7.2.17

Joyce Lussu. Una vita per ...! (Silvia Ballestra)

La prima volta che ho letto il nome di Joyce Lussu è stata alle scuole elementari: avevamo una sua famosissima poesia stampata nel sussidiario, Scarpette rosse, e la nostra maestra la leggeva spesso provocando i pianti commossi di molti bambini. La poesia parlava di un paio di scarpette rosse nuove di zecca, numero 24, lasciate sopra un mucchio di altre scarpette fuori da un forno di Buchenwald. La sapevo quasi a memoria perché i versi erano semplici e ti si imprimevano facilmente in testa. Era proprio quello che voleva Joyce: una poesia che fosse utile, come le aveva insegnato il grande poeta turco Nazim Hikmet, e comprensibile a tutti, anche agli analfabeti e ai più piccoli.
Più avanti, sentii parlare di Joyce in casa. Le nostre famiglie anglomarchigiane si erano incrociate a metà dell'Ottocento e molti parenti di papà erano assai critici nei suoi confronti. Addirittura severi, quasi avessero timore di una persona che non erano mai riusciti a comprendere e conoscere davvero. Joyce era diventata grande, addirittura una grande vecchia: aveva sposato Emilio Lussu, aveva ricevuto una medaglia d'argento al valor militare per il suo ruolo nella Resistenza, aveva girato il mondo alla ricerca di poeti da tradurre, era stata invitata praticamente ovunque per parlare di pace, aveva scritto bellissimi libri di successo... ma tutto questo non era bastato a dissipare antiche ruggini familiari. Si parlava di lei come di una persona “scandalosa” in quanto femminista e rivoluzionaria, anticlericale e socialista con tendenze anarchiche; ci sentivi tanto insopportabile paternalismo e volgare maschilismo in certi giudizi anche maliziosi espressi non solo dentro la famiglia e non solo da ambienti di destra. Maliziosi perché Joyce era una donna dalla bellezza straordinaria: mi è capitato di vedere un programma Rai in cui all'intervista a Joyce ne seguiva una a Sharon Stone. Ebbene, Joyce era di gran lunga più bella della diva americana, perché agli occhi azzurri, ai lineamenti perfetti, al portamento aristocratico, aggiungeva lo spessore di una vita meravigliosa e un secolo di «pensiero materiale» assolutamente originale e straordinario, cosmopolita e profetico. Oltre a un carattere fortissimo e a un'aura tutta sua, fatta di poesia, storia, ironia, etica e saggezza.
Prima di incontrarla, avevo avuto modo di leggere i suoi libri pubblicati dalla Transeuropa e ascoltare certe sue telefonatacce molto urlate a Massimo Canalini (il nostro comune editor aveva il vizio di mettere tutti in vivavoce) che si rifiutava di ristampare l'ormai introvabile autobiografia fotografica Portrait. Quelle scenate mi avevano messo un po' paura perché Joyce si divertiva un mondo a litigare animatamente, strapazzando l'interlocutore senza remora alcuna (Canalini, poi, era il punchingball ideale). Con qualche patema, dunque, risposi alla sua «chiamata»: lei aveva letto il mio primo libro e aveva subito attivato una giornalista di San Benedetto che avrebbe fatto da autista e trait d'union. Così feci il mio ingresso nella sua casa di San Tommaso in una sera di novembre inoltrato, nel 1991. C'era un mucchio di gente, quella volta, donne di una certa età e qualche raro uomo che cercava di mimetizzarsi con la tappezzeria o darsi da fare come cameriere-barista-cuoco. Era palpabile la tensione, attorno agli sparuti maschi: quella sera Joyce stava discutendo di un suo progetto di libro collettivo e fotografico che doveva intitolarsi Streghe a fuoco, storie di donne da lei prescelte e fotografate dall'unico strega-maschio onorario, il fermano Raffaello Scatasta. Mi sentivo un po' gli occhi addosso: non quelli di Joyce, che era stata gentilissima e m'aveva subito messo a mio agio, piuttosto quelli degli altri che studiavano la ragazzetta loro conterranea baciata dalla fortuna grazie a un romanzo sui giovani punk pescaresi.
Comunque, quella prima sera fui invitata a prendere parte al libro (sempre edito da Transeuropa) e farmi fotografare a Bologna, dove vivevo all'epoca. Cominciò così una frequentazione abbastanza regolare di Joyce: ogni volta che tornavo nelle Marche, vale a dire abbastanza spesso, c'era modo di andare a trovarla, soprattutto durante l'estate. Ci andavo molto volentieri e alle occasioni “private” si aggiungevano quelle pubbliche: presentazioni comuni di libri a Macerata, Camerino, San Benedetto, Ancona, Bologna, Ascoli, Roma, Milano. Joyce era continuamente invitata in giro per l'Italia, soprattutto nelle scuole, a parlare della sua esperienza, e non diceva mai di no, anzi accettava sempre con grande entusiasmo e disponibilità anche se aveva ottant'anni suonati. Prendeva il treno o si faceva accompagnare in macchina da qualcuno che guidava, e partiva. Avevo nel frattempo pubblicato un secondo romanzo che le era piaciuto più del primo: si trattava de La guerra degli Antò e Joyce spendeva parole molto lusinghiere e gentili su quel testo che cercava di rendere conto d'un certo stupore e sdegno nei confronti delle bombe intelligenti, dei potenti guerrafondai, della propaganda via televisione.
Durante quelle presentazioni, Joyce mi mostrò come si parla in pubblico. Lei era una maestra assoluta. Aveva una eloquenza magnifica, era brillante, affascinante, coinvolgente. C'erano parole che ricorrevano sempre nei suoi discorsi ed erano parole pesanti: pace, civiltà, utopia, ambiente, politica, sfruttamento, colonialismo. Le parole devono avere un solo significato, diceva, non bisogna mai essere ambigui, non si può parlare di pace facendo la guerra, bisogna andare a vedere le cose alla radice: chi decide cosa è civiltà e cosa no?
Aveva tutte le sue storie da raccontare, le avventure che avevano vissuto durante la resistenza lei ed Emilio, e poi l'incontro coi poeti del cosiddetto “Terzo Mondo” che lei aveva conosciuto e tradotto, e ancora le sue teorie sulle Sibille, donne sapienti e depositarie d'una cultura antichissima fatta di egualitarismo e saggezza femminile, ma anche le riflessioni assai concrete su quel che c'era da fare subito per l'ambiente e un mondo più giusto ed equo. Recitava benissimo le poesie sue e dei suoi poeti, con una voce profonda e autorevole, con le pause giuste, e teneva testa a tutti. Se qualcuno le faceva una domanda provocatoria (di solito qualche cattolico meno illuminato o qualche fascistello confuso), lo rimetteva subito a posto, anzi lo radeva al suolo. Ma questo avveniva soprattutto con gli adulti, perché coi più giovani, invece, era molto paziente e generosa, così come lo era con me. Nonostante queste lezioni, non imparai a parlare come lei, ma un po' di sicurezza, in quei giri, riuscii ad acquistarla: mi riempio ancora oggi il collo di chiazze vermiglie, ma Joyce mi ha insegnato che da qualunque incontro nasce sempre uno scambio importante fra te e le persone che sono venute ad ascoltarti. La cosa che mi confortava di più è che Joyce dichiarava che in gioventù era stata timidissima e non apriva mai bocca: solo con gli anni e la pratica le era venuta fuori tutta quella verve (ma poi ammetteva che le sue brave litigate le faceva già con Benedetto Croce, lei diciottenne, lui già il grande filosofo!).
Con Joyce c'era sempre modo di discutere e discorrere di mille cose: ogni incontro con lei era proficuo e ti metteva addosso una gran voglia di imparare di più e meglio la storia, affrontandola da un'ottica diversa, e quindi erano tante le persone che la frequentavano e andavano a cercarla: insegnanti, intellettuali, studenti, editori, politici, scrittori.
Più d'una persona ha affermato che Joyce Lussu era il Novecento. Per me era sì il tempo (un secolo intero, e che secolo!), ma anche il mondo. Attraverso le sue parole potevi vedere le Marche delle signorine inglesi sue nonne arrivate a sposare i locali signorotti proprietari terrieri; la Svizzera delle scuole libertarie sorte dal Cabaret Voltaire e visitate da Bertrand Russell e Romain Rolland, che lei aveva frequentato dopo la fuga della famiglia; la facoltà di filosofia di Heidelberg che Joyce aveva deciso di abbandonare dopo il comizio di Hitler, delusa dalla mancata reazione dei suoi professori Jaspers e Rickert; di nuovo la Svizzera alla ricerca di mister Mill, alias Emilio Lussu, per la consegna d'un messaggio cifrato nascosto nel manico d'una valigia, con la loro prima notte insieme sotto le stelle; la Francia occupata dai nazisti, le dimore provvisorie in cui avevano condotto la loro vita clandestina militando in Giustizia e Libertà; il Portogallo, di nuovo l'Italia, le linee nemiche da attraversare per collegarsi ai liberatori che risalivano dal sud... E poi la Sardegna vissuta come compagna del mitico “capitanu” della brigata Sassari. E, dopo, la Turchia di Hikmet, l'Angola di Agostinho Neto, le marce nella foresta assieme alla guerriglia della Guinea-Bissau, il Kurdistan, e ancora le Marche, dopo la morte di Emilio.
Verso la fine del 1993, su suggerimento di Massimo Canalini, decidemmo di raccogliere le nostre conversazioni registrandole su nastro: io avrei posto a Joyce delle domande sulla sua vita e sul suo pensiero e lei avrebbe rievocato la sua storia pur avendola già scritta in almeno due libri importanti (il romanzo Fronti e frontiere e Portrait). Il lavoro durò due anni. Mi presentavo a San Tommaso con un registratore e delle scalette, intere serie di domande che tentavano di seguire un ordine cronologico, ma presto questo procedimento si rivelò abbastanza impraticabile. C'erano giorni in cui Joyce mi assecondava, altre volte diceva quel che più le premeva, argomenti sui quali stava riflettendo, magari suggeriti dalle varie occasioni in cui era via via chiamata a intervenire. A me andava benissimo: quel che mi ripeteva della sua vita, anche se l'avevo letto centinaia di volte, l'avrei volentieri risentito altre cento, e per quanto riguardava le cose nuove, meglio, perché Joyce ultimamente non aveva più scritto molto. Lavoravamo qualche ora, poi arrivavano amici per cena e allora Joyce preparava i suoi famosi minestroni biologici, squisiti, affettava del ciauscolo, e faceva disporre in tavola del pecorino e del pane. Io riempivo cassette da 90 minuti e le mettevo via scrivendo le date sulle costine, pensando che un giorno le avrei sbobinate con comodo.
Joyce mi raccontò del suo quotidiano. Come si conquista un uomo che è una leggenda - Emilio Lussu aveva ventidue anni più di lei e i giovani militanti lo adoravano per le sue gesta, prima fra tutte la fuga da Lipari. Come si fa la resistenza - Joyce, oltre a trasformarsi in falsaria aiutando a fuggire centinaia di perseguitati via Marsiglia, aveva anche fatto un suo servizio militare in Inghilterra e partecipò a diverse missioni assai rischiose. Come si diventa madre - il piccolo Giovanni nacque nel 1944 nella Roma appena liberata. Come si fanno evadere dalla Turchia la moglie e il bambino di Nazim Hikmet. Come si ricordano i morti - il mazzo di fiori freschi in fondo alla tavola era sempre per la mamma, altra donna straordinaria. Come ci si comporta all'interno di una coppia quando si è maturi e leali. Come si studia e come ci si forma (quando mi suggerì di scrivere la tesi di laurea su Louise Michel, rivoluzionaria della Commune, “obbedii” con grande soddisfazione mia e dei miei professori). Come si coltiva un'amicizia. E altri mille dettagli della vita di una persona che è stata anche una bravissima scrittrice compagna di uno scrittore.
