Negli anni 70 del
Novecento, Franco Maria Ricci affidò a Giovanni Mariotti, allora
prestigioso critico letterario del prestigioso “Espresso” di
Scalfari, la direzione della Biblioteca blu, i cui volumetti avevano
in realtà copertine azzurre e occupavano una zona dell'immaginario
che andava dall'esotico all'erotico, dall'onirico al fiabesco. Uno di
quei volumetti ha un titolo che è un paradossale omaggio al cinema.
All'edizione italiana di Point de landemain (cioè Niente
domani o Nessun domani, o anche Senza domani, se si
preferisce) Ricci volle dare un titolo che non era traduzione di quello
scelto dall'autore, Vivant Denon, per il suo racconto, ma quello –
in francese - di un celebre film di Louis Malle con Jeanne Moreau che
da esso aveva tratto ispirazione: Les amants.
Nel volumetto azzurro si
può leggere il ritratto, appassionato e ragionato, che di Dinon fece
Anatole France in una prefazione che definiva "gioiello
indiscreto" e "leggero capolavoro" il racconto. Ne
propongo qui un ampio stralcio. (S.L.L.)
Viveva a Parigi, sotto il
regno di Luigi XVIII, un uomo felice. Era un vecchio. Abitava sul
quai Voltaire, nella casa che porta oggi il numero 9 e e occupata a
pian terreno dal dotto Honoré Champion e dalla sua dotta libreria.
La tranquilla facciata di questo edificio, e le leggere finestre ad
arco, respirano una semplicità aristocratica.
Là, Dominique-Vivant
Denon, già gentiluomo di camera del re, già addetto d’ambasciata,
già direttore generale delle Belle Arti, membro dell’Institut,
barone dell’Impero, ufficiale della Legion d’Onore, si era
ritirato, dopo la caduta di Napoleone, con le sue collezioni e i suoi
ricordi. Aveva sistemato negli armadi, intagliati dall’ebanista
Boulle per Luigi XIV, i marmi e i bronzi antichi, i vasi dipinti, gli
smalti e le medaglie raccolti in mezzo secolo di vita brillante e
errabonda; viveva sorridente in mezzo a nobili ricchezze. Ai muri dei
suoi salotti erano appesi un bel paesaggio di Ruysdael, il ritratto
di Molière di Sébastien Bourdon, un Giotto, un fra’ Bartolomeo,
alcuni Guercino, molto apprezzati allora. L’uomo che li conservava
aveva molto gusto e pochi pregiudizi. Sapeva godere di tutto quanto
dà godimento. A fianco dei vasi greci e dei marmi antichi,
conservava porcellane cinesi e bronzi del Giappone. Non disdegnava
nemmeno l’arte delle età barbare. Mostrava volentieri una figura
di bronzo in stile carolingio, con pietre preziose incastonate nel
cavo degli occhi e le mani d’oro, che faceva fremere di orrore le
dame a cui Canova aveva insegnato le soavità della plastica. Denon
si sforzava di classificare questi monumenti dell’arte secondo un
ordine filosofico, e voleva pubblicarne la descrizione; saggio sino
all’ultimo, ingannava l’età con nuovi progetti. Era troppo uomo
del Settecento perché il sentimento non avesse posto nelle sue
ricche collezioni. Possedendo un bel reliquiario del XV secolo, senza
dubbio tolto da una chiesa durante il Terrore, l’aveva arricchito
di nuove reliquie, e nessuna proveniva dal corpo di un Santo. Denon
non aveva inclinazione al misticismo, e mai uomo fu meno adatto di
lui a comprendere l’ascetismo cristiano. I monaci gli ispiravano
disgusto. Era nato troppo presto per gustare da dilettante, come
Chateaubriand, i capolavori della penitenza. Il suo profano
reliquiario conteneva un po’ della cenere di Eloisa, raccolta nella
tomba del Paracleto; un frammento del bel corpo di Inés de Castro,
esiliata da un amante reale; qualche filo della barba grigia di
Enrico IV, ossa di Molière e di La Fontaine, un dente di Voltaire,
una ciocca di capelli dell’eroico Desaix, e una goccia di sangue di
Napoleone raccolta a Longwood.
