Scrittore tra i maggiori
della prima metà del secolo scorso, Federigo Tozzi è emarginato nel
panorama di oggi, dominato dall'imperativo della leggibilità e dei
sentimenti 'formato famiglia'. «Qualche volta non posso fare a meno
delle cose ripugnanti. Mi sento arrossire e ne provo una sensazione
di rimorso; ma resisto per essere disgustato quanto è possibile,
fino in fondo»: a esprimersi in questo modo sfrontato ed
autocompiaciuto è un uomo che incontra clandestinamente una donna,
anzi, «quella solita donna maritata», in casa di una sordida
mezzana, e ne scrive a un'amica, una sorta di donna angelicata,
contraltare di quella degradazione annunciata dall'incipit.
E non è che la promessa
non venga poi mantenuta: l'uomo, nell'attesa dell'amante che tarda,
si abbandona a un rapporto avvilente con la tenutaria della casa, una
donna laida e abbrutita dalla miseria: «Ed io guardo questa donna di
quarant'anni, sporca e puzzolente, quasi provando piacere. Ella se
n'accorge e mi sta intorno, cozzandomi qualche volta. Non vedo i suoi
capelli e il suo collo, ma soltanto le calze sdrucite con la pelle
scoperta, e allora mi viene la tentazione di alzarle le sottane (…)
Mi tremano le mani e non potrei parlarle: o l'uccido o cedo».
Donne allo stato
brado
Scenario diverso, un
esterno di città (Roma, nella fattispecie), ma identica degradazione
nella figura della prostituta ridotta allo stato brado: «Quasi tutti
le danno da mangiare come a una cagna bastarda. (...) Ha soltanto la
veste e la camicia: solo d'inverno, anche le calze e le ciabatte a
colori. Chi la vuole s'avvicina, le sorride e la porta con sé. Dice
come si chiama, ma il suo nome se lo ricorda lei soltanto; e glielo
cambiano sempre».
Le donne, in Tozzi, sono
spesso così. Non solo le due donne delle novelle appena ricordate
(Un pezzo di lettera e Il crocifisso), ma le donne nel
loro apparire e nel loro associarsi tout court al disarmonico, allo
sciatto, al deforme (Una gobba), all'incompiuto, al misterioso
(in una parola, alla sessualità?) sono elemento narrativo denso di
un simbolismo tutto rovesciato rispetto all'iconografia tradizionale,
per cui la donna è canonicamente altera, bella, irraggiungibile,
anche quando negativa o minacciosa come l'Aspasia leopardiana.
In Tozzi il mistero
riguarda però non solo l'oggettiva presenza di queste figure di
esseri marginali o abietti (anche se poi non ci sono quasi mai
presenze neutre, sul cammino dei personaggi tozziani: ogni altro
personaggio che ne incrocia il corso, è, al contrario,
potenzialmente pericoloso, sicuramente perturbante, come evidenziato
proprio dai tratti della deformità o mostruosità fisica), quanto
piuttosto l'occhio che le contempla, che necessita, quasi, di quella
degradazione, per darsi un senso, e per darne al mistero creaturale
o, all'opposto, si dispone alla rinuncia alla propria identità
codificata: «(...) sentivo che per parlare a quella giovane dovevo
assolutamente dimenticare non solo la mia coscienza, ma anche ogni
cosa della mia memoria».
Giovinezza
esistenziale
Non per caso, secondo una
interpretazione di Romano Luperini, la novella Il crocifisso
termina con uno schianto dell'oggetto sacro: davvero un «atto
misterioso», parafrasando la celeberrima definizione tozziana, non
passibile di connessione con quel mondo «che Dio non ha finito di
creare», descritto nell'esordio. Una sorta di genesi mancata, da cui
le creature risultano incompiute, malfatte: «Vi sono vegetazioni
tutte uguali tra sé; e sbozzature di bestie informi, che non possono
muoversi dal loro fango perché non hanno né gambe né occhi». E
meno che mai per caso, l'età privilegiata da questo autore è la
giovinezza: una condizione esistenziale, prima che anagrafica, in cui
la percezione del mondo è ancora (per immaturità consustanziale o
per qualche impedimento intercorso) confusa e indistinta.
