La democrazia è
un’allucinazione, secondo Walter Lippmann. O almeno, lo è
l’ideologia che pretende di riconoscere nell’uomo un impulso alla
conoscenza di tutte le premesse di una decisione, senza l’assenso
pregiudiziale alle istruzioni di un leader. L’unica volta in cui
questa condizione si è realizzata è l’America dei pionieri, con i
suoi villaggi di agricoltori e cercatori d’oro nel primo Ottocento.
I presidenti Thomas Jefferson e Andrew Jackson ne hanno accudito
l’autonomia, in modo che qualunque cosa potesse influenzare la vita
dei contadini-coloni si trovasse nel raggio della loro percezione
sensoriale.
Eppure i guru della
democrazia diretta ignorano le obiezioni di Lippmann. L’ideologia
che ha accompagnato lo sviluppo di Internet, ha interpretato le
comunità di utenti collegati in rete come i cenobi dei Paesi
contadini nell’epoca eroica della colonizzazione. Le bacheche
elettroniche, i primi forum, sono apparsi come un ambiente in cui
replicare la socialità del villaggio su un’estensione geografica
ampia quanto un continente, o come l’intera superficie del globo.
Alla fine degli anni Ottanta, Howard Rheingold ha redatto il
saggio-manifesto di questa concezione: La comunità virtuale.
Colonizzare la frontiera elettronica, uscito nel 1991. La
retorica è quella della conversione e della profezia, mentre la
dissertazione è un affresco dell’esperienza sulle bacheche di The
WELL, il sistema di forum più longevo del mondo: risale al 1985, e –
tra le altre – ha accolto le prime conversazioni tra i futuri
creatori dell’Electronic Frontier Foundation.
La formula
dell’ecumenismo di The WELL è l’annullamento di ogni mediazione:
gli utenti della piattaforma non attingono a fonti di informazione
esterne, lasciano emergere ogni conoscenza dalla discussione,
depositano negli archivi delle conversazioni un sapere cui attingere
per ogni aspetto della vita quotidiana. Solo il confronto tra gli
iscritti può ispirare decisioni giuste: gli esperti che appartengono
al mondo esterno, i professionisti della raccolta delle informazioni,
l’intero mondo scientifico oltre il confine del forum, non possono
arrogarsi alcuna autorità.
Sono le elezioni
presidenziali USA del 1992 a chiarire la portata politica di questa
concezione. Il magnate Ross Perot si presenta come indipendente,
contro Bill Clinton e George Bush: a giugno è in testa nei sondaggi,
mentre alle elezioni di novembre conquista quasi 20 milioni di voti
(il 19% del suffragio popolare). Il risultato è dovuto al successo
di due proposte: la riduzione delle tasse, e il passaggio ad una
democrazia diretta. Perot ritiene che la Costituzione americana debba
essere riscritta, perché gli estensori settecenteschi non
conoscevano ancora Internet. Si deve superare la struttura
rappresentativa delle istituzioni di governo, visto che oggi i
cittadini possono essere convocati in ogni momento ad esprimere la
loro posizione su qualunque tema. Basta un clic su un form di
interrogazione online. Requisiti di sistema: l’impulso
all’onniscienza, la preparazione su ogni argomento – e una certa
propensione all’autoritarismo, con scelte per acclamazione.
Gli americani continuano
a provare nostalgia per l’isolamento e l’epica dei loro villaggi
contadini. Ma la rivoluzione industriale, la mercificazione del
lavoro, la circolazione universale dei beni, la finanza, la guerra,
hanno reso dipendente ogni individuo, e ogni collettività, da eventi
che precipitano fuori dalla portata della percezione personale.
L’informazione è il business più redditizio nell’epoca della
knowledge economy, perché la mediazione di esperti, di dati
affidabili, di testimoni remoti e di interpreti specialistici, è
necessaria per qualunque decisione. Può sembrare paradossale allora
che gli imprenditori alla guida dei giganti della Silicon Valley
siano oggi gli alfieri della democrazia diretta.
Eric Schmidt, ex CEO di
Google e presidente di Alphabet, descrive il parlamento americano
come «un’opprimente macchina protettiva in cui le leggi vengono
scritte dai lobbisti», mentre Mark Zuckerberg, fondatore di
Facebook, dichiara che ormai grazie a Internet «la gente dovrebbe
essere in grado di avere voce in capitolo, senza avere una grande
struttura di milioni di persone organizzate e milioni di dollari
raccolti per sostenere una causa particolare». Le istituzioni
democratiche sono strutture costose votate all’inefficienza, quando
non addirittura alla truffa e alla rapina.
Bisogna quindi affidarsi
alle tecnologie digitali, perché chi le progetta non tesse gli
intrighi nei palazzi del potere, ma appartiene alla classe «degli
scienziati» (è ancora Schmidt che parla), che cercano «di creare
uno specchio virtuale e sempre aggiornato del mondo» (lo incalza
Marissa Meyer, CEO di Yahoo!). Internet è il riflesso neutrale della
società, in cui diventa «possibile la connessione e condivisione
delle proprie idee in modo semplice, per le persone con diversi
background». Lo pensa Zuckerberg, riferendosi alla sua piattaforma,
in cui un miliardo e mezzo di persone conversano su qualunque cosa,
senza conoscerne quasi nessuna, ascoltando l’eco dei propri giudizi
nelle parole degli amici cui somigliano di più.
Invece di «diminuire i
conflitti nel mondo a breve e lungo termine», la frequentazione dei
social media ha radicalizzato i contrasti politici, come ha
evidenziato l’indagine del 2014 condotta dal Pew Research su 10
mila adulti americani. Vedere il mondo come ciascuno vorrebbe che
fosse, anziché avvicinarne la realtà con senso critico, non
favorisce di sicuro la democrazia. Ma agevola i software di Google,
di Facebook, e dei loro simili a misurare ogni atomo del nostro
desiderio e del nostro istinto, e a rivendere queste informazioni per
offerte commerciali personalizzate. Offrire l’illusione di essere
il capo del villaggio globale amplifica il controllo di chi registra
ogni cosa, e gonfia il suo fatturato più di tutto l’oro del
Klondike: non lo avrebbe immaginato nemmeno Zio Paperone, figuriamoci
Thomas Jefferson.
Pagina 99, 12 novembre
2016
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