l’atto dell’esecuzione?
Troppo spesso
dimentichiamo che gli uomini sono di car ne che facilmente soffre.
Fin dall’infanzia gli educatori ci parlano di martiri, ci danno
esempi di civismo e di morale a loro spese, ma non dicono quanto
furono dolorosi il martirio, la tortura. Tutto rimane astratto,
filtrato, come se guarda, simo la scena, a Roma, attraverso spesse
pareti di vetro che soffocassero i suoni, e le immagini perdessero la
violenza del gesto per opera, grazia e virtù della rifrazione. E
allora possiamo dire, tranquillamente, gli uni agli altri che
Giordano Bruno fu bruciato. Se gridò, non lo abbiamo udito. E se non
l’abbiamo udito, dov’è il dolore?
Ma gridò, amici miei. E
continua a gridare.
Di questo mondo e di
altri, Einaudi, 2007
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