Assisi, Basilica Superiore di San Francesco - Giotto, "La rinuncia agli averi" (particolare) |
La Basilica
di San Francesco di Assisi, grandioso complesso cultuale che
custodisce alcune delle testimonianze più alte di tutta l’arte
occidentale, suscita da molto tempo attenzioni mirate da parte di
studiosi di vario tipo, dagli storici dell’arte agli storici tout
court. Le tracce del conflitto che, sin da quando san Francesco era
ancora in vita, cominciò a dilaniare il nuovo Ordine si possono
ancora ritrovare nella divisione fra le due chiese: la Superiore,
destinata a ospitare i Capitoli generali dell’Ordine e i fedeli,
votata quindi a un ruolo più ufficiale e più pubblico rispetto a
quella Inferiore, con la sua atmosfera raccolta e adatta alla
preghiera dei pellegrini. Il problema dell’appropriazione e
dell’ufficializzazione di un messaggio tanto dirompente come quello
del Poverello di Assisi avrebbe trovato una delle sue espressioni più
alte proprio nei metri di superfici affrescate della Basilica
Superiore. Molto più delle circolari papali, dei trattati volti a
interpretare la vicenda di Francesco o delle biografie del santo, le
immagini ebbero un ruolo straordinario nell’affermare e stabilire
una sola, univoca immagine del santo.
Ora, in
questa sua recente fatica, Chiara Frugoni affronta e dipana proprio
questi problemi. Sin dal titolo, Quale Francesco? Il messaggio
nascosto negli affreschi della Basilica superiore ad Assisi (Einaudi,
pp. 612,222 illustrazioni, € 80,00), appare chiaro lo scopo del
ponderoso volume: quale fu il Francesco che si volle promuovere dalle
pareti della Basilica assisiate? Il pauperista, ascetico frate che
predicava la rinuncia ai beni terreni e tentava di reimpostare i
rapporti tra la Chiesa di Roma e i fedeli? O un Francesco il cui
messaggio era mitigato e in certo senso ‘addolcito’ rispetto al
rigorismo iniziale, capace allora di essere assorbito all’interno
di quella stessa Chiesa? La studiosa si era già concentrata, nel suo
Francesco e l’invenzione delle stimmate (Einaudi, 1993),
sulle vicende che portarono la Chiesa ad appropriarsi del messaggio,
invero carico di elementi sovversivi tanto per l’autorità
pontificia quanto per le sue gerarchie, dei frati dell’Ordine
francescano. Un Ordine nuovo, la cui obbedienza era dovuta solo al
sommo Pontefice e che usciva, quindi, dalla giurisdizione dei
vescovi. Un dettaglio, questo, sul quale si scatenò una vera e
propria battaglia a
suon di
testi e, come è facile aspettarsi, di immagini. Questo processo,
lungo e accidentato, vide una prima sostanziale vittoria da parte di
Roma nell’affermare, anno 1266, la Legenda Maior di san
Bonaventura come l’unica biografia ufficiale del santo, con la
conseguente distruzione delle altre biografie di Francesco, in primis
quella di Tommaso da Celano. Proprio sulla base di Bonaventura,
infatti, si sarebbe elaborato il programma iconografico delle storie
del santo nella Basilica superiore, adornando in affresco le pareti
della navata nel registro più basso, e quindi più vicino allo
sguardo dei fedeli.
Ma Chiara
Frugoni, questa volta, non si limita alle storie di san Francesco, e
sottopone a un’analisi serrata e scrupolosa tutta la decorazione
della chiesa, a cominciare dalla zona dove ebbero inizio i lavori,
nel transetto destro, sino alle opere del giovanissimo Giotto. La
studiosa rintraccia i rimandi contenuti nell’impaginato degli
affreschi, indaga le ragioni delle rispondenze delle scene dipinte
fra le diverse pareti della navata. La narrazione biblica procede
dall’alto verso il basso: si inizia con la Cre -azione, si
attraversano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, infine
si racconta la vicenda, trascorsa solamente cinquantanni addietro, di
san Francesco. Una storia, però, a quel punto bonificata e mitigata,
perfettamente in linea con gli orientamenti e l’esegesi proposti da
San Bonaventura nella sua Legenda Maior.
