C'è qualcosa di
sinistramente attuale nelle tante pagine vergate da Emile Zola ai
tempi dell'Affaire Dreyfus e che ci vengono ora riproposte, in
una sistemazione definitiva, dalla casa editrice La Giuntina
(L'affaire Dreyfus. La verità in cammino, pp. 230, euro
9,90). La vicenda è nota al punto da non richiedere d’essere
richiamata se non per sommi capi. Nel 1894 un capitano d’artiglieria
francese, Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a
favore dei tedeschi, finisce ai lavori forzati nell’Isola del
diavolo, nella Guyana francese. Solo una intensa campagna di stampa,
condotta dallo stesso Zola, permette di riabilitarlo, liberandolo dai
ceppi e riconsegnandolo alla società civile. La quale, a onor del
vero, da subito si era rivelata poco propensa a una pacata
discussione, vivacizzando invece una diatriba che spaccò in due la
nazione, tra sostenitori della colpevolezza e innocentisti.
L’oggetto del
contendere era costituito soprattutto dall’origine ebraica
dell’imputato. In un progressivo cortocircuito della comunicazione
e del giudizio, la sua radice «etnica» era stata accostata
all’accusa di tradimento e di cospirazione, traslando l’una
nell’altra e viceversa, in una sorta di reciprocità immediata tra
appartenenza di gruppo e propensione all’infedeltà. Le tensioni
franco-prussiane, e le frustrazioni maturate dal paese, non da ultima
la vicenda sanguinosa della Comune del 1871, non ancora digerita a
distanza di una ventina d’anni, erano deflagrate in una miscela
esplosiva nel momento in cui alcuni avevano ravvisato nell’identità
dell’incolpevole militare il suggello di una colpa tanto antica
quanto inemendabile.
La storia, in sé
tristemente banale, era così destinata a segnare un solco
profondissimo, che arriva fino ad oggi. Non a caso si fa risalire ad
essa la radice dell’antisemitismo contemporaneo. Poste queste
premesse, in quale modo la vicenda Dreyfus ci parla ancora e, non di
meno, perché? In realtà la storia che travolge l’incolpevole
militare, indifferente alla sua ascendenza ebraica, è una vera e
propria cassetta degli attrezzi della modernità. Ci sono tanti
elementi che si sarebbero incontrati successivamente, in molte altre
vicende: il ruolo della stampa e della comunicazione nell’enfatizzare
e nel guidare le reazioni della collettività; il concorso degli
apparati pubblici nella stigmatizzazione razziale del «reprobo»,
sancendo il nesso tra ebraicità e condotta deviante; l’enfasi
sulla dimensione del complotto, di cui Dreyfus sarebbe stato la punta
di un ben più ampio iceberg, ancora sommerso; la necessità,
sostenuta a pie’ sospinto dalla destra cattolica - alla ricerca di
una precisa identità politica -, di provvedere a una pulizia
sistematica del «corpo nazionale», infettato dalle troppe presenze
straniere; la prassi di continuo depistamento attuata dalle autorità
militari e l’acquiescenza di quelle politiche.
Sul versante ideologico,
ciò che viene inoculata nell’opinione pubblica è la convinzione
che la nazione, in sé «sana», sia minacciata da forze tanto
potenti quanto irriconoscibili. Di lì a non molto i «Protocolli dei
saggi anziani di Sion», artefatto della polizia politica zarista,
sarebbero intervenuti a dare sostanza a questa percezione ondivaga e
incerta, trasformandola in una solida teoria, politicamente
spendibile: sono gli ebrei a tirare i sottili fili del destino
mondiale e la liberazione collettiva passa, obbligatoriamente,
attraverso l’identificazione e la neutralizzazione dei parassiti.
La storia delle sofferenze dell’umanità si emenda attraverso una
nuova forma di giustizia sociale, che non è quella che implica la
redistribuzione della ricchezza ma lo smascheramento dei cospiratori
che stanno alle spalle della Terza Repubblica.
A una lettura ingenua il
dispositivo che la vicenda Dreyfus mette in moto, e le passioni che
orchestra, esacerbandole ad arte potevano sembrare appartenere alla
trivialità di un passato oramai superato dalla modernità.
Quest’ultima, declinata positivisticamente come progressiva
evoluzione, avrebbe infatti dovuto garantire l’emancipazione degli
spiriti dalla barbarie dell’inconsapevolezza e dell’ignoranza. In
realtà il caso del capitano francese è tutto fuorché un vuoto di
coscienza, rivelando, nella dialettica
delle sue diverse parti, una intrinseca razionalità, che bene si
prestava alle esigenze di una società in mutamento accelerato quale
quella francese di fine secolo. E di riflesso, di quelle europee e
mediterranee, non da ultime le comunità nazionali degli imperi in
decadenza, dall’austroungarico all’ottomano.
In questa ottica
l’affaire Dreyfuss è parte del più ampio processo di metamorfosi
ideologica del nazionalismo successivo all’età romantica, dove
alla formulazione dell’idea che una nazione andasse costituendosi,
come nel caso dei risorgimenti, attraverso l’inclusione degli
individui, si era ora sostituito il principio della definizione dei
confini materiali e culturali attraverso la selezione e l’esclusione.
Il fantasma dell’ebreo errante, nomade ma sempre uguale a sé,
capace di contaminare le società con le quali entra in contatto, che
nella pubblicistica di quegli anni prende piede, alimentandosi sia
del vecchio antigiudaismo di matrice cristiana che di nuove
suggestioni, ridisegna la funzione sociale dell’antisemitismo. Il
quale diventa uno dei fattori nella mobilitazione collettiva e nella
costruzione di identità politiche.
Coeva alle vicende che
coinvolgono Dreyfus è, ad esempio, la traiettoria di Karl Lueger,
carismatico borgomastro di Menna, noto per essere stato l’ispiratore
politico di Hitler. Alla questione sociale, posta dal movimento
operaio e dal mondo del lavoro, sempre più prossimo al transito
verso la produzione di massa, subentrava l’incapsulamento delle
istanze di giustizia collettiva all’interno di una logica etnica
che avrebbe conosciuto molte fortune nei decenni successivi. Qualcosa
ci induce a pensare che la potenza di tale manipolazione non sia
tramontata, quanto meno a giudicare dall’«antica ferocia» che si
annida dietro i razzismi contemporanei, al confronto con le
metamorfosi dell’economia postfordista, in un clima di «eccezione»
che livella qualsiasi tentativo mediazione. La storia non si ripete
ma il cliché paranoide dimostra di avere una lunga durata.
“il manifesto”, 3
gennaio 2012
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