Ulteriore metafora di
tale condizione è il difetto ottico, la limitazione alla vista
(estesa alla parabola umana nella sua interezza, dalla prima
giovinezza alla vecchiaia, nella novella Il cieco)
esemplarmente ricondotta a metafora costituiva del romanzo maggiore,
Con gli occhi chiusi. Dove la patologica inettitudine alla
vita si rivela d'altro canto come l'unica forma possibile di
autenticità. In particolare quanto ai giovani, stavolta soprattutto
in senso anagrafico, per i quali il non vedere è un modo per
rimanere nello spazio protetto dell'immaturità.
Altro tema tozziano
cruciale è poi, difatti e conseguentemente, la rovina: nel Podere
e in Tre croci, gli altri due romanzi maggiori, motivo di una
disfatta sociale e materiale che si lega però all'inaccessibilità
del bonheur, costituiva del personaggio primonovecentesco,
andando da Zeno ai protagonisti pirandelliani. La novella è la forma
privilegiata della messa in atto di questa impossibilità: per l'uomo
che si è scoperto progressivamente spostato ai margini, della vita,
della storia, della società, della famiglia. Uno fra tanti, che sarà
il problema tipicamente pirandelliano, o uno distinto dagli altri
proprio dalla sua inettitudine, come i personaggi di Svevo, che però
a differenza di Tozzi prediligeva rematicamente la «senilità», il
momento dei bilanci e dei memoriali, mentre i protagonisti tozziani
permangono in questa sorta di fase preparatoria dell'infelicità
irrimediabile.
La cifra della
cattiveria
Ecco perché
probabilmente, se la Coscienza di Zeno si chiude con la
prefigurazione di una «ecpirosi», o fine del mondo (per esplosione,
e quindi per eccesso), la novella Il crocifisso, lo dicevamo, si apre
con una creazione, pure se «apocalittica» (Luperini) o in
riduzione. Entro una redenzione al rovescio, in cui il Padre celeste,
come sovente in Tozzi, finisce con l'essere una replica del padre
terreno, biografico, o viceversa: entrambi figure assai poco
protettive e volentieri minacciose. Nient'affatto banali le letture
tozziane in materia psicologica: decisivo soprattutto William James
(psicologo «sperimentale»), pure dal microcosmo senese in cui il
nostro si forma e, per lo più, opera. Ecco che i rapporti primari,
in particolare la figura del padre, si affrontano con una capacità
di scandaglio impietosa e feroce: la cattiveria è la cifra di molte
situazioni tozziane, specie quando riguardanti dinamiche di relazione
improntate all'affettività (così nella già citata novella Una
gobba, mai pubblicata dall'autore e però appartenente a una fase già
matura, secondo un'accurata ricostruzione di Massimiliano Tortora, il
quale, peraltro, la ritiene emblematica di una concezione del male e,
nella fattispecie, dello snodo cruciale dell'interdipendenza tra
aguzzini e vittime, tipicamente tozziani).
Sottili
increspature
Così Pietro e il padre,
in Con gli occhi chiusi, per la loro palese sproporzione
fisica, non mancano di rimandare i lettori alla dominante della
Lettera al padre di Kafka, con la forza bruta dell'adulto che
sovrasta l'impubere, come nella scena tozziana della castrazione
(riportata al suo contesto extrasimbolico nel romanzo succitato). Le
bestie (o le creature imbestiate, si diceva) sono,
evidentemente, gli esseri più esposti all'infelicità naturale e
allo stesso tempo, nell'apparire imprevisto e incongruo della
raccolta eponima, l'emblema del mistero della natura che,
leopardianamente, non solo destina le sue creature all'infelicità,
ma poi, come nel Dialogo della Natura e dell'Islandese
(arcinoto), nemmeno «se ne avvede».
È ancora Romano Luperini
a riflettere sulla connessione tra la forma breve, nella fattispecie
la novella, e la nuova realtà che si profila letterariamente (e
gnoseologicamente) a inizio Novecento: riprendendo una intuizione di
Guido Guglielmi, Luperini evidenzia come in piena temperie modernista
sia il racconto ad agire sul romanzo, problematizzando la realtà,
piuttosto che l'incontrario. Ciò, tra l'altro, attraverso
un'evoluzione del genere, che parte da Verga e arriva a Tozzi e
Pirandello, e col transito dalla narrazione del caso eccezionale o
tipico del naturalismo alla «normalità assurda» della novella
«epifanica», che indaga la realtà immergendosi nelle sue «pieghe
e increspature sottili».
