La prima volta che ho
letto il nome di Joyce Lussu è stata alle scuole elementari: avevamo
una sua famosissima poesia stampata nel sussidiario, Scarpette
rosse, e la nostra maestra la leggeva spesso provocando i pianti
commossi di molti bambini. La poesia parlava di un paio di scarpette
rosse nuove di zecca, numero 24, lasciate sopra un mucchio di altre
scarpette fuori da un forno di Buchenwald. La sapevo quasi a memoria
perché i versi erano semplici e ti si imprimevano facilmente in
testa. Era proprio quello che voleva Joyce: una poesia che fosse
utile, come le aveva insegnato il grande poeta turco Nazim Hikmet, e
comprensibile a tutti, anche agli analfabeti e ai più piccoli.
Più avanti, sentii
parlare di Joyce in casa. Le nostre famiglie anglomarchigiane si
erano incrociate a metà dell'Ottocento e molti parenti di papà
erano assai critici nei suoi confronti. Addirittura severi, quasi
avessero timore di una persona che non erano mai riusciti a
comprendere e conoscere davvero. Joyce era diventata grande,
addirittura una grande vecchia: aveva sposato Emilio Lussu, aveva
ricevuto una medaglia d'argento al valor militare per il suo ruolo
nella Resistenza, aveva girato il mondo alla ricerca di poeti da
tradurre, era stata invitata praticamente ovunque per parlare di
pace, aveva scritto bellissimi libri di successo... ma tutto questo
non era bastato a dissipare antiche ruggini familiari. Si parlava di
lei come di una persona “scandalosa” in quanto femminista e
rivoluzionaria, anticlericale e socialista con tendenze anarchiche;
ci sentivi tanto insopportabile paternalismo e volgare maschilismo in
certi giudizi anche maliziosi espressi non solo dentro la famiglia e
non solo da ambienti di destra. Maliziosi perché Joyce era una donna
dalla bellezza straordinaria: mi è capitato di vedere un programma
Rai in cui all'intervista a Joyce ne seguiva una a Sharon Stone.
Ebbene, Joyce era di gran lunga più bella della diva americana,
perché agli occhi azzurri, ai lineamenti perfetti, al portamento
aristocratico, aggiungeva lo spessore di una vita meravigliosa e un
secolo di «pensiero materiale» assolutamente originale e
straordinario, cosmopolita e profetico. Oltre a un carattere
fortissimo e a un'aura tutta sua, fatta di poesia, storia, ironia,
etica e saggezza.
Prima di incontrarla,
avevo avuto modo di leggere i suoi libri pubblicati dalla Transeuropa
e ascoltare certe sue telefonatacce molto urlate a Massimo Canalini
(il nostro comune editor aveva il vizio di mettere tutti in vivavoce)
che si rifiutava di ristampare l'ormai introvabile autobiografia
fotografica Portrait. Quelle scenate mi avevano messo un po' paura
perché Joyce si divertiva un mondo a litigare animatamente,
strapazzando l'interlocutore senza remora alcuna (Canalini, poi, era
il punchingball ideale). Con qualche patema, dunque, risposi alla sua
«chiamata»: lei aveva letto il mio primo libro e aveva subito
attivato una giornalista di San Benedetto che avrebbe fatto da
autista e trait d'union. Così feci il mio ingresso nella sua casa di
San Tommaso in una sera di novembre inoltrato, nel 1991. C'era un
mucchio di gente, quella volta, donne di una certa età e qualche
raro uomo che cercava di mimetizzarsi con la tappezzeria o darsi da
fare come cameriere-barista-cuoco. Era palpabile la tensione, attorno
agli sparuti maschi: quella sera Joyce stava discutendo di un suo
progetto di libro collettivo e fotografico che doveva intitolarsi
Streghe a fuoco, storie di donne da lei prescelte e fotografate
dall'unico strega-maschio onorario, il fermano Raffaello Scatasta. Mi
sentivo un po' gli occhi addosso: non quelli di Joyce, che era stata
gentilissima e m'aveva subito messo a mio agio, piuttosto quelli
degli altri che studiavano la ragazzetta loro conterranea baciata
dalla fortuna grazie a un romanzo sui giovani punk pescaresi.
Comunque, quella prima
sera fui invitata a prendere parte al libro (sempre edito da
Transeuropa) e farmi fotografare a Bologna, dove vivevo all'epoca.