Senza discutere
sull’autenticità di questi resti, c’è da dire che essi erano
cari a un uomo che aveva molto amato in questo mondo la bellezza
delle donne, era stato indulgente verso le sofferenze del cuore,
aveva saputo apprezzare con delicatezza la poesia unita al buon
senso, aveva stimato il coraggio, onorato la filosofia e rispettato
la forza. Davanti a questo reliquiario, Denon poteva, durante la sua
vecchiaia sorridente, rivedere tutta la vita e essere soddisfatto
dell’uso ricco, vario, e felice che ne aveva fatto. Piccolo
gentiluomo di forte ceppo borgognone, nato in una terra ricca di vini
e naturalmente lieta, a sette anni incontrò, si dice, una zingara
che gli predisse il destino:«Sarai amato dalle donne, andrai alla
Corte; una bella stella splenderà su di te». Questo destino si
avverò puntualmente; giovanissimo,Denon andò a cercare fortuna a
Parigi. Frequentava le quinte della Comédie Française e le attrici
andavano pazze per lui: vollero rappresentare una sua commedia, che
non valeva molto. Denon si trovava sempre dove passava il re.
— Cosa volete? — gli
chiese un giorno Luigi XV.
— Vedervi, Sire.
Il re gli accordò
l’ingresso nei suoi giardini. La fortuna di Denon era fatta.
Diventò presto l'incisore di madame de Pompadour. Denon sapeva
disegnare e le sue incisioni erano molto piacevoli. Luigi XV amava le
persone di spirito perché lui stesso lo era. Denon lo incantò con i
suoi racconti. Il re lo nominò gentiluomo di camera. Quando accadeva
qualcosa gli diceva: Raccontatecelo voi, Denon. Come Sheherazade,
Denon raccontava, e i suoi racconti erano assai più maliziosi di
quelli della Sultana. Piaceva alle donne e piaceva anche agli uomini.
Dopo la morte della marchesa, si fece mandare a Pietroburgo, poi a
Stoccolma, come addetto d’ambasciata; infine a Napoli dove restò,
credo, sette anni. Là si divise tra la diplomazia, le arti e la
società elegante. È possibile immaginare com’era durante quel
periodo, guardandolo in un’acquafòrte, mentre disegna sotto
un’architettura alla Piranesi. Il cappello di feltro dalle falde
morbide, la larga gorgiera, il mantello veneziano, l'espressione
sorridente e trasognata lo fanno sembrare uscito da una festa di
Watteau. I capelli rigonfi, gli occhi neri e vivaci, il naso carnoso
e all’insù, le narici delicate, la bocca ad arco e affossata agli
angoli, le guance rotonde, gli conferiscono un’aria gaia, amabile e
elegante, con qualcosa però di attento e di riflessivo. Incideva
allora numerose tavole nello stile di Rembrandt, e fu persino accolto
dall’Accademia di pittura, a cui aveva inviato un’Adorazione
dei pastori, che oggi ci appare mediocre. Alle sue opere di
soggetto convenzionale sono preferibili le composizioni in stile
familiare, dove fece mostra di uno spirito d’osservazione non privo
di malizia. La colazione a Ferney è il suo capolavoro.
Cortigiano di Luigi XV, stimò un onore diventare cortigiano di
Voltaire. Si presentò a Ferney e, poiché si esitava a riceverlo,
fece dire al filosofo che, essendo gentiluomo ordinario, aveva il
diritto di vederlo; significava trattare Voltaire da re. Da questa
visita portò il quadro di cui parliamo, in cui Voltaire appare così
vivo e così strano, sotto il berretto da notte, vecchio scheletro
agile in veste da camera. Poi, Denon torna sotto il bel cielo
d’Italia, dove il suo gusto delicato si pasce della grazia delle
donne e dello splendore delle arti. Scoppia la Rivoluzione. Non se ne
preoccupa, e continua a disegnare sotto gli aranci. Quando sa che il
suo nome è sulla lista degli emigrati e che i suoi beni sono sotto
sequestro, non esita. Quest’uomo che ama il piacere, non teme il
pericolo: torna coraggiosamente in Francia. E non ha torto a fidarsi
della sua abilità e della sua audacia.
A Parigi, trovò un
protettore in David, e presto ottenne la simpatia del Comitato di
Salute Pubblica. I suoi beni gli furono resi; fu incaricato di
disegnare dei costumi. Fu amato, protetto, favorito, come ai giorni
della marchesa.
Attraversò il Terrore
senza dire niente, vedendo tutto, tranquillo e curioso. Passava
lunghe ore al tribunale rivoluzionario, disegnando con un tratto
penetrante i condannati. Oggi Danton, calmo e di una robusta
volgarità, domani Fouquier che piange, e Carrier sbalordito. Chi ha
visto questi disegni non li può dimenticare, tanto sono veri,
espressivi, immediati. Denon osservava, aspettava. Il 9 termidoro gli
fece perdere protettori che non rimpianse. La zingara gli aveva
predetto l’amicizia delle donne e i favori della Corte: era stato
amato, era stato favorito; gli aveva promesso una stella luminosa:
anche questa promessa si sarebbe compiuta. La stella si alzava sul
felice declino di una vita felice. Nel 1797, Denon incontra nel
salotto di Talleyrand un giovane generale che chiede un bicchiere di
limonata. Denon gli tende il bicchiere che ha in mano. Il generale
ringrazia; la conversazione comincia, Denon parla con il suo brio, e
in un quarto d’ora si è conquistata l’amicizia di Bonaparte.
