26.2.17

Le grida di Giordano Bruno (José Saramago)

Un'immagine di Giordano Bruno
In fin dei conti, non c’è grande differenza tra un dizionario biografico e un normale cimitero. Le tre righe secche e indifferenti con cui nella maggior parte dei casi i dizionaristi riassumono una vita sono l’equivalente della semplice sepoltura che accoglie i resti di coloro che (mi si perdoni il facile gioco) non lasciano resti. La pagina piena, con autografo e fotografia, è il mausoleo di bella pietra, porte di ferro e corona di bronzo, più il pellegrinaggio annuale. Ma il visitatore farà bene a non lasciarsi confondere dalle facciate d’architetto, dalle sculture e dalle croci, dalle prefiche di marmo, da tutto lo scenario che la morte pomposa ha sempre apprezzato. Così come dovrà fare attenzione, se si trova in campo aperto, senza riferimenti, a dove mette i piedi perché non gli accada di trovarsi sotto le scarpe il più grande uomo del mondo.
Non starà tuttavia calpestando la tomba di Giordano Bruno, perché questi fu bruciato a Roma, arse atrocemente come arde il corpo umano, e di lui, che io sappia, neppure le ceneri furono conservate. Ma allo stesso Giordano, affinché ogni cosa stia nel posto che le compete e giustizia infine sia fatta, furono riservate quattro righe in questo dizionario biografico. In cosi poco spazio, in cosi poche lettere, tra la data di nascita (1548) e la data di morte (1600), limiti di un universo personale che visse nel mondo, ben poco si dice: italiano, filosofo, panteista, domenicano, abbandonò l’ordine, si rifiutò di rinunciare alle proprie idee, fu bruciato vivo. Nient’altro. Nasce e vive un uomo, lotta e muore, così, per questo. Quattro righe, riposa in pace, pace alla tua anima se in lei credevi. E noi facciamo un’eccellente figura tra amici, in società, in riunione, a un tavolo di ristorante, nelle discussioni profonde, se lasciamo cadere al momento opportuno, in modo spigliato e competente, la mezza dozzina di parole di cui abbiamo fatto una specie di grimaldello o di chiave falsa che crediamo possa aprire una vita e una coscienza.
Ma, per nostra costernazione, se siamo in un momento di rara lucidità, le grida di Giordano Bruno erompono come un’esplosione che ci strappa di mano il bicchiere di whisky e ci spegne sulle labbra il sorriso intellettuale che abbiamo scelto per parlare di certi casi. Si, questa è la verità, la scomoda verità che viene a sconvolgere il pacato intento del dialogo: Giordano Bruno gridò quando fu bruciato. Il dizionario dice soltanto che fu bruciato, non dice che gridò. E allora, che dizionario è mai questo che non informa ? A che mi serve una biografia di Giordano Bruno che non parla delle grida che egli lanciò, li, a Roma, in una piazza o in un cortile, circondato dalla folla, chi attizzava il fuoco, chi assisteva, chi redigeva serenamente l’atto dell’esecuzione?
Troppo spesso dimentichiamo che gli uomini sono di car ne che facilmente soffre. Fin dall’infanzia gli educatori ci parlano di martiri, ci danno esempi di civismo e di morale a loro spese, ma non dicono quanto furono dolorosi il martirio, la tortura. Tutto rimane astratto, filtrato, come se guarda, simo la scena, a Roma, attraverso spesse pareti di vetro che soffocassero i suoni, e le immagini perdessero la violenza del gesto per opera, grazia e virtù della rifrazione. E allora possiamo dire, tranquillamente, gli uni agli altri che Giordano Bruno fu bruciato. Se gridò, non lo abbiamo udito. E se non l’abbiamo udito, dov’è il dolore?
Ma gridò, amici miei. E continua a gridare.


Di questo mondo e di altri, Einaudi, 2007 

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