Cominciò così una frequentazione abbastanza regolare di Joyce: ogni
volta che tornavo nelle Marche, vale a dire abbastanza spesso, c'era
modo di andare a trovarla, soprattutto durante l'estate. Ci andavo
molto volentieri e alle occasioni “private” si aggiungevano
quelle pubbliche: presentazioni comuni di libri a Macerata, Camerino,
San Benedetto, Ancona, Bologna, Ascoli, Roma, Milano. Joyce era
continuamente invitata in giro per l'Italia, soprattutto nelle
scuole, a parlare della sua esperienza, e non diceva mai di no, anzi
accettava sempre con grande entusiasmo e disponibilità anche se
aveva ottant'anni suonati. Prendeva il treno o si faceva accompagnare
in macchina da qualcuno che guidava, e partiva. Avevo nel frattempo
pubblicato un secondo romanzo che le era piaciuto più del primo: si
trattava de La guerra degli Antò e Joyce spendeva parole
molto lusinghiere e gentili su quel testo che cercava di rendere
conto d'un certo stupore e sdegno nei confronti delle bombe
intelligenti, dei potenti guerrafondai, della propaganda via
televisione.
Durante quelle
presentazioni, Joyce mi mostrò come si parla in pubblico. Lei era
una maestra assoluta. Aveva una eloquenza magnifica, era brillante,
affascinante, coinvolgente. C'erano parole che ricorrevano sempre nei
suoi discorsi ed erano parole pesanti: pace, civiltà, utopia,
ambiente, politica, sfruttamento, colonialismo. Le parole devono
avere un solo significato, diceva, non bisogna mai essere ambigui,
non si può parlare di pace facendo la guerra, bisogna andare a
vedere le cose alla radice: chi decide cosa è civiltà e cosa no?
Aveva tutte le sue storie
da raccontare, le avventure che avevano vissuto durante la resistenza
lei ed Emilio, e poi l'incontro coi poeti del cosiddetto “Terzo
Mondo” che lei aveva conosciuto e tradotto, e ancora le sue teorie
sulle Sibille, donne sapienti e depositarie d'una cultura
antichissima fatta di egualitarismo e saggezza femminile, ma anche le
riflessioni assai concrete su quel che c'era da fare subito per
l'ambiente e un mondo più giusto ed equo. Recitava benissimo le
poesie sue e dei suoi poeti, con una voce profonda e autorevole, con
le pause giuste, e teneva testa a tutti. Se qualcuno le faceva una
domanda provocatoria (di solito qualche cattolico meno illuminato o
qualche fascistello confuso), lo rimetteva subito a posto, anzi lo
radeva al suolo. Ma questo avveniva soprattutto con gli adulti,
perché coi più giovani, invece, era molto paziente e generosa, così
come lo era con me. Nonostante queste lezioni, non imparai a parlare
come lei, ma un po' di sicurezza, in quei giri, riuscii ad
acquistarla: mi riempio ancora oggi il collo di chiazze vermiglie, ma
Joyce mi ha insegnato che da qualunque incontro nasce sempre uno
scambio importante fra te e le persone che sono venute ad ascoltarti.
La cosa che mi confortava di più è che Joyce dichiarava che in
gioventù era stata timidissima e non apriva mai bocca: solo con gli
anni e la pratica le era venuta fuori tutta quella verve (ma poi
ammetteva che le sue brave litigate le faceva già con Benedetto
Croce, lei diciottenne, lui già il grande filosofo!).
Con Joyce c'era sempre
modo di discutere e discorrere di mille cose: ogni incontro con lei
era proficuo e ti metteva addosso una gran voglia di imparare di più
e meglio la storia, affrontandola da un'ottica diversa, e quindi
erano tante le persone che la frequentavano e andavano a cercarla:
insegnanti, intellettuali, studenti, editori, politici, scrittori.
