Un’esistenza che ha
attraversato, a distanza variabile ma sempre ridotta dalle luci della
ribalta, i rivolgimenti storici alle origini della modernità - la
Rivoluzione del 1789, l’Impero napoleonico, la Restaurazione, la
Rivoluzione del luglio 1830, la monarchia borghese di Luigi Filippo -
per concludersi pochi mesi dopo la nascita della Seconda Repubblica,
nel 1848, all’età di ottant’anni, quasi per predestinazione
storica doveva assumere pienezza epica e aura eroica; doveva
rispondere a una vocazione alla rappresentatività: caratteri, tutti,
che s’ammantano d’un fascino desueto e quasi esotico in un’epoca
variamente contraddistinta, come la nostra, da una conclamata crisi
dell’esperienza. E infatti delle connotazioni retoriche,
monumentali, e diciamo pure solennemente cimiteriali, suggerite dal
titolo, l’autobiografia di François-René de Chateaubriand, le
Memorie d’oltretomba, non s’è mai liberata.
Libro della dismisura fin
dalle dimensioni esterne (più prossime alle duemila che alle mille
pagine), nasce come lascito testamentario di un uomo ambizioso e
opportunista; e quel titolo lo inscrive deliberatamente nella
tradizione della memorialistica aristocratica del Seicento e d'inizio
Settecento - quella illustrata dal cardinale di Retz e dal duca di
Saint-Simon -, rifiutando invece il modello, più prossimo nel tempo
ma ideologicamente aborrito, di Jean-Jacques Rousseau: Memorie,
dunque, e non Confessioni, per segnare il rifiuto sdegnoso (ma
segretamente contrastato) di ogni psicologismo intimista, per
rivendicare il diritto alla reticenza, e a una fiera focalizzazione
sul ruolo pubblico - prima letterario e poi politico - dell'autore,
il cui destino conta, innanzitutto, come sineddoche di quello di
un'intera nazione; e il cui giudizio sulle vicende storiche e sui
loro protagonisti, spesso fazioso, o tendenziosamente ambiguo, o
perfino miope, ma sempre pronto e denso di significati (Chateaubriand
è stato anche un grande giornalista), è esibito a ogni pagina.
Di fronte ai monumenti
delle patrie lettere, in Francia come in Italia, la sensibilità
novecentesca ha oscillato fra i poli opposti e complementari della
schietta iconoclastia e della valorizzazione paradossale. Così, se
per un verso, riprendendo giudizi sprezzanti che erano già di Zola,
molti hanno dichiarato pomposamente insopportabile l'opera tutta
dell’enchanteur (un po’ come da noi l'inimitabile’
d’Annunzio ha attizzato con naturalità le fiammate della parodia),
per un altro una tradizione critica illustre e ormai molto nutrita ha
cercato, spesso con ottime ragioni, la fragilità ambivalente
dell'uomo romantico dietro la prosopopea del paladino della
Restaurazione; ha riconosciuto i frequenti guizzi di irrequietudine
traditi dalle asimmetrie di un edificio solo in apparenza progettato
con pedante, mortuario rigore; e alle grandi campate della narrazione
ha contrapposto le riuscite folgoranti di singole pagine descrittive
(quasi poèmes en prose), facendo di Chateaubriand il
capostipite della prosa d’arte estetizzante: quasi che al gusto
novecentesco fosse possibile appropriarsi delle Memorie
d’oltretomba solo attraverso una selezione antologica, o una
fruizione deliberatamente a contropelo.
