Ottiero Ottieri,
scomparso dieci anni fa, è stato definito lo scrittore
dell'alienazione: industriale, psichica, sociale. Fu, come disse
Zanzotto, «uno scoglio a parte» nella letteratura del secolo
scorso.
Dalla fabbrica alla
clinica, transitando per un non breve intervallo nei salotti della
mondanità, ma sempre con un oggetto predominante d'indagine: la
sofferenza, il dolore, anzi - com'è stato detto - il plusdolore,
soggettivo e di massa. «Pei manicomi grigi / erra il proletariato»,
è un verso che potrebbe sintetizzare il suo lavoro e che riflette in
forma poetica un appunto di molti anni prima: «A vedere la fabbrica
dall'ufficio dell'assistente sociale e dall'infermeria, sembra un
manicomio, per la follia industriale». Ottiero Ottieri (1924-2002) è
stato lo scrittore dell'alienazione: l'alienazione industriale,
l'alienazione psichica, l'alienazione sociale, ma anche politica e
filosofica (o «dei filosofi», come precisa egli stesso in uno dei
suoi libri più importanti, L'irrealtà quotidana, un titolo
che rende immediatamente esplicito uno dei concetti-cardine del suo
pensiero).
Documenti del boom
Nel '61 Vittorini
pubblica sul «Menabò» n. 4 un suo lungo testo, il Taccuino
industriale, a conforto di un'idea di letteratura dell'industria,
o della fabbrica, che intercetti «a livello industriale» la
trasformazione del lavoro e delle relazioni economiche: «La verità
industriale risiede nella catena di effetti che il mondo delle
fabbriche mette in moto», spiega Vittorini nell'introduzione
intitolata, appunto, Industria e letteratura.
Ottieri era uno dei pochi
(con Volponi, Fortini, Giudici, Pampaloni, Bigiaretti, tutti
«olivettiani») che poteva permettersi di scrivere della fabbrica
dal di dentro: «Troppi oggi si augurano il romanzo di fabbrica -
scrisse nelle prime righe di quel Taccuino - e troppo pochi
sono disposti a riconoscere le difficoltà pratiche (teoriche) che si
oppongono alla sua realizzazione. L'operaio, l'impiegato, il
dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno
fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono
più».
Il Taccuino
industriale, che poi - ampliato - sarebbe diventato La linea
gotica, era stato preceduto, nel 1954, dalla pubblicazione,
sempre con Einaudi, del romanzo Tempi stretti, forse il
romanzo capostipite di quel tipo di letteratura legata
all'industrializzazione alla quale Ottieri presto si dedicò e forse
altrettanto presto abbandonò. Romanzo «faticosissimo, lavoratissimo
e scritto con i piedi», come disse egli stesso una quindicina di
anni dopo in un'intervista a Ferdinando Camon, Tempi stretti
doveva - nelle intenzioni di Ottieri - avere la forza del
Capitale di Marx, ma lasciò insoddisfatti sia Vittorini che
Calvino.
Il passo più importante,
anche nella ricerca stilistica, Ottieri lo fece nel 1957 con il suo
libro più conosciuto, Donnarumma all'assalto (Bompiani), che
nasce direttamente, anch'esso in forma di diario, dalla sua
esperienza di due anni prima nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli
come responsabile del personale. «Il libro più significativo come
documento e commento dell'Italia di oggi», disse Calvino di
Donnarumma, il racconto del conflitto tra la razionalità,
l'efficienza e l'innovazione della grande impresa del Nord e la forza
disperata del Sud, incarnata nell'operaio Antonio Donnarumma e nei
suoi compagni che invano presidiano lo stabilimento chiedendo di
essere assunti.
Nevrotico Narciso
Con questo romanzo,
Ottieri scopre dove può dare il meglio di sé. Attento, fin dagli
esordi, più alle idee e al contenuto che all'arte e alla forma («per
massimo / di avanguardia nel contenuto / tenevo massima retroguardia
di forma», scriverà nel poema narrativo dedicato alla Storia del
Psi nel centenario della nascita), trova pienamente congeniale
alla sua poetica il saggio narrativo, dove dati autobiografici,
riflessioni filosofiche ed elementi romanzeschi si combinano con
straordinaria armonia. «Non scrivo con il mestiere, ma con la vita»,
spiega nell'Irrealtà quotidiana.
È uno scrittore che non teme il mercato, non segue le mode. «Un isolato, un erratico», lo definisce in quegli anni Andrea Zanzotto. Il lavoro in Olivetti lo costringe a «errare» con Marx, le sue continue malattie, reali e immaginarie, con Freud. Mentre seleziona il personale di Pozzuoli con colloqui e test psicologici, Ottieri è in analisi da Cesare Musatti. «Nessuna forza al mondo mi convincerà che debbo distrarmi dal mio dolore convinto, dalla mia convinzione del dolore», dichiara ancora nell'Irrealtà quotidiana.