Più d'una persona ha
affermato che Joyce Lussu era il Novecento. Per me era sì il tempo
(un secolo intero, e che secolo!), ma anche il mondo. Attraverso le
sue parole potevi vedere le Marche delle signorine inglesi sue nonne
arrivate a sposare i locali signorotti proprietari terrieri; la
Svizzera delle scuole libertarie sorte dal Cabaret Voltaire e
visitate da Bertrand Russell e Romain Rolland, che lei aveva
frequentato dopo la fuga della famiglia; la facoltà di filosofia di
Heidelberg che Joyce aveva deciso di abbandonare dopo il comizio di
Hitler, delusa dalla mancata reazione dei suoi professori Jaspers e
Rickert; di nuovo la Svizzera alla ricerca di mister Mill, alias
Emilio Lussu, per la consegna d'un messaggio cifrato nascosto nel
manico d'una valigia, con la loro prima notte insieme sotto le
stelle; la Francia occupata dai nazisti, le dimore provvisorie in cui
avevano condotto la loro vita clandestina militando in Giustizia e
Libertà; il Portogallo, di nuovo l'Italia, le linee nemiche da
attraversare per collegarsi ai liberatori che risalivano dal sud... E
poi la Sardegna vissuta come compagna del mitico “capitanu” della
brigata Sassari. E, dopo, la Turchia di Hikmet, l'Angola di Agostinho
Neto, le marce nella foresta assieme alla guerriglia della
Guinea-Bissau, il Kurdistan, e ancora le Marche, dopo la morte di
Emilio.
Verso la fine del 1993,
su suggerimento di Massimo Canalini, decidemmo di raccogliere le
nostre conversazioni registrandole su nastro: io avrei posto a Joyce
delle domande sulla sua vita e sul suo pensiero e lei avrebbe
rievocato la sua storia pur avendola già scritta in almeno due libri
importanti (il romanzo Fronti e frontiere e Portrait). Il lavoro durò
due anni. Mi presentavo a San Tommaso con un registratore e delle
scalette, intere serie di domande che tentavano di seguire un ordine
cronologico, ma presto questo procedimento si rivelò abbastanza
impraticabile. C'erano giorni in cui Joyce mi assecondava, altre
volte diceva quel che più le premeva, argomenti sui quali stava
riflettendo, magari suggeriti dalle varie occasioni in cui era via
via chiamata a intervenire. A me andava benissimo: quel che mi
ripeteva della sua vita, anche se l'avevo letto centinaia di volte,
l'avrei volentieri risentito altre cento, e per quanto riguardava le
cose nuove, meglio, perché Joyce ultimamente non aveva più scritto
molto. Lavoravamo qualche ora, poi arrivavano amici per cena e allora
Joyce preparava i suoi famosi minestroni biologici, squisiti,
affettava del ciauscolo, e faceva disporre in tavola del pecorino e
del pane. Io riempivo cassette da 90 minuti e le mettevo via
scrivendo le date sulle costine, pensando che un giorno le avrei
sbobinate con comodo.
Joyce mi raccontò del
suo quotidiano. Come si conquista un uomo che è una leggenda -
Emilio Lussu aveva ventidue anni più di lei e i giovani militanti lo
adoravano per le sue gesta, prima fra tutte la fuga da Lipari. Come
si fa la resistenza - Joyce, oltre a trasformarsi in falsaria
aiutando a fuggire centinaia di perseguitati via Marsiglia, aveva
anche fatto un suo servizio militare in Inghilterra e partecipò a
diverse missioni assai rischiose. Come si diventa madre - il piccolo
Giovanni nacque nel 1944 nella Roma appena liberata. Come si fanno
evadere dalla Turchia la moglie e il bambino di Nazim Hikmet. Come si
ricordano i morti - il mazzo di fiori freschi in fondo alla tavola
era sempre per la mamma, altra donna straordinaria. Come ci si
comporta all'interno di una coppia quando si è maturi e leali. Come
si studia e come ci si forma (quando mi suggerì di scrivere la tesi
di laurea su Louise Michel, rivoluzionaria della Commune, “obbedii”
con grande soddisfazione mia e dei miei professori). Come si coltiva
un'amicizia. E altri mille dettagli della vita di una persona che è
stata anche una bravissima scrittrice compagna di uno scrittore.
