Io, tutto sommato, sono
stata fortunata», mi dice Marina, 44 anni, di Milano. «Quando mi
hanno diagnosticato un tumore al seno, a 36 anni, lo stavo
aspettando. La mia unica paura era non individuarlo in tempo». I
test genetici di Marina avevano segnalato una specifica mutazione
genetica che alza le sue probabilità di sviluppare la malattia fino
al 60 per cento.
«Ho deciso di farmi
togliere entrambi i seni. Ho avuto fortuna perché non ho dovuto
subire lo svuotamento ascellare e grazie alla mia muscolatura da
sportiva hanno potuto mettermi subito le due protesi definitive,
senza dover inserire prima l'espansore».In un solo intervento di
mastectomia bilaterale, Marina si è liberata (quasi del tutto)
dell’angoscia del tumore e ha fatto la ricostruzione del seno. «Per
me era importante guardarmi allo specchio e trovare un’immagine
simile a quella di prima, anche se come prima non tornerai più,
perché le cicatrici restano per sempre».
Le cicatrici sono
diventate la bandiera della vittoria di tutte quelle donne che invece
hanno deciso che la ricostruzione non la vogliono fare. «Non è il
seno a fare di me una donna!», è il loro grido di battaglia.
Complici i social
network, quelle che erano scelte vissute in solitudine sono diventate
condivise, e queste donne, negli Stati Uniti, si sono riunite in un
vero movimento, Going Flat (che si può forse tradurre
“restare piatte”), che rivendica la libertà di non sottoporsi al
lungo procedimento che porta alla ricostruzione del seno dopo una
mastectomia, opzione data per scontata dalla maggior parte dei
chirurghi come esito del processo terapeutico di un tumore alla
mammella.
I motivi del rifiuto sono
molti e comprensibili: la ricostruzione nella maggior parte dei casi
richiede un secondo intervento a distanza di circa sei mesi da quello
di rimozione del seno, magari dopo essere anche state sottoposte alla
radioterapia. A seguire, si va incontro a un processo di
aggiustamenti chirurgici che può durare anche due anni e più, e non
sempre le cose vanno bene: si rischiano complicanze fastidiose,
quando non dolorose e menomanti. Senza contare che anche
simbolicamente la ricostruzione del seno significa inserire dentro di
sé un nuovo corpo estraneo dopo che ce n’è già stato uno tanto
spaventoso, il tumore. Sottoporsi alla ricostruzione, insomma, per
molte donne significa non chiudere mai il cerchio terapeutico, non
arrivare a mettere la parola fine a un’esperienza devastante come è
quella di un tumore. In nome di che cosa? Per sentirsi di nuovo
donne? «Quella che esige la ricostruzione, è una visione della
femminilità connessa a una sessualità nel senso paradossale e
biologico del termine: sei una donna soltanto se hai il seno, così
come sei una mamma solo se hai partorito realmente», fa notare
Michela Fusaschi, docente di Antropologia culturale all’Università
degli Studi Roma Tre.
Qualche settimana fa il
“New York Times” ha dedicato alle donne di Going Flat un
lungo articolo, a conferma di come la scelta di restare senza seno
faccia scandalo al punto di doverla rivendicare con forza e orgoglio,
al punto di decidere di esporre il proprio corpo ferito sul giornale
più noto degli Stati Uniti, su Facebook e durante vere e proprie
manifestazioni nelle piazze.
Lo scandalo nasce dalla
rinuncia a qualcosa che nella cultura occidentale è stato sempre
legato alla femminilità e alla sensualità. Perché se una donna
sceglie di restare piatta nonostante abbia la possibilità di riavere
le curve crea una crepa intollerabile nell’immaginario. «Tanto più
che ormai non basta avere il seno, ma bisogna averlo come la medicina
estetica dice che deve essere: alto, sodo, rotondo. In una parola,
perennemente giovane», fa notare l’antropologa Fusaschi. «Oggi i
canoni di bellezza sono sempre più connessi all’immaginario della
salute, anzi della giovinezza come sinonimo di salute. Ecco perché
la scelta di accettare il proprio corpo mutilato e addirittura di
esporlo è sconvolgente».
I dati americani
confermano che quella di chi si riconosce nel movimento Going Flat
è una scelta controcorrente: anno dopo anno, le ricostruzioni
del seno dopo una mastectomia sono cresciute e dal 2000 al 2015 sono
aumentate del 35 per cento.
E in Italia? Dati sulle
ricostruzioni non ce ne sono, ma va detto che la realtà italiana ed
europea ha caratteristiche in parte diverse da quella statunitense.
«Da noi l’incidenza della mastectomia, soprattutto bilaterale, è
nettamente inferiore. Preferiamo un approccio conservativo, quindi
con asportazione parziale della mammella tutte le volte che è
possibile», fa notare il dottor Secondo Folli, primario di Senologia
all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Ecco perché il
problema della ricostruzione qui si pone molto meno e non ha dato
vita a movimenti analoghi a quello di Going Flat. «Se negli Stati
Uniti l’intervento di ricostruzione, a giudicare dall’articolo
del “New York Times”, viene quasi imposto – ma immagino ci
siano dietro fattori economici legati alle assicurazioni – da noi è
proposto quando possibile, ovvero nel 70 per cento delle mastectomie,
e poi discusso con la paziente. Secondo la mia esperienza, a
rifiutare la ricostruzione sono solo il 5, massimo il 10 per cento
delle donne, per lo più anziane, che non vogliono avere
problematiche aperte dopo la malattia. Da noi, poi, anche la
ricostruzione, non solo l’asportazione della mammella, è
interamente pagata dal Servizio Sanitario Nazionale».
Una differenza
fondamentale riguarda nello specifico la mastectomia bilaterale
profilattica, che in America è eseguita con molta più disinvoltura
che in Italia. Da noi ci sono precise linee guida ed è un'opzione
indicata solo se c’è una mutazione genetica ben documentata, che
di norma è riscontrata solo nel 2 per cento della popolazione.
«La mastectomia
bilaterale a scopo preventivo è un intervento ancora molto di
nicchia. E ho visto che, quando è proposta, è proprio il fatto che
sia possibile ricostruire le mammelle a incoraggiare le donne a
scegliere di farla, anche perché in questi casi spesso la
ricostruzione può essere eseguita durante lo stesso intervento di
rimozione», ci dice la dottoressa Claudia Borreani, psiconcologa e
responsabile della Struttura di Psicologia clinica dell’Istituto
Nazionale dei Tumori di Milano. È più frequente, invece, la
necessità di fare la mastectomia di una sola mammella. In questo
caso, la ricostruzione va anche a risolvere la gestione di
un’asimmetria che ha forti ripercussioni psicologiche.
«Io mi vedevo storta,
sentivo che c’era un pezzo che mi mancava», conferma Silvia, 40
anni, di Roma. «Ero rimasta senza un seno dopo due anni in cui avevo
subito ben quattro interventi per sistemare una ricostruzione che non
si era mai stabilizzata. Quando mi hanno diagnosticato il tumore
avevo 33 anni, i chirurghi hanno dovuto asportarmi la mammella ma non
volevano lasciarmi senza seno perché ero giovane e mi hanno messo
subito l’espansore, che andava riempito a poco a poco fino a
raggiungere la dimensione dell’altro mio seno. In quell’occasione
non avevo praticamente scelto, era stato deciso tutto mentre ero
sotto i ferri. Dopo qualche mese la protesi aveva raggiunto le
dimensioni volute, ma non è mai stata a posto, è stato un tormento,
un susseguirsi di interventi per sistemare le continue magagne. Dopo
due anni ho preso in mano la situazione e mi sono fatta levare
tutto». Silvia è rimasta tre anni e mezzo senza un seno, usava una
protesi esterna, scomoda e fastidiosa e non riusciva più a guardarsi
allo specchio perché l’asimmetria è difficile da accettare. Con
calma, dopo tre anni ha deciso di riprovare a fare una ricostruzione,
ha cercato un nuovo centro medico dove ha trovato una chirurga
plastica che l’ha capita e seguita in un confronto continuo. Oggi
ha un seno nuovo. «Ora va bene, preferisco sempre la mia vera
mammella che è morbida e naturalmente mobile, mentre questa è
bionica, rigida. E poi non è ancora finita, dovrei fare ancor un
piccolo intervento per ricostruire areola e capezzolo... Ma vedremo,
ora mi sono accettata ed è questo che conta. Non la bellezza».
Silvia fa parte di Pagaie
Rosa, una delle tante associazioni nate per dare sostegno
psicofisico alle donne operate per un cancro al seno. Sono gruppi
che, in questo clima culturale di grande enfasi sui valori estetici,
combattono una battaglia importante: dare la forza a chi è stata
malata e ne porta i segni a non vergognarsi della propria condizione.
«Iniziative come quelle del movimento Going Flat o delle altre
associazioni permettono alle donne di scegliere davvero», fa notare
la dottoressa Borreani. «Se in una società è accettata solo la
perfezione, in qualche modo una donna non ha scelta e non ha vie di
uscita. Se invece ti viene proposto anche un modello che permette di
considerare le ferite come segni di una vittoria allora, di fronte a
diverse opzioni su come gestire il tuo corpo, puoi scegliere
davvero». Per te stessa e non per accontentare lo sguardo degli
altri. «Una volta, quando ero ancora senza un seno, un ecografista
mi ha chiesto perché mai volevo fare la ricostruzione visto che
tanto il marito ce l’avevo. Sono rimasta senza parole. Che cosa
c’entrava? Io il seno lo rivolevo per me, non per sedurre gli
uomini. A me mancava qualcosa e volevo una qualità di vita migliore.
Ma capisco bene anche le donne di Going Flat. Ognuna sceglie
il suo percorso e resterà sempre una donna a tutto tondo. Che abbia
il seno oppure no».
Pagina 99, 3 dicembre
2016
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