Così Roland Barthes si è
ingegnato a esaltare la forza disgregatrice degli anacoluti,
frequenti soprattutto nella tarda Vita di Rancé, capaci a suo
dire di stravolgere in frammentaria «paratassi impazzita» la prosa
del più classico, levigato e di norma ipotattico fra i narratori
ottocenteschi; così
Jean-Pierre Richard ha
letto, nell’horror vacui di una scrittura debordante di
fatti e giudizi, «una grande messa in scena dell'assenza», dove
l'ipocrisia magniloquente si rovescia in autenticità dell’esperienza
letteraria, e l'esibizione del grandioso non esclude il riscatto
poetico dell’infimo. Già Proust, d’altronde, aprendo la strada a
tutte le riletture attualizzanti, ammetteva il debito contratto dalla
celeberrima madeleine della Recherche con quella precoce
rappresentazione di una memoria involontaria che addirittura dà
l'abbrivo a tutta l'opera autobiografica di Chateaubriand: il canto
di un uccello che, nel luglio del 1817, evoca all’improvviso
nell’autore quasi cinquantenne il ricordo struggente dell’infanzia
prerivoluzionaria, nel castello bretone di Combourg. Non c’è
dubbio: le Memorie d’oltretomba hanno avuto in Italia sorte
tanto grama - sono state tradotte per la prima volta integralmente
solo nel 1995, nella «Plèiade» di Einaudi - anche perché questo
memorabile «magico suono», che echeggia dal ramo più alto di una
betulla nel parco di Montboissier, è il canto melodioso dell'acuta,
squillante, quasi dionisiaca grive. in italiano, nient’altro
che un opaco e ottuso tordo. Una figura della coscienza epifanica
centrale in tutto l'immaginario novecentesco non poteva essere
annunciata, di qua dalle Alpi, da un uccello portatore di ben più
prosaiche connotazioni comico-realistiche: imprevedibile autonomia
del significante, che vale da curioso contrappasso traduttivo, per
uno scrittore innamorato, forse più ancora che di se stesso, dei
valori fonici e timbrici della lingua.
In realtà, la critica
più recente, così come ha fatto giustizia delle opposizioni fra
Memorie e Confessioni (nel capolavoro di Chateaubriand
i due registri, l'uno esibito e l'altro sotterraneamente vagheggiato,
convivono in precario equilibrio) e fra ipocrisia e autenticità
(l’io autobiografico si dissolve, con attualissima
indeterminazione, nelle maschere che di volta in volta assume: quasi
un'autofiction), ha mostrato come la singola pagina, per coerenza o
per contrasto, acquisti senso e risonanza solo in dialogo con
l’architettura dell’insieme. Un’architettura oggi finalmente di
nuovo accessibile, dopo vari anni di assenza dai cataloghi, anche al
pubblico italiano: torna infatti, in nuova, sontuosa veste (sempre
einaudiana, ma nei «Millenni»), e con raffinati inserti
iconografici, l'impeccabile traduzione di Ivanna Rosi, Filippo
Martellucci e Fabio Vasarri, corredata dall’appassionata
Introduzione di Cesare Garboli, che nulla ha perso del suo smalto
propriamente giovanile - prima ancora che un saggio critico, è la
storia di una lettura, e della scoperta di un inopinato, avvolgente
plaisir du texte, capace di suscitare amore incondizionato per
uno scrittore «così reazionario, vanitoso, codino, menagramo».
[...]
Quella di Chateaubriand è
«l’autobiografia che nasce dal riscriversi, dal correggersi, dal
giustificarsi, dal chiarire e dal precisare a distanza di anni e di
decenni le proprie posizioni intellettuali e politiche, dal discutere
le critiche, i successi, gli insuccessi, dal discutere le
discussioni, insomma quel genere di verifica ininterrotta delle idee
proprie e degli altri» che si fa Storia, anche grazie al «gusto
acre, quasi cattivo, di trattare la propria lingua come una lingua
morta». Garboli licenzia queste righe, a metà anni Novanta, a
ridosso della scomparsa di un intellettuale e poeta che aveva fatto
della «verifica» (dei poteri) il suo emblema, e della «sublime
lingua borghese», «più morta di un inno sacro» il suo strumento
espressivo: piace intuire che il suo ritratto di Chateaubriand sia
segreto, paradossale omaggio, ancora oggi d’inattuale attualità, a
Franco Fortini.
“alias domenica - il manifesto”, 27
gennaio 2015
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