Firenze, Galleria degli Uffizi, Tintoretto, Ritratto di Jacopo Sansovino |
ROMA
Pietro Aretino, insigne
scrittore e amico di pittori, ebbe rapporti difficili con Tintoretto
e scrisse della "tristizia e follia" di Jacopo Robusti
(1518-1594): nato a Venezia aveva preso nome dal padre tintore, nella
cui bottega imparò a maneggiare tessuti preziosi, a valutare i
pigmenti dei velluti, carezzando sotto la luce la tessitura marezzata
delle sete. E in quella bottega cominciò a disegnare sulle pareti
col carboncino. Il padre lo mandò da Tiziano e per qualche tempo ci
rimase. A soli diciotto anni fu ammesso nella Fraglia dei pittori.
Così la leggenda nasce e
Tintoretto, passo dopo passo, diviene, alla morte di Tiziano nel
1567, il più celebre pittore di Venezia. Ne prese il posto con il
piglio, il talento, l´anticonformismo plastico e illusionistico che
ne segnarono l'opera: ebbe per committenti la chiesa, la Serenissima,
il patriziato veneto, i Gonzaga, i Fugger, l'imperatore Rodolfo II e
Filippo II di Spagna, ma fu anche devoto delle confraternite a
cominciare da quella di San Rocco di cui fu membro, e per la quale
dipinse uno spettacoloso ciclo di teleri.
La mostra Tintoretto
alle Scuderie del Quirinale fino al 10 giugno, (a cura di
Vittorio Sgarbi), offre una rassegna in cui suonano tutti i tasti di
un prodigioso talento: pittura di storia e mitologica, religiosa e
profana, ritratti. Fanno corona tele di Tiziano, Schiavone,
Parmigianino, Sustris, El Greco, i Veronese, i Bassano e lo scultore
Vittoria.
«Il disegno di
Michelangelo e il colorito di Tiziano», scrisse Carlo Ridolfi suo
primo biografo, e, nella sua icasticità, l´immagine è felice:
perché a Tintoretto riuscì di coniugare le scuola tosco-romana con
quella veneziana. Il Miracolo dello schiavo (1547-8) che ci
accoglie al primo piano, con le sue monumentali dimensioni, 4 metri
per oltre 5, squaderna teatralità e drammaticità: il telero è il
primo che dipinse per la Scuola Grande di San Marco. Il santo,
circonfuso di luce, piomba dal cielo sullo schiavo destinato al
martirio, circondato dai carnefici e da una folla di astanti in abiti
sfarzosi o nudi. Le brusche torsioni dei corpi, gli avvitamenti e gli
scorci sono come amalgamati nella scena in unità plastica, dove la
luce gioca un ruolo essenziale nel modellare la scena, e in cui la
"maniera" convive con un accentuato michelangiolismo ben
evidente nel nudo in primo piano sulla destra. "La prestezza del
fatto", cioè la velocità del suo pennello, stigmatizzata da
Aretino, qui diventa qualità stilistica.
In Susanna e i
vecchioni (1555 c.) l'eco tizianesco rintocca, l'artificio dello
specchio dilata lo spazio, mentre la luce carezza le morbide forme
della bionda fanciulla immersa in un paesaggio incantato: la storia,
tratta dall'Antico Testamento, assume sapore profano per l´insistita
sensualità della scena disseminata di mirabili dettagli in primo
piano: altro che "prestezza del fatto". Un tono felicemente
favolistico ha la Creazione degli animali (1550-3). Assai più
numerose le storie della vita di Cristo: Jacopo, concluso il Concilio
di Trento, riuscì a mediare nel suo programma iconografico tra
Riforma e Controriforma, fu accorto e non incappò nell'Inquisizione,
che non risparmiò invece colleghi come Paolo Veronese. In San
Giorgio e il drago (1553-5) il paesaggio assume un rilievo
particolare, così in Santa Maria egiziaca e Santa Maria leggente
(1582-83), tele verticali.
Jacopo compone
avvalendosi di maquette da scena teatrale, con le figure modellate in
cera o creta. In studio si serve di modelli maschili e femminili e li
mette in posa, poi li veste perché assumano le forme desiderate che
gli consentano d'approdare al suo "realismo" plastico. A
volte viene di pensare quanto Delacroix abbia attinto a lui e
Jean-Paul Sartre, la cui monografia sul nostro è stata edita da
Marinotti, l'aveva intuito.
L´influenza che Jacopo
Sansovino scultore e architetto eserciterà sulle sue composizioni, è
evidente nel Trafugamento del corpo di San Marco (1562-6) in
cui la scena architettonica ha una valenza essenziale, e contiene il
gruppo che regge il corpo inanimato del santo, ma vigoroso nelle
membra michelangiolesche. A Sansovino rese omaggio nel ritratto
(1565) che qui si vede. Altre volte attinge liberamente e senza
inibizioni alle incisioni del trattato di Serlio, testo che faceva
parte della sua biblioteca. L'Ultima cena proveniente dalla
chiesa di San Polo (1574-5) restaurata, e la successiva di un
decennio, di San Trovaso, sono un momento altamente significativo
della mostra, per la straordinaria dinamicità delle composizioni e
per il diretto confronto. È assente, hélas, quella di San Giorgio
Maggiore: così come bello sarebbe stato avere accanto
all'Annunciazione (1558) di Tiziano, così composta, quella di
Tintoretto così drammatica, in cui l´angelo irrompe con una schiera
di angeli su Maria ed essa ne è spaventata.
Tintoretto dipinse
direttamente sulla tela, di qui molti pentimenti, e usa
un´imprimitura scura che diviene parte della cromia della tele. Fu
sommo ritrattista: malgrado il grande veggente Roberto Longhi lo
sbeffeggi – anche Omero sonnecchia – i suoi autoritratti da
giovane (1547) e da vecchio (1587), quello a figura intera del
Venier, quelli di tre quarti di numerosi membri del patriziato veneto
lo confermano. A chi gli chiedeva quali fossero i più bei colori
disse: «Il bianco e il nero, perché l'uno dà forza alle figure
profondando le ombre, l'altro il rilievo» (Ridolfi). Un risposta
alla Malevic.
“la Repubblica” 25
febbraio 2012
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