Ecco, allora, la scrittura. Mentre Joyce mi insegnava a pensare ai tanti argomenti che sono poi divenuti qualche anno dopo i fondamenti del movimento noto come "no global" (occhi ben aperti sul mondo, per intendersi, battendosi contro ogni forma di sopruso e distruzione dell'ambiente), c'erano da leggere le sue pagine. Le sue, quelle di Emilio, e quelle di Hikmet. Erano pagine scritte in uno stile impeccabile. Modernissimo, con dialoghi essenziali e un movimento, spesso, come si dice, «cinematografico». Aveva ragione lei: Fronti e frontiere iniziava come un film e non si capisce come ancora nessuno abbia deciso di lavorare a una riduzione cinematografica di quel testo pressoché unico nel suo genere. Poi c'erano i suoi libri di saggistica: libri dove rileggeva la storia delle donne, anticipava il problema dell'acqua, studiava il modello delle comunanze picene, spiegava il suo personalissimo metodo di traduzione anche da lingue che non conosceva, come il turco. E infine le poesie. Nel suo Inventario delle cose certe ci sono poesie d'amore, poesie politiche, poesie partigiane. Ci sono le poesie assai giovanili che Benedetto Croce aveva voluto pubblicare e tradurre (alcune sono in tedesco, altre in francese) nel 1939 per Ricciardi. C'è Scarpette rosse. E c'è quella che più le era cara La luna si è rotta, che parla delle donne di ieri e di oggi.
Alla fine del 1996 il nostro libro intervista era pronto. Joyce L. uscì da Baldini e Castoldi con un sottotitolo che riprendeva il film di Rosi tratto da Un anno sull'altipiano e che a Joyce non piacque affatto: “una vita contro”. “La mia vita non è mai stata una vita contro!”, protestò diverse volte con me. “Semmai”, diceva, “la mia vita è stata per!”. Era vero, Joyce aveva sempre lottato coraggiosamente ma in una prospettiva gioiosa. Per un futuro più luminoso, per una vita più giusta per tutti, per un mondo senza guerre. Comunque era soddisfatta del lavoro ed eravamo pronte a fare un gran giro di incontri. Purtroppo, proprio in quel periodo, Joyce, a causa d'una caduta in strada, si ruppe un femore. Gli occhi, poi, che erano malati da qualche anno, andavano sempre peggio. Nonostante questo, riuscimmo a fare due presentazioni molto affollate e intense a Roma e a Milano perché, naturalmente, Joyce non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
Da quel momento, però, ebbe sempre bisogno di assistenza e i giri divennero più complicati. La rividi ancora nella sua casa di Roma dove ero andata a raccogliere, col solito metodo del registratore, una sua introduzione a una nuova edizione de Il turco in Italia ovvero l'italiana in Turchia, e poi, un'ultima volta, a San Tommaso. La sentivo al telefono e commentavamo i fatti della politica e del mondo.
Poi, una sera di novembre del 1998, Joyce, che m'aveva chiamata due giorni prima dall'ospedale senza dirmi che stava male, se ne andò. Lo appresi il mattino dopo, prestissimo, al telefono, nel modo più scioccante. Una giornalista di Radio Popolare mi chiese se avevo voglia di parlare della Lussu: certo, sempre volentieri, non c'era nulla di strano, capitava spesso che ci domandassero interventi "reciproci" e poi il nostro libro era ancora fresco di stampa. Passò qualche secondo di tempo tecnico per avviare la registrazione e mi venne posta una domanda all'imperfetto. Non capivo, davvero: se c'era un tempo per parlare di Joyce, be', era proprio il presente.
Sono già passati quasi sei anni da allora e di Joyce si sente moltissimo la mancanza. Continuo a rileggere i suoi lavori, le sue poesie, e ci trovo sempre nuovi insegnamenti (“la letteratura occidentale è permeata di pessimismo, morte, solitudine, noia, eppure basta guardarsi in giro per trovare allegria e umanità...”). Mi è anche capitato di risentire qualcuna di quelle cassette con la sua voce tonante e il fruscio del vento fra il bambù di San Tommaso sullo sfondo. Certe volte mi sorprendo a scrivere parole che so di aver ascoltato da lei o letto nelle sue pagine, e allora sorrido. Questa è Joyce, penso.
Il 15 febbraio del 2003, il giorno della grande manifestazione a Roma contro la guerra in Iraq, sono finalmente riuscita ad andare a vedere dove Giovanni Lussu ha sistemato le ceneri di Emilio e Joyce. Sono al cimitero degli Inglesi al Testaccio, un luogo bellissimo ove riposano tanti poeti e scrittori, poco distanti dalla tomba di Gramsci.


l'Unità, 27 agosto 2004

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