È uno scrittore che non teme il mercato, non segue le mode. «Un isolato, un erratico», lo definisce in quegli anni Andrea Zanzotto. Il lavoro in Olivetti lo costringe a «errare» con Marx, le sue continue malattie, reali e immaginarie, con Freud. Mentre seleziona il personale di Pozzuoli con colloqui e test psicologici, Ottieri è in analisi da Cesare Musatti. «Nessuna forza al mondo mi convincerà che debbo distrarmi dal mio dolore convinto, dalla mia convinzione del dolore», dichiara ancora nell'Irrealtà quotidiana.
Durante l'arco della sua
esistenza si sottoporrà a cinque diversi trattamenti psicanalitici:
«Sono l'uomo più analizzato d'Italia», dirà scherzando. Nei suoi
libri si autoguarda, si autoanalizza, osserva - come un nevrotico
Narciso - il suo autoguardarsi. La sua ossessione è scoprire quale
sia la sua malattia. Sulla prima, grave, che lo colpisce non ci sono
dubbi: si tratta di una meningite, che lo costringe a lasciare per
alcuni mesi l'Olivetti. Il capo, Adriano Olivetti, è per lui come un
secondo padre: «Faceva una politica del personale. / Sorrideva un
poco del mio maniacale / operaismo, mi ricordava / che ci sono anche
gli impiegati», scriverà di lui in un altro dei suoi poemi
narrativi dal titolo Il padre, dove ricorda che Adriano
costruì una fabbrica sul mare e che i turisti si fermavano a
guardarla, scambiandola per un grande albergo.
A fianco di Olivetti
Anche se, soprattutto
nella pièce teatrale I venditori di Milano, denunciò
anch'egli illusioni e nevrosi del boom e del consumismo, intuendo che
il «miracolo economico» era una fonte di alienazione («l'ingegner
C. e un ragioniere sostengono che se all'operaio si dà il miraggio
dell'utilitaria e della scampagnata la domenica, il comunismo crolla
da solo», scrisse nella Linea gotica), Ottieri non è un
irregolare, un ribelle, un indisciplinato, come lo furono Lucio
Mastronardi e Luciano Bianciardi. Ha lavorato pur sempre in
un'azienda, la punta più avanzata dell'industria manifatturiera, che
ha addirittura un suo progetto di società, basata sulla solidarietà
tra le classi, non sul superamento delle classi, sulla ricerca della
terza via tra socialismo e capitalismo, non sulla rivoluzione
sociale.
Ottieri aderisce
totalmente o quasi alle idee di Adriano e di «Comunità», condivide
poco o nulla del pensiero e della prassi dei «cugini» del Pci. È
un socialista di sinistra, non un rivoluzionario: crede nelle riforme
e tradisce, perlomeno agli esordi, un cauto ottimismo rispetto
all'industrializzazione.
Quando lascia
definitivamente l'azienda, nonostante le pressioni di Adriano perché
resti, da «scrittore della fabbrica» Ottieri si trasforma - a
partire forse già dal romanzo-sceneggiatura L'impagliatore di
sedie e poi soprattutto con Contessa, La psicoterapeuta
era bellissima, Cery - nello «scrittore della clinica».
Freud prevale su Marx, il plusdolore sul plusvalore: «Resta da
decidere se sarà Marx che ingloba Freud o Freud che ingloba Marx»,
scrisse ancora nell'Irrealtà quotidiana, un libro che sempre
Zanzotto definì «violento, sacrificale, intimativo» e a partire
dal quale Ottieri diventerà anche «scrittore inclassificabile»,
non ascrivibile cioè ad alcun genere letterario (ed è forse per
questa mancanza di una forte identità narrativa e per la sua
frequentazione della «antiletteratura», che di se stesso,
ironicamente, dirà: «Sono un notissimo sconosciuto»).
Quaderni di resistenza
L'alienazione psichica
prende dunque il sopravvento sull'alienazione industriale, la clinica
sarà il suo nuovo habitat culturale, una nuova struttura organizzata
e dotata di analoghe gerarchie così com'era stata la fabbrica, alla
centralità degli operai - che Calvino «voleva allegri, io tristi»
- subentra quella del malato. Anche perché il prolungato «bagno»
nella mondanità (raccontato nel romanzo I divini mondani del 1968)
non lo salva dalla depressione, semmai l'accentua. «Non sono stati i
play-boy, / o il consumismo, a dannarmi. / Mi ha dannato la serpe /
della malinconia e mania», confesserà molti anni dopo nella già
citata Storia del Psi. Che cosa lo interessava della
mondanità? Il suo vuoto, la sua ripetitività. Dice così a Camon:
«Dietro il mondo luccicante e fastoso della mondanità si nasconde
il classico pericolo del vuoto».
