Torino nei primi anni del Novecento. Piazza Madama Cristina |
Il 22 agosto 1917,
durante la prima guerra mondiale, ebbe inizio la sommossa operaia a
Torino provocata dalla mancanza di pane. La protesta si trasformò in
ribellione contro la guerra. Nella città si alzarono le barricate, e
gli scontri con l’esercito furono sanguinosi. Camilla Ravera,
dirigente del partito comunista e deputata alla Costitutente, fu
testimone (ne parla in Diario di trent’anni) di quei giorni,
che per tanti aspetti rimandano agii scioperi del marzo ‘43, quando
gli operai si ribellarono alla guerra, e alla penuria. Rileggiamo la
sua testimonianza. (S.L.L.)
Camilla Ravera |
Io ero uscita di casa,
quel mattino, con Cesare, il minore dei miei fratelli, già iscritto
alla Federazione giovanile socialista. Ci erano giunte notizie
confuse dell'agitazione in corso: il movimento non era ancora
arrivato nelle via adiacenti alla nostra casa. Ma, dopo breve
cammino, incontrammo i primi gruppi di donne: erano inermi, ma
procedevano risolute e compatte. I negozi abbassavano le
saracinesche; gente nuova di mano in mano ingrossava le file dei
dimostranti. Carri blindati sopraggiunti disperdevano qua e là la
gente, che, però, tornava rapidamente a raggrupparsi e a marciare
verso il centro della città. Poliziotti e carabinieri cercavano di
bloccare le file, di disperderle.
In uno di tali momenti di
scompiglio e confusione fui separata da mio fratello. Ricordo che
procedevo sola, quasi trascinata in quel tumulto. Ad un tratto si
udirono degli spari, rapidi, ripetuti: dalla folla si levarono grida
di dolore e di sdegno; nella strada rapidamente si fece il vuoto e il
silenzio. Una donna alta e robusta mi afferrò per un braccio e mi
spinse dentro il portone di una casa che subito richiuse. Fuori
continuavano gli spari. Nel portone alcune donne, ferme, serie,
silenziose, ascoltavano. Poi ogni rumore cessò.
Il vecchio portiere uscì
dalla sua guardiola; con voce sgomenta disse alle donne:«Ma che
fate? Che volete? Mettere il mondo ancor più a soqquadro?».
«Pane e pace son cose
che tutti vogliamo» disse una con calma.
«Sì, ma...».
«E dobbiamo muoverci,
tutti insieme, per guadagnarceli».
Il vecchio non aggiunse
parola. Se ne andò, scuotendo la testa in segno di desolato assenso.
Le donne riaprirono il
portone e tornammo nella strada, dove la gente di nuovo rifluiva.
Più tardi,
riavvicinandomi a casa, mi ritrovai, dopo uno di quