Matteo Maria Boiardo |
«L'Innamorato
è un racconto che non finisce, perché non può finire». È una
frase, sorprendente e enigmatica, che ho sentito una volta da Marco
Praloran, trai massimi esperti di poema cavalleresco, in occasione
dell'uscita dei suoi ultimi studi su Boiardo e Ariosto (Le
lingue del racconto, 2009). Lo
diceva prima che la malattia gli impedisse di finire il suo, di
racconto. È bello ora vedere come gli studi di Praloran sulla lingua
e sull'organizzazione narrativa dell'Innamorato
siano stato ben messi a frutto da Andrea Canova, nel nuovo commento
al poema: Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato
((BUR, 2 volumi). Tra i punti forti dell'edizione, che ne raggiunge
altre due in versione economica (una curata da Bruscagli, l'altra da
Giuseppe Anceschi), ci sono appunto l'ampiezza dell'aggiornamento
bibliografico e l'adozione (sia pur 'dialettica') del testo critico
allestito da Antonia Tissoni Benvenuti e Cristina Montagnani
(Ricciardi, 1999).
Come
e perché la narrazione boiardesca non possa finire è uno dei tanti
misteriosi paradossi che la rendono affascinante: non a caso, la
‘traduzione' contemporanea del poema (L'Orlando
innamorato raccontato in prosa,
1994) la dobbiamo a un narratore - Gianni Celati - che più di ogni
altro sa come avanzare per i campi sconfinati e le nebbie
illusionistiche della finzione. Ma anche su altri aspetti del poema,
legati per esempio alla sua storia compositiva, restano dubbi più o
meno consistenti. «Innanzitutto - spiega Canova nell'ottima
Introduzione- non è
affatto chiaro quando il poeta iniziasse la composizione del suo
capolavoro»: intorno al 1476, come vuole l'ipotesi più diffusa,
quando cioè Boiardo aveva già concluso il suo canzoniere (gli
Amorum libri tres), o
circa un decennio prima? Controversa è anche la cronologia relativa
dei primi due libri, resa difficile dalla combinazione di due
fattori: la penuria di diretti riferimenti a fatti storici e la lunga
durata che la stesura del poema deve aver richiesto. Per non parlare
dei rapporti con un altro campione del genere, il Morgante
di Pulci, vexata quaestio
che ha opposto studiosi illustri e su cui Canova fa il punto con
autorevolezza.
Ma
l'incertezza più significativa e vistosa è quella che ci coglie
alle soglie del racconto: qual è infatti il vero titolo del
capolavoro di Boiardo? L'edizione porta una doppia titolazione,
aggiungendo il più corretto L’inamoramento di Orlando
(presente in quasi tutti i documenti antichi e definitivamente
riaccreditato proprio dall'edizione ricciardiana) al tradizionale
Orlando innamorato
(pure attestato nelle rubriche che precedono il secondo e il terzo
libro).
Dal
punto di vista di noi contemporanei, quella del titolo non è solo
questione da eruditi, ma la forma concreta di due diverse posizioni
ideali, entrambe legittime, rispetto alla letteratura: la
consuetudine e la filologia. Servono tutte e due, per riconoscere e
amare un classico. La consuetudine è quella dei lettori assuefatti
all'Innamorato, tanto
come opera a sé quanto come 'primo tempo' di una storia compiuta nel
Furioso (anche di qui
il calco di un titolo sull'altro, l'inevitabile influenza dell'opera
più recente e importante che stinge su quella più antica). Una
specie di familiarità di cui ha parlato ancora Celati, nella
premessa al suo Orlando
in prosa: «in Boiardo troviamo quel senso della lingua nativa che
avevamo da bambini, quando non c'era differenza tra italiano e
dialetto... qualcosa che mi riporta sempre alle emozioni della vita
in famiglia».