La depressione è il suo
tarlo, quella malattia-non malattia che sfugge ma alla quale non si
sfugge, che artiglia inesorabilmente e allo stesso modo il corpo e la
mente, che spinge a qualsiasi gesto che possa apparire salvifico,
all'alcol, alla droga. Perché anche Ottieri all'alcol approdò.
Tornò in analisi per questo, si ricoverò nella clinica junghiana di
Zurigo, dove scrisse Il campo di concentrazione, pubblicato da
Bompiani nel 1972.
In una nota biografica
sul padre, Maria Pace Ottieri, racconta molto bene questa sorta di
esistenzialismo: la sua non è «scrittura terapeutica, è piuttosto
una forma di resistenza alla malattia (la sofferenza eccessiva è
muta) e di ribellione al potere di quei padroni della psiche,
psichiatri, psicoterapeuti, che vorrebbero guarirlo dall'odiata ma
necessaria nevrosi». Scrive senza soste Ottieri, a mano, su grandi
quaderni scolastici, spesso a letto, come Proust, oppure seduto al
tavolo della cucina, indisturbato dalla domestica. Le sue domande ora
sono queste: il lavoro è l'unico modo di essere dell'uomo? Il
delirio è un fatto «politico»?
Le righe corte
L'ansia, l'angoscia, la
depressione, la paura del «vuoto» gli impediscono di uscire, il
tempo lo trascorre per lo più nella casa di Milano in via San Primo
e nelle cliniche. Deve riuscire a conoscere se stesso. Lo fa con la
scrittura, ma nella consapevolezza che la scrittura potrebbe
rivelarsi una trappola. A un certo punto, dopo la forma diaristica,
dopo il romanzo-saggio o «saggio romanzato», scopre i versi, in
particolare la forma del poemetto narrativo. Le righe corte, le
chiama.
Si fa più attento alla
forma, conquista alla lingua un ritmo, una musicalità, che gli era
sconosciuta. Le righe corte lo costringono a una focalizzazione dei
concetti, a una scansione che si avvicina alla forma aforistica, a un
surplus d'ironia e di leggerezza. La poesia lo seduce e non lo molla
più. Non può farne a meno e da «saggista» che segue l'esempio
dello Zibaldone si fa poeta civile: «Luigi: Mi rallegro con te
perché ho saputo che vuoi divenire poeta civile», è l'incipit del
Poema osceno, la sua opera testamentaria, nella quale poesia
narrativa e prosa drammaturgica si alternano per oltre 500 pagine con
l'intento di dare «un colpo al sesso e uno alla nazione».
Se Ottieri è stato un
secondo Pasolini, addirittura il suo continuatore (basti la lettura
del poemetto Vi amo), accomunabile a lui per la sua lotta
contro i poteri organizzati, per quel suo modo di scrivere molto
fisico che lo portava a un totale coinvolgimento nell'opera, Il
poema osceno - come qualcuno ha detto - può senz'altro situarsi
nella nostra letteratura accanto a Petrolio.
L'orso e l'ananas
«Se penso alla vita di
uno scrittore - ha scritto di lui la moglie Silvana Mauri, che
Ottieri sposò nel 1950 a Lerici, «l'infinita sposa», nipote di
Valentino Bompiani - mi viene in mente un gioco della 'Settimana
enigmistica' che si chiama 'Pista cifrata'. Ti dicono di collegare
tra loro i puntini e apparirà una figura. Tu lo fai, magari a
fatica, perché i numeri dei puntini sono quasi invisibili. Ma il
disegno definitivo è duro a venir fuori. Spunta prima un occhio, poi
una zampa, poi il naso. E alla fine, se proprio insisti, c'è il
rischio che compaia un'immagine insensata: che so, un orso che sta
mangiando un ananas».
Nonostante i suoi trenta libri in cui parla di sé è difficile dire chi fu veramente Ottiero Ottieri: perfino la moglie, che gli è stata sempre accanto, rinuncia a «collegare i puntini». «Ottieri è nato per scrivere, tra un libro e l'altro finge di vivere», ci prova Bompiani. Oggi ciò che conta di più è forse quanto disse Zanzotto dopo la sua morte: «Resta come uno scoglio a parte nella letteratura del secondo Novecento, non solo della nostra».
Nonostante i suoi trenta libri in cui parla di sé è difficile dire chi fu veramente Ottiero Ottieri: perfino la moglie, che gli è stata sempre accanto, rinuncia a «collegare i puntini». «Ottieri è nato per scrivere, tra un libro e l'altro finge di vivere», ci prova Bompiani. Oggi ciò che conta di più è forse quanto disse Zanzotto dopo la sua morte: «Resta come uno scoglio a parte nella letteratura del secondo Novecento, non solo della nostra».
"il manifesto", 2 agosto 2012
Nessun commento:
Posta un commento