Anche la moglie di
Napoleone lo apprezza; diventa un frequentatore abituale della casa.
L’anno dopo, mentre si scaldava al camino nella toilette di
Giuseppina, gli venne chiesto: — Volete far parte della spedizione
in Egitto?
Gli scienziati della
commissione erano già partiti. La flotta doveva salpare di lì a
qualche giorno.
— Sarò padrone del mio
tempo e libero nei miei movimenti? — domandò.
Gli fu promesso.
— Andrò — disse.
Aveva ormai più di
cinquant’anni. Durante tutta la campagna mostrò un incantevole
coraggio. Con il portafogli e il binocolo a tracolla, gli strumenti
per disegnare a portata di mano, sopravanzava galoppando le prime
file per avere il tempo di disegnare. Sotto il fuoco del nemico,
faceva degli schizzi, tranquillamente, come se fosse stato seduto al
tavolo del suo studio. Un giorno che la spedizione della flotta
risaliva il Nilo, scorse delle rovine e disse: — Devo farne un
disegno. Obbligò i suoi compagni a sbarcarlo, avanzò nella pianura,
si sistemò sulla sabbia e si mise a disegnare. Stava per terminare
il disegno, quando una palla gli fischiò vicino. Alza la testa e
vede l’arabo che l’aveva mancato ricaricare l’arma. Prende il
fucile che ha lasciato per terra, spara sull’arabo, rimette in
ordine le sue cose e torna sulla barca. La sera, mostrò il suo
disegno allo Stato Maggiore. Il generale Desaix gli disse: — La
linea dell’orizzonte non è dritta.
— È colpa di
quell’arabo, — risponde Denon, — ha tirato troppo presto.
Due anni dopo era
nominato da Bonaparte direttore generale dei musei. Non si può
negare a quest’uomo il senso delle circostanze e l’arte di
adeguarsi. Aveva lasciato senza rimpianto le eleganze aristocratiche
per gli stivali e gli speroni. Cortigiano di un imperatore a cavallo,
seguì di buon animo il suo nuovo padrone nelle campagne d’Austria,
di Spagna e di Polonia. Un tempo aveva illustrato le medaglie a Luigi
XV nei salotti di Versailles. Ora disegnava in mezzo alle battaglie
sotto gli occhi del conquistatore, e incantava i veterani della
Grande Armée con il suo elegante sprezzo del pericolo. A Eylau,
l'imperatore in persona andò a tirarlo via da una piattaforma
spazzata dall’artiglieria. Finita la festa, e caduto l’impero,
Denon capì che era venuta l’ora di riposarsi e di invecchiare
quietamente. Siamo nel 1816. Sempre amabile, sempre amato, ancora
sorridente sotto i capelli bianchi, conversatore pieno di brio,
riceve tutte le celebrità della Francia e del mondo nella sua casa
del quai Voltaire.
L’età ha imbiancato la
seta leggera dei capelli e scavato il sorriso nelle guance. Il
vecchio barone sa che la sua vita è una sorta di capolavoro. Non
dimentica e non rimpiange niente. Il suo bulino, che non disdegna le
licenze, ricorda in tavole segrete i piaceri della giovinezza. Gli
amabili racconti di Denon fanno rivivere la corte di Luigi XV e il
Comitato di Salute Pubblica.
Un giorno gli fa visita
Lady Morgan, la bella patriota irlandese che si trascina dietro sir
Charles, marito grave e silenzioso. Il barone mostra alla giovane
entusiasta i tesori della sua collezione. Lei ammira alla rinfusa
vasi etruschi, bronzi italiani e quadri fiamminghi; i discorsi del
vecchio che ha visto tante cose la incantano. In una vetrina scopre
il piedino di una mummia, un piede di donna.
— Che cos’è?, —
chiede. Il vecchio le risponde che ha trovato quel piede nella
necropoli mille volte violata di Tebe dalle cento porte. — Era
senza dubbio, — dice, — il piede di una principessa; nessuna
calzatura ne ha mai alterato le forme.
