Quello che segue è l'incipit di un libro di storia bello e importante, Un'odissea partigiana di Franzinelli e Graziano: ne rappresenta la premessa narrativa. Il libro infatti racconta, con il corredo di una documentazione ricca e varia, la vicenda di alcuni partigiani passati dalla Resistenza al carcere e da lì al manicomio giudiziario di Aversa, una vicenda in sé interessante e per di più ricca di implicazioni. (S.L.L.)
Nel secondo dopoguerra vengono
arrestate diverse centinaia di ex partigiani, per episodi commessi
nella lotta clandestina oppure successivi alla cessazione dei
combattimenti. Durante l'occupazione tedesca e la lotta di
liberazione si verificarono molti casi di “giustizia sommaria”,
contro civili sospettati di spionaggio o comunque invisi ai
“ribelli”, e svariate uccisioni di aderenti alla Repubblica
sociale italiana, alla spicciolata, secondo le modalità della
guerriglia. Episodi tragici, da inquadrarsi nello scenario bellico
imboccato da Mussolini, degradato in guerra civile nell’autunno
1943 con la nascita della Repubblica sociale italiana, nella spietata
repressione nazista e dei collaborazionisti di Salò, con il
massiccio ricorso a deportazioni, torture, rappresaglie, fucilazioni,
eccidi.
Il ritorno alla pace è turbato da
vendette e ritorsioni che da sempre accompagnano la caduta delle
dittature, epilogo di sanguinosi scontri intestini. Dopo mesi di vita
alla macchia, è difficile tornare d’un tratto alla normalità,
stante l’impatto traumatico della guerra su tanti giovani
"ribelli”, che reagiscono a loro modo - anche con derive
estremiste e giustizialiste - a gattopardismi e restaurazioni.
L’Italia è al bivio tra rinnovamenti
radicali e ripristino di vecchi apparati. Alle spinte iniziali
corrispondono crescenti reazioni autodifensive di strutture e
funzionari statali. In pochi mesi si infrangono, per poi ricostruirsi
miracolosamente, prestigiose carriere. Il tracollo della
democratizzazione della polizia è personificato dall'ex capo
dell’Ovra, Guido Leto, destituito e riabilitato dopo un fugace
soggiorno a Regina Coeli, infine promosso direttore tecnico delle
Scuole di polizia. In compenso, i partigiani immessi negli organici
all’indomani della Liberazione ne sono presto allontanati. Si perde
così l’occasione di riformare l’apparato fondamentale di
controllo e garanzia dell’ordine pubblico.
Nel 1946, a essere epurati sono i
prefetti nominati dal Comitato di liberazione nazionale, rimpiazzati
dai “fidati” funzionari di carriera, già zelanti esecutori delle
direttive mussoliniane. Rimane provvisoriamente in carica il solo
Ettore Troilo, la cui rimozione, il 28 novembre 1947, determinerà
l’occupazione della prefettura di Milano da parte di manifestanti
capeggiati dal deputato comunista Gian Carlo Pajetta.
La discontinuità tra dittatura e
democrazia è insomma attutita dalla riemersione di personaggi che si
pensava dovessero uscire di scena con la sconfitta fascista.
Nella transizione dal regime
mussoliniano a quello democratico - osserva Vladimiro Zagrebelsky -
l’ordinamento giudiziario e l’orientamento culturale dei suoi
componenti sono caratterizzati dal predominio della Corte suprema di
cassazione, decisiva anche per la selezione dei giudici. Cassazione e
Corte d’appello si confermano strumenti di gestione
autocratico-conservatrice della magistratura: la direzione della
macchina processuale spetta a personaggi forgiatisi culturalmente e
professionalmente nel regime, da essi convintamente servito e nel
quale si immedesimarono, ricavandone privilegi e potere.
A marzo del 1946 le pratiche di
epurazione per l’ordine giudiziario dell’Alta Italia denotano un
clamoroso fiasco: su 1248 istruttorie si dispongono 24 dispense... E
a Roma le cose vanno, se possibile, ancora peggio.
Il sistema giudiziario rimane quello
forgiato nel Ventennio; le carriere dei giudici fotografano
l’inamovibilità dei vertici della magistratura.
Vincenzo Eula - il pubblico ministero
del Tribunale di Savona che nel 1927 aveva fatto condannare Ferruccio
Parri, Sandro Pertini e Carlo Rosselli per l’espatrio di Filippo
Turati - scansata l’epurazione (invocata dal ministro della
Giustizia Togliatti, negata dal presidente del Consiglio De Gasperi),
diviene procuratore generale della Cassazione.
Luigi Oggioni, già procuratore
generale della Repubblica sociale italiana, nel dopoguerra sarà
presidente della Corte di cassazione e poi giudice della Corte
costituzionale.
L’artefice della legislazione
antiebraica della Rsi, Carlo Alliney, capogabinetto all’Ispettorato
della razza, è promosso consigliere di Corte d’appello a Milano,
procuratore della Repubblica a Palermo e infine giudice di
Cassazione. Va ancora meglio all’ex presidente del Tribunale della
razza, Gaetano Azzariti, destinato addirittura alla presidenza della
Corte costituzionale.
Il fallimento dell’epurazione si
accompagna alla disapplicazione dell’amnistia emanata nel novembre
1945 per i partigiani. “Le leggi contro il fascismo - osserva il
giurista Achille Battaglia - furono interpretate secondo la volontà
del legislatore soltanto quando la forza politica dell’antifascismo
toccò il vertice; e furono interpretate alla rovescia, e applicate
con il massimo d’indulgenza man mano che quella andò declinando.”
Guido Neppi Modona ritiene che “la repressione antipartigiana si
realizzò soprattutto mediante un uso molto vasto e spregiudicato
della carcerazione preventiva; gli ordini di cattura venivano sovente
emessi sulla base dei soli rapporti redatti anni prima dalla polizia
della Repubblica di Salò, dove i partigiani erano appunto
qualificati come banditi, autori di reati comuni”.
Il 22 giugno 1946 le esigenze di
pacificazione nazionale si concretizzano nell’amnistia Togliatti.
La sua applicazione estensiva e selettiva da parte di molti giudici
(sensibili alle direttive della Cassazione) giova anzitutto ai
fascisti, che ne beneficiano generosamente. Le sevizie
particolarmente efferate, previste quale circostanza ostativa,
sono aggirate con interpretazioni pirotecniche e sottili
disquisizioni dottrinarie sull’essenza della tortura. Nemmeno
l’omicidio e la strage rappresentano una barriera invalicabile per
gli imputati in camicia nera... La spietata giustizia sommaria dei
giorni della Liberazione è rimpiazzata dal perdono sommario,
metodico e generalizzato.
In riferimento all’eccidio delle
Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944, nel giro di un biennio vengono
amnistiati sia il commissario di ps Raffaele Alianello, che fornì ai
tedeschi la lista di cinquanta detenuti politici da fucilare, sia i
delatori di decine di antifascisti venduti ai tedeschi e trucidati
nelle cave alla periferia di Roma. Ciò risulta dall’“Elenco
nominativo di imputati, delatori di martiri fucilati alle Fosse
Ardeatine che hanno beneficiato del recente decreto di amnistia”,
redatto a inizio luglio 1946 dal gabinetto del ministero di Grazia e
Giustizia per il guardasigilli Togliatti.
Liberazioni scandalose si coniugano con
il mancato accertamento giudiziario di gravi reati, determinando -
oltre alla denegazione della giustizia - enormi vuoti conoscitivi,
che deformeranno la percezione delle responsabilità per i lutti del
1943-45. Vuoti che la storiografia non ha colmato e sui quali si è
costruita la vulgata sul “sangue dei vinti”.
Il 30 giugno 1946, a otto giorni dall'emanazione, l’amnistia Togliatti è stata applicata a 7106 fascisti e a 153 partigiani. La giustizia della neonata Repubblica italiana, con una mano rialza i collaborazionisti, con l’altra percuote i partigiani.
Il 30 giugno 1946, a otto giorni dall'emanazione, l’amnistia Togliatti è stata applicata a 7106 fascisti e a 153 partigiani. La giustizia della neonata Repubblica italiana, con una mano rialza i collaborazionisti, con l’altra percuote i partigiani.
da Un'odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Feltrinelli, 2015
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