La struttura
del libro della Frugoni, sostanzialmente bipartita, permette di
avvicinare le pitture assisiati con una strumentazione non usuale. E
moltissime sono le personalità che si avvicendano nelle pagine del
libro - da dotti teologi come Gerardo da Borgo San Donnino o
Guglielmo di Sant’Amore sino all’eretico Gioacchino da Fiore,
senza trascurare papi e cardinali -, ma certo tra questi un ruolo
specialissimo, opportunamente valorizzato, spetta a Girolamo
d’Ascoli, già Ministro Generale dell’Ordine negli anni settanta
del Duecento, poi divenuto papa come Niccolò IV, primo papa
francescano ad ascendere al soglio di Pietro nel 1288. Dopo cinque
capitoli, che seguono l’evolvere delle profonde controversie
scatenatesi dentro e fuori l’Ordine francescano - e basti citare il
bel capitolo, il terzo del volume, sulle lotte per accaparrarsi le
cattedre all’Università di Parigi tra regolari, ossia quei frati
che seguivano una regola, come i francescani e i domenicani, e
secolari, che al contrario dei primi non afferivano a un
ordine -, l’autrice conduce il lettore dentro la Basilica, e con
pazienza si dedica all’analisi delle singole scene, dei loro
significati, del loro senso, alla luce proprio degli strumenti di cui
ha dotato il lettore nei capitoli precedenti. La necessità di
‘ammansire’ il messaggio del Poverello comportò l’attuazione
da parte della Curia pontificia di una serie di contromisure che
disinnescassero la forza, davvero incendiaria, del suo insegnamento.
Il libro permette di calarsi all’interno di quei processi per cui
le opere d’arte vengono investite di un potente messaggio
ideologico e diventano foriere di valori ben precisi. Il corso del
tempo e il passare dei secoli hanno edulcorato, come sempre accade,
gli aspetti più scottanti di queste operazioni, ma le pagine della
Frugoni, con i loro zoom storico-iconografici, permettono di
recuperarle al vivo.
La studiosa avvalora poi
la datazione ‘alta’ delle pitture murali, facendo rientrare
l’impresa della decorazione della Basilica superiore negli ultimi
anni del Duecento. Quest’idea, è bene sottolinearlo, era stata per
primo sostenuta da Luciano Bellosi. Spetta a lui, infatti,
rifacendosi a uno studio di Hans Belting del 1977 (che sarebbe
davvero il caso di tradurre in italiano), l’aver ricondotto a
questa datazione tutta la decorazione della Basilica, comprese le
Storie di San Francesco, opera di Giotto. Bellosi aveva argomentato
la sua intuizione con dovizia di particolari nel 1985 (tra l’altro,
proprio quest’anno è stato ripubblicato il suo libro, La pecora di
Giotto) e nel 1998.
Ma proprio su un problema
di datazione, forse, ci sarebbe da discutere con le posizioni della
Frugoni, quando, un po’ troppo nettamente, afferma che gli
affreschi di Cimabue nella zona dell’abside e del transetto
sarebbero opera degli anni settanta del Duecento, e non, come invece
sostenuto da Bellosi, la cui posizione non è certo isolata, in anni
non distanti dal papato di Niccolò IV, che regnò come pontefice dal
1288 al 1292. Al di là di certi aspetti, però, sui quali sarà
necessario tornare con la dovuta ampiezza, la Frugoni riconosce - e
questo è un elemento-cardine - la forte unitarietà del programma
iconografico, la spinta a dotare la chiesa madre dell’Ordine di una
decorazione all’altezza del prestigio del luogo, in linea con le
intuizioni e le ricerche di Bellosi. Al netto di una lettura non
facile ma di certo appassionante, il lettore accede a quel passato
così lontano e può cogliere una serie di nuances che
caratterizzavano il dibattito teologico di quegli anni attorno al
problema, ad esempio, delle stigmate e di come trattare quel miracolo
sbalorditivo concesso al solo san Francesco nella storia millenaria
della Chiesa. Ma il dibattito assumeva anche connotati strettamente
politici, in cui uno dei regnanti più potenti del mondo, il papa,
vedeva fortemente minacciata la sua autorità da parte di Francesco e
dei suoi seguaci. Moltissime sono le illustrazioni che accompagnano
il testo e che permettono di seguire, soprattutto per la seconda
parte del volume, i ragionamenti di Chiara Frugoni. Un libro che
dovrebbe far riflettere, anche, su temi assai attuali eppure così
malamente trattati, come il potere che le immagini rivestono nel loro
uso ideologicamente orientato.
“Alias domenica – il
manifesto”, 27 gennaio 2015
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