Museo Archeologico di Napoli - Testa di Apollo - Copia romana del II sec. d.C. di una scultura greca del V sec. a,C. |
La democrazia ateniese di
epoca classica (V-IV secolo a. C.) è da più di due decenni al
centro di un vivace dibattito internazionale che ha coinvolto
studiosi non solo di storia antica ma anche di teoria politica e di
storia del pensiero e persino filosofi e scienziati della politica.
Una delle posizioni più note è rappresentata da Mogens H. Hansen,
lo studioso danese fondatore del Copenhagen Polis Centre, che da
molti anni si è focalizzato sull’analisi di come effettivamente
funzionavano le istituzioni ateniesi più peculiari (assemblea e
tribunali popolari), nel dichiarato presupposto che le istituzioni
politiche erano la dimensione più significativa di quel regime
politico. Ma Hansen si è anche preoccupato di comparare democrazia
antica e moderna, argomentando una sostanziale affinità riguardo
alla concezione della libertà che gli è valsa, almeno da parte di
alcuni critici, l’etichetta di ‘neoliberale’. Una posizione
diversa e antitetica è stata quella dello statunitense Josh Ober,
che anche attraverso l’uso di categorie quali egemonia, ideologia e
potere, mediato dai testi di Gramsci, Althusser e Foucault, ha
sostenuto che la democrazia ateniese consisteva nell’egemonia
ideologica del popolo che pur non eliminando le disparità
socio-economiche rendeva impossibile il loro trasferimento sul piano
politico (recentemente anche Ober ha rivalutato il peso delle
istituzioni ridefinendo quella ateniese come una ‘democrazia
epistemica’). Ober e altri studiosi nordamericani sono persino
arrivati a proporre la democrazia classica come un modello a cui
l’attuale democrazia statunitense dovrebbe guardare per
un’autoriforma radicale, raccogliendo un monito lanciato ancora nei
primi anni settanta da Moses Finley, che in La democrazia degli
antichi e dei moderni aveva attaccato l’elitismo delle scienze
politiche contemporanee. Ma mentre Finley aveva suscitato a suo tempo
parecchie reazioni, anche contrastanti, tra gli studiosi italiani,
così non è ancora stato per Ober, di cui non casualmente quasi
nulla è stato tradotto in italiano, mentre non pochi libri di Hansen
sono invece tradotti; è chiaro che Hansen è autore più vicino alla
tradizione erudita italiana, la quale ha nell’analisi delle fonti
il suo punto di forza e nella estraneità al dialogo con altre
discipline il suo punto di debolezza. È quindi una gradita sorpresa
questo Democrazie greche Atene, Sicilia, Magna Grecia (Carocci,
pp. 182, € 17,00) di Maurizio Giangiulio, uno dei maggiori
esponenti della storia antica italiana di recente generazione, che
oltre a tanti studi specialistici ha all’attivo anche la cura dei
due volumi dedicati alla Grecia antica della Storia d’Europa e del Mediterraneo edita da
Salerno. Il libro si rivolge senza infingimenti «al lettore colto e
allo studente impegnato»; non è quindi un testo di divulgazione
facile e meno che mai corriva. Evidente però e apprezzabile lo
sforzo di fornire una sintesi realmente leggibile anche per i non
specialisti, con un testo che non esibisce né facili sequenze di
citazioni dotte né interminabili note bibliografiche. L’autore non
manca comunque di prendere posizione sia sulle diverse tesi generali
sia nelle discussioni su singoli particolari; e se nel testo spesso
si limita ad accennare a consensi e dissensi, indicazioni puntuali
non mancano nella ricca sezione finale, che è molto più di un
semplice elenco bibliografico e costituisce un utile e articolato
quadro degli studi in materia. Il primo capitolo, oltre a
ripercorrere le principali prospettive moderne in merito, affronta il
rapporto tra polis e democrazia confutando la tesi teleologica,
secondo cui la seconda sarebbe l’esito inevitabile della prima,
frutto invece di svolte sociali e politiche nient’affatto scontate.
Al centro del secondo e terzo capitolo sta la storia
politico-istituzionale dell’Atene democratica in correlazione con
la sua crescente articolazione socio-economica. Per Giangiulio una
storia delle istituzioni scissa dall’analisi dei cambiamenti
socio-economici non ha chiaramente senso. Il ruolo svolto dalla
retorica e più in generale dalla dimensione simbolica nella
costruzione di un homo politicus non viene negato ma più che
per l’autonomia del politico l’accento qui sembra battere sulla
distribuzione delle risorse, che facilitava la partecipazione alla
vita istituzionale anche dei non abbienti. È questa conciliazione
tra uguaglianza politica e disuguaglianza sociale a provocare il
successo dell’esperimento ateniese almeno per un secolo e mezzo,
mentre le difficoltà dei regimi democratici sorti tra Sicilia e
Magna Grecia, analizzati nella seconda parte del volume, sono
attribuite al più precario equilibrio tra i due piani. Nel contesto
attuale di crisi della democrazia rappresentativa una lezione
tutt’altro che inattuale.
Alias domenica – il
manifesto, 27 gennaio 2015
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