Ecco, allora, la
scrittura. Mentre Joyce mi insegnava a pensare ai tanti argomenti che
sono poi divenuti qualche anno dopo i fondamenti del movimento noto
come "no global" (occhi ben aperti sul mondo, per
intendersi, battendosi contro ogni forma di sopruso e distruzione
dell'ambiente), c'erano da leggere le sue pagine. Le sue, quelle di
Emilio, e quelle di Hikmet. Erano pagine scritte in uno stile
impeccabile. Modernissimo, con dialoghi essenziali e un movimento,
spesso, come si dice, «cinematografico». Aveva ragione lei: Fronti
e frontiere iniziava come un film e non si capisce come ancora
nessuno abbia deciso di lavorare a una riduzione cinematografica di
quel testo pressoché unico nel suo genere. Poi c'erano i suoi libri
di saggistica: libri dove rileggeva la storia delle donne, anticipava
il problema dell'acqua, studiava il modello delle comunanze picene,
spiegava il suo personalissimo metodo di traduzione anche da lingue
che non conosceva, come il turco. E infine le poesie. Nel suo
Inventario delle cose certe ci sono poesie d'amore, poesie politiche,
poesie partigiane. Ci sono le poesie assai giovanili che Benedetto
Croce aveva voluto pubblicare e tradurre (alcune sono in tedesco,
altre in francese) nel 1939 per Ricciardi. C'è Scarpette rosse. E
c'è quella che più le era cara La luna si è rotta, che parla delle
donne di ieri e di oggi.
Alla fine del 1996 il
nostro libro intervista era pronto. Joyce L. uscì da Baldini e
Castoldi con un sottotitolo che riprendeva il film di Rosi tratto da
Un anno sull'altipiano e che a Joyce non piacque affatto: “una vita
contro”. “La mia vita non è mai stata una vita contro!”,
protestò diverse volte con me. “Semmai”, diceva, “la mia vita
è stata per!”. Era vero, Joyce aveva sempre lottato
coraggiosamente ma in una prospettiva gioiosa. Per un futuro più
luminoso, per una vita più giusta per tutti, per un mondo senza
guerre. Comunque era soddisfatta del lavoro ed eravamo pronte a fare
un gran giro di incontri. Purtroppo, proprio in quel periodo, Joyce,
a causa d'una caduta in strada, si ruppe un femore. Gli occhi, poi,
che erano malati da qualche anno, andavano sempre peggio. Nonostante
questo, riuscimmo a fare due presentazioni molto affollate e intense
a Roma e a Milano perché, naturalmente, Joyce non aveva alcuna
intenzione di fermarsi.
Da quel momento, però,
ebbe sempre bisogno di assistenza e i giri divennero più complicati.
La rividi ancora nella sua casa di Roma dove ero andata a
raccogliere, col solito metodo del registratore, una sua introduzione
a una nuova edizione de Il turco in Italia ovvero l'italiana in
Turchia, e poi, un'ultima volta, a San Tommaso. La sentivo al
telefono e commentavamo i fatti della politica e del mondo.
Poi, una sera di novembre
del 1998, Joyce, che m'aveva chiamata due giorni prima dall'ospedale
senza dirmi che stava male, se ne andò. Lo appresi il mattino dopo,
prestissimo, al telefono, nel modo più scioccante. Una giornalista
di Radio Popolare mi chiese se avevo voglia di parlare della Lussu:
certo, sempre volentieri, non c'era nulla di strano, capitava spesso
che ci domandassero interventi "reciproci" e poi il nostro
libro era ancora fresco di stampa. Passò qualche secondo di tempo
tecnico per avviare la registrazione e mi venne posta una domanda
all'imperfetto. Non capivo, davvero: se c'era un tempo per parlare di
Joyce, be', era proprio il presente.
Sono già passati quasi
sei anni da allora e di Joyce si sente moltissimo la mancanza.
Continuo a rileggere i suoi lavori, le sue poesie, e ci trovo sempre
nuovi insegnamenti (“la letteratura occidentale è permeata di
pessimismo, morte, solitudine, noia, eppure basta guardarsi in giro
per trovare allegria e umanità...”). Mi è anche capitato di
risentire qualcuna di quelle cassette con la sua voce tonante e il
fruscio del vento fra il bambù di San Tommaso sullo sfondo. Certe
volte mi sorprendo a scrivere parole che so di aver ascoltato da lei
o letto nelle sue pagine, e allora sorrido. Questa è Joyce, penso.
Il 15 febbraio del 2003,
il giorno della grande manifestazione a Roma contro la guerra in
Iraq, sono finalmente riuscita ad andare a vedere dove Giovanni Lussu
ha sistemato le ceneri di Emilio e Joyce. Sono al cimitero degli
Inglesi al Testaccio, un luogo bellissimo ove riposano tanti poeti e
scrittori, poco distanti dalla tomba di Gramsci.
l'Unità, 27 agosto 2004
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