Matilde Serao (1856-1927) nel suo studio a Napoli, nel 1924 |
In occasione del
cinquantenario della morte di Matilde Serao “la Repubblica”
pubblicò un paginone dedicato alla giornalista e scrittrice
partenopea. Pezzo forte la testimonianza di Eduardo De Filippo,
raccolta da Lucio Villari, che disegna uno spaccato della cultura
teatrale e letteraria del primo Novecento. (S.L.L.)
ROMA
Eduardo, cosa pensa,
oggi, di una donna come Matilde Serao?
«Quello che ne pensai
quando la conobbi. Era l’autunno del 1925; recitavo al Teatro
Fiorentini, a Napoli, nella compagnia di Vincenzo Scarpetta. Una
sera, alla fine dello spettacolo, seppi che c’era la Serao e che
voleva vedermi. Andai nel suo palco e lei ebbe per me parole
lusinghiere e molto affettuose. La Serao era una donna aperta e
sincera, attenta alle qualità e alle esigenze dei giovani. Nel campo
del giornalismo ne aiutò molti a lavorare e a farsi strada. Aveva per
loro un affetto materno, non era vero che lo facesse anche per
portarseli a letto. Solo la volgarità di certi ambienti napoletani
poteva far immaginare donna Matilde nelle vesti di seduttrice.
Probabilmente molti si facevano ingannare dalla passionalità,
dall’erotismo di tanti suoi personaggi femminili».
Anche Scarfoglio
cedeva a questo luogo comune...
«Sì, a lui si
attribuiva una battuta cattiva: "Matilde è il calamaio della
Posta" (dove tutti possono intingere la penna...). Ma, si sa che
Scarfoglio era inferiore, come scrittore e intellettuale, alla moglie
».
I loro rapporti non
furono certo facili.
«Inizialmente il loro
modo di fare giornalismo si integrava perfettamente, sia dal punto di
vista professionale che ideologico-politico. Scarfoglio era però
retorico, inondava di inchiostro i suoi giornali. La Serao era più
sobria, anche perché era molto attenta a ciò che le accadeva
intorno, alle persone, ai gesti. I suoi romanzi, le sue novelle, sono
fatti di queste osservazioni filtrate da una memoria molto sensibile.
Perciò, alla lunga, le loro strade non potevano che divergere».
Forse nella Serao
c’era anche un senso di maggiore felicità e serenità.
«Sì, è vero. Ricordo
che lei abitava alla Riviera di Ghiaia in una casa dove, ragazzo,
andavo spesso perché c’ era un fotografo alla moda, Armando Toppo,
mio amico. Una volta, alla finestra dello studio della Serao (a cui
sempre alzavo lo sguardo timoroso), vidi una bandiera; chiesi a Toppo
che cosa fosse successo, mi disse che era il modo con cui la Serao
festeggiava la parola “fine” a un suo romanzo. Era un modo allegro
e infantile di manifestare la propria gioia».
Per questo, allora,
amava tanto il teatro?
«Forse sì. Lei seguiva
con molta attenzione ciò che accadeva nel mondo del teatro... Alla
fine del 1917, dopo la rotta di Caporetto, le autorità proibirono,
in segno di lutto, le riviste e i varietà. Raffaele Viviani, ancora
non molto noto, decise di formare una compagnia con gli attori
rimasti disoccupati. Insieme alla sorela Luisella chiamò bravissimi
attori di varietà quali Gigino Pisano, Cesarina Faras, Salvatore
Costa, Guglielmo Inglese, Mario Mari e altri, e per la Compagnia
scrisse ’O vico dove lui, cantando e recitando, faceva da
filo conduttore di uno spettacolo molto bello e divertente. Fu un
grande successo, ma la “crème” del mondo culturale e dello
spettacolo napoletano (Bovio, Di Giacomo, Murolo, ecc.) non diedero
peso all’avvenimento. La Serao, invece, ne fu entusiasta e scrisse
provocatoriamente sul giornale: “Napoli si è accorta cosa succede
al Teatro Umberto 1°?”. Aveva capito il grande talento di Viviani;
cosa che non riuscirà, neanche negli anni successivi, a Benedetto
Croce, che pure viveva quotidianamente, la vita culturale di Napoli
».
Questa particolare
sensibilità della Serao si spiega, credo, anche col fatto che la sua
narrativa ha una struttura teatrale.