Quando parla di una donna
si anima. Ammira con tenerezza la curva elegante della caviglia, la
bellezza delle unghie tinte di henné, come ancora le tingono
le egiziane. Seguendo il filo dei ricordi, racconta la storia di una
giovane conosciuta a Rosetta. — La sua casa era di fronte alla mia,
dice, e poiché le strade di Rosetta sono strette, la conoscenza fu
presto fatta. Sposa a un rumi, sapeva un po' d’italiano. Era
dolce e graziosa. Amava il marito, ma amare soltanto lui non le
bastava. Lui la maltrattava per gelosia. Ero il confidente delle sue
pene: la compiangevo. La peste scoppiò nella città. La mia vicina
la prese dal suo ultimo amante, la diede fedelmente al marito.
Morirono tutti e tre. La rimpiansi; la sua strana bontà, l’ingenuità
dei suoi disordini, la vivacità delle sue pene, mi avevano
interessato.
Lady Morgan, che va da un
vetrina all’altra, lancia un grido. Attaccata al muro, ha visto la
maschera di gesso di Robespierre. — Il mostro!, — grida.
Il barone non ha di
questi odi. Per lui, Robespierre era un padrone che aveva saputo
conquistare, come gli altri due, Luigi XV e Napoleone. Racconta alla
bella indignata come si è incontrato una notte con il dittatore. Era
stato incaricato di disegnare dei costumi. Gli fu detto di
presentarsi davanti al Comitato che si riuniva alle Tuileries alle
due del mattino. — Andai all’ora fissata. Una guardia armata
vigilava nelle anticamere appena illuminate. Fui ricevuto da un
custode che si allontanò e mi lasciò solo nella sala per tre quarti
in ombra. Riconobbi l’appartamento di Maria Antonietta dove,
vent’anni prima, avevo servito come gentiluomo ordinario di Luigi
XV. Mentre mi si affollavano i ricordi, una porta s’aprì
lentamente e un uomo avanzò verso il centro della sala: era
Robespierre. Alla debole luce della lampada lo vidi compiere il gesto
di chi estrae un’arma. Non osai parlargli e mi ritirai
nell’anticamera dove mi seguì con gli occhi. Sentii che scuoteva
violentemente un campanello. Saputo chi ero, e perché venivo, mi
fece fare delle scuse e mi ricevè immediatamente. Durante tutta la
conversazione fu straordinariamente cortese e cerimonioso, come se
non avesse voluto essere da meno di un gentiluomo di camera. Era
vestito con eleganza; il gilet di mussolina era orlato di seta rosa.
Lady Morgan ascolta le
parole del vegliardo; le riferirà fedelmente nelle sue Memorie,
confondendo soltanto le date.
Prima di accomiatarsi
vuole testimoniare a Denon la sua ammirazione. Gli chiede in che modo
abbia imparato tante cose. — Dovete aver molto studiato, da
giovane. — Denon le risponde: — Al contrario, Milady, non ho
studiato niente, perché mi sarei annoiato. Ma ho molto osservato,
perché mi divertiva. Così la mia vita è stata ricca e mai triste.
Il barone Denon fu felice
per più di settantanni. Attraverso le catastrofi che sconvolsero la
Francia e l’Europa e affrettarono la fine di un mondo, gustò con
eleganza tutti i piaceri dei sensi e dello spirito. Fu un uomo abile.
Chiese alla vita tutto quello che gli poteva dare senza mai chiederle
l’impossibile. La sua sensualità si manifestava nel gusto per le
belle forme, nel sentimento dell’arte e nella tranquillità
filosofica; capì che la mollezza è nemica dei veri piaceri. Fu
coraggioso, e assaporò il pericolo come il sale del piacere. Sapeva
che un uomo deve pagare al destino tutto quello che riceve. Era
gentile con tutti. Senza dubbio gli mancò l’ostinazione, il gusto
delle cose estreme, l’amore delle cose impossibili, lo zelo e
l’entusiasmo che sono caratteristiche degli eroi e dei geni. A
quest’uomo felice mancò l’inquietudine e la sofferenza.
Scendendo la scala del
quai Voltaire, la giovane irlandese, che molto aveva sacrificato alla
patria e alla libertà, mormorò: — Le abitudini della sua vita non
gli permisero di prendere le armi per alcuna causa. Aveva colto il
difetto di quella esistenza.
Tale fu il barone
Dominique-Vivant Denon. L’abbiamo ricordato a proposito di un breve
romanzo intitolato Point de lendemain che di recente è stato
stampato in pochi esemplari. Penso un po’ tardi che questo
racconto, che è un gioiello, è forse un gioiello indiscreto, da
conservare sotto chiave nelle librerie dei nostri onesti bibliofili.
Meglio non parlarne qui. Dirò soltanto che non condivido le
incertezze del nuovo editore che non sa se attribuire Point de
lendemain a Denon o a Dorat. Questo leggero capolavoro è di Vivant
Denon. Quérard e Poulet-Malassis non ne dubitavano.
Da Les amants, Lbb
di Franco Maria Ricci, 1973
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