Più in generale, a
differenziare la novella dal romanzo è l'assunto (esposto con
particolare chiarezza teorica da Pirandello in saggi assai poco noti
e tutti da recuperare, come quello uscito su «Le Grazie» nel 1897:
Romanzo, racconto, novella) che la vicenda romanzesca debba
procedere attraverso la narrazione analitica, sviluppandosi per gradi
evolutivi, e che, viceversa, nella novella l'accadere sia
rappresentato sinteticamente, attraverso i suoi «momenti
culminanti».
Non stupisce la
marginalità di un autore come Tozzi, in un panorama letterario come
quello contemporaneo, dominato dall'imperativo editoriale della
leggibilità, e, soprattutto, dei sentimenti formato famiglia, anche
quando moderatamente perversi o perturbanti. E stupisce ancor meno
l'abiura contemporanea (riguardo alla denominazione, già dagli anni
Trenta del Novecento, quando le si comincia a preferire la dicitura
«racconto») di un genere di grande tradizione come la novella, che
da Boccaccio a Pirandello ha sempre costituito la nostra forma
privilegiata di narrazione, in un quadro altrimenti «anomalo» (per
citare stavolta un noto saggio di Asor Rosa), quanto ad ampiezza e
vivacità della forma romanzesca (salvo le isolate e luminose
eccezioni).
Un finale aperto
Tornando al Crocifisso,
e alla persuasiva lettura di Luperini, un altro elemento di
irresolutezza (di questa, come di altre novelle tozziane) è
esattamente il non finito inviso alla letteratura attuale, orientata
al consumo garantito e seriale: la vicenda della novella parrebbe
suscettibile di un qualche sviluppo quando il protagonista, che ha
deciso di parlare alla prostituta alla ricerca di una indefinita
condivisione, finalmente le si avvicina, ma lo schianto del
crocifisso sveglia la donna. Punto. Non succede altro, anzi, non
succede niente, come lamenterebbe un editor oggidiano. Di nuovo con
Luperini: «qui il racconto si chiude, in modo aperto non meno che
enigmatico (...) Non si sa infatti se il protagonista si deciderà
davvero a parlare alla ragazza, né viene precisato (...) lo scopo
per cui intenderebbe farlo». Inammissibile, impraticabile oramai.
Converrà rileggersi
Tozzi, in attesa di tempi diversi, di mondi narrativi di nuovo
imperfetti, sbozzati male. Federigo Tozzi era nato a Siena nel 1883.
Compì svogliatamente studi tecnici, senza portarli a termine,
preferendo trascorrere il tempo tra il podere di famiglia, a
Castagneto, e la biblioteca comunale. Della sua scarna biografia si
segnala soprattutto il rapporto tormentato col padre, uomo dai modi
autoritari e violenti, che non comprese mai la passione letteraria
del figlio. A 24 anni si trasferì a Roma per proseguire la relazione
(iniziata per corrispondenza) con Emma Palagi, sposata qualche anno
dopo, e da cui nacque il figlio Glauco. Nel frattempo, dopo una breve
attività impiegatizia, grazie all'eredità paterna riuscì a
dedicarsi interamente alla scrittura, nella villa di Castagneto.
Trasferitosi nuovamente a Roma, alla ricerca di migliori
riconoscimenti letterari e di collaborazioni giornalistiche di
maggior prestigio (aveva intanto fondato la rivista «La Torre», di
ispirazione cattolica), fu arruolato nella Croce Rossa, allo scoppio
della Prima Guerra Mondiale.
Le sole opere pubblicate
in vita furono «Bestie» (1917), «Con gli occhi chiusi» (1919),
«Tre croci» (1920). Del resto della produzione fu incaricato
Borgese (che cambiò, tra l'altro, il titolo dei Ricordi di un
giovane impiegato, espungendone «giovane»), dopo la morte di
Federigo, avvenuta a Roma, nel 1920, per una polmonite. Ricondotto
forzatamente dalla critica all'alveo del naturalismo, solo a partire
dal secondo Novecento (con Debenedetti, Baldacci e Luperini) ha
ricevuto una più opportuna collocazione ideale nella corrente
dell'«espressionismo», che racconta la realtà problematizzandola e
deformandola, piuttosto che descriverla con la pretesa di spiegarla.
“il manifesto”, 5
agosto 2012
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