La
filologia, invece, è quella dei lettori specializzati, che hanno il
compito e il merito di collocare l'opera sulla base delle coordinate
più attendibili, chiarendo per esempio che «osservare
L'inamoramento de Orlando dalla
specola dell'Orlando furioso»
non è tanto corretto quanto lo è «riprodurre lo sguardo di un
poeta e dei suoi lettori di fronte al romanzo cavalleresco tra gli
anni Sessanta e Settanta del Quattrocento». Il tempo, la storia
valgono per entrambe le categorie di lettori, ma il moto degli uni e
quello degli altri, pur oscillando sempre tra passato e futuro, non
procede nella stessa direzione. Viene da pensare all'erranza degli
stessi paladini boiardeschi e ariosteschi o, ancora di più, alla
complessa temporalità dei poemi in cui il gioco degli incastri tra
le vicende dei diversi personaggi crea l'effetto di un tempo che, nel
progredire, sembra invece scorrere all'indietro. Del resto, è lo
stesso Boiardo a consentire, nel finale del poema, che l'urgenza del
presente irrompa nel passato assoluto dei cavalieri: «Mentre che io
canto, o Dio redemptore, / Vedo la Italia tutta a fiamma e a foco /
Per questi Galli, che con gran valore / Vengon per disertar non sciò
che loco». Il riferimento è alla discesa di Carlo VIII in Italia (
1494), che offre al poeta una conclusione provvisoria, lo spunto per
un memorabile decoupage
narrativo. In un certo senso, se «contemporaneo è colui che riceve
in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo»
(Agamben), perfino Boiardo è anche un autore ‘contemporaneo'.
Tra
i meriti di Canova c'è quello di aver conciliato le due prospettive,
fin nella scelta del testo da proporre: il modello, come si è detto,
è quello di Tissoni Benvenuti-Montagnani, da cui Canova però si
discosta, facendo «qualche concessione alla norma attuale per
semplificare il compito» ai lettori che non conoscono gli usi
grafici degli incunaboli settentrionali. Inoltre, dove la tradizione
lo permetteva, Canova restituisce un assetto regolare ai versi
irregolari o anomali accolti nel testo critico. Rischi calcolati o,
se vogliamo, arbitri ben temperati da un guadagno in termini di
leggibilità da cui un'edizione divulgativa non può prescindere.
Anche
il commento è ispirato a un analogo criterio di equilibrio,
costruito com'è da un lato per non prevaricare l'opera imponendogli
il peso di una struttura interpretativa specialistica; dall'altro
perché il piacere ingenuo della lettura si concili con il primo
diritto-dovere che vincola il commentatore al lettore: la
comprensione letterale del testo. Preceduti da un cappello
introduttivo che funziona come sommario e mappa narrativa delle
vicende, i vari canti sono infatti annotati, a piè di pagina, con
discrezione interpretativa e puntualità esplicativa (a vantaggio,
per esempio, degli studenti di un corso universitario). Puntualità
che, talvolta, confina con l'eccesso di zelo: utili le note che danno
conto delle differenze morfologiche tra le parole di Boiardo e gli
equivalenti toscani, ben calibrate le parafrasi, ma superflue certe
chiose. È necessario spiegare 'Levante' con 'Oriente', o 'soffire'
con 'sopportare'? Non saprei, ma certo è un segno di sfiducia - non
sempre immotivata- nelle risorse dei destinatari, che meriterebbe
altrove una riflessione sullo stato della lingua e sui mezzi per
insegnarla. D'altra parte, qualche riscontro intertestuale in più
non avrebbe stonato nell'insieme, anche per dare il senso della
dialettica culturale e linguistica che agisce dentro il poema
cavalleresco. Una dialettica che coinvolge, ora con intenzioni
allusive ora in un più generico rapporto di interdiscorsività tanto
la tradizione quanto l'eredità che l’Innamorato
trasmette agli ultimi capolavori del genere letterario. Nella
possibilità di riconoscere tali rapporti sta una parte del piacere e
del divertimento. E sta anche una delle ragioni per le quali il poema
non finito di Boiardo è davvero un racconto senza fine.
“Alias
domenica – il manifesto”, 4 marzo 2012
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