«Certamente. Ernesto
Murolo, ad esempio, ha trasformato in commedia un suo racconto, O
Giovannino o la morte, che ebbe un successo anche per
l'interpretazione di Marietta Gioia, l'astro del Teatro d’Arte
Napoletano. Posso ancora ricordare Ruggero Ruggeri e Emma Gramatica
che recitarono Dopo il perdono. Dal punto di vista teatrale
Napoli non era affatto una città di provincia. Novelli, Zacconi, la
Duse, Tino Di Lorenzo, Gualtiero Tumiati, recitavano spesso in una
città che, col Sannazaro, il Bellini, il Fiorentini, il Merendante,
era una vera e propria capitale del teatro italiano. La Serao fu in
rapporto con questi artisti e con i più importanti uomini di teatro
del periodo. Esiste, a tal proposito, una corrispondenza inedita
presso una nipote della Serao che spero di poter fare pubblicare al
più presto».
Scarfoglio la seguiva
in questi interessi teatrali?
«Credo di no.
Scarfoglio frequentava spesso, insieme con i figli, il teatro di
Eduardo Scarpetta solo perché nella compagnia vi erano bellissime
donne. Ricordo che nella pochade La dama di “Chez Maxim”
recitavano donne stupende: Adelina Magnetti, Ester Bianche, Maria
Dolini, Concettina Arola. Scarfoglio riuscì a diventare amante dela
Magnetti, che fu poi l'affascinante Assunta Spina di Salvatore
Di Giacomo. I rapporti degli Scarfoglio col teatro napoletano erano
solo salottieri. Sempre a proposito della Dama di ”Chez Maxim”
Scarfoglio protestò con Scarpetta perché di una prostituta, che
c’era nel testo originale francese, egli aveva fatto una fioraia.
Tutto qui».
Perché, secondo te,
il premio Nobel del 1926 venne dato a Grazia Deledda e non alla
Serao? Eppure, le opere della Serao erano state tradotte in francese,
inglese, tedesco, russo, spagnolo, ceco, danese...
«Spesso dietro
l’assegnazione dei Nobel vi sono motivi politici. Durante la
guerra, come si sa, la Serao era stata accusata di essere
filo-tedesca solo perché non si era fatta trascinare dal delirio
nazionalistico soprattutto dei giovani Scarfoglio e del Mattino,
anch’essi però contrari all’intervento dell'Italia. È probabile
che questo abbia influito sule decisioni dei giudici del Nobel.
Vorrei aggiungere, poi, che donna Matilde non era fascista anche se,
come si diceva, Mussolini tentò di tirarla dalla sua parte.
Mussolini teneva a coccolare gli artisti e gli scrittori. Con la
Serao, però, non gli riuscì...».
È bello dunque che i
napoletani celebrino oggi questa scrittrice non napoletana che così
profondamente ha amato e capito la loro città.
«Vorrei dire che mi piace non disgiungere l’immagine di me, presidente della
commissione che dovrà celebrare i 50 anni della morte della Serao,
da quella di me giovane magro come adesso, timido, pieno di speranze
e di sogni, che varca il palco del Teatro Fiorentini. Celebrando la
Serao, in fondo, Napoli ritrova una immagine autentica di sé. Lavoro
in questa commissione con amore filiale perché, come ho detto, i
giovani erano molto legati a donna Matilde».
Quali sono i vostri
progetti per quest’anniversario?
«Fra le altre cose, uno
spettacolo fatto di brani narrativi della Serao. L’idea iniziale
era di presentarlo nei saloni di Palazzo Reale, ho detto però agli
amici della commissione che forse era meglio creare uno spettacolo
mobile che portasse la Serao di piazza in piazza. Il popolo
napoletano, che ha ispirato il suo lavoro di scrittrice, potrà così
ritrovarla o addirittura scoprirla. È un giusto omaggio alla Serao e
a Napoli».
Mi pare che ci sia
pure una sua proposta di realizzare un film.
«Molti romanzi della
Serao potrebbero diventare dei film. Penso a un’ opera, che io
definisco politica, come il Ventre di Napoli. Secondo me un
film ideale sarebbe il Paese di Cuccagna, diretto, ad esempio,
da un regista come Francesco Rosi. È una mia vecchia idea,
d’altronde, che risale al 1939 e che la guerra mi aveva impedito di
condurre in porto. Spero di potere interessare qualche produttore. Se
anche questa volta, però, non se ne facesse nulla, mi piacerebbe
sceneggiare quella parte del Paese di Cuccagna dove si apre lo
scenario del gioco del lotto. Uno spaccato sociale di Napoli, una
serie di figure non dimenticabili: dal tagliatore di guanti Gaetano
al marchese Cavalcanti».
(a cura di Lucio
Villari)
“la Repubblica”, 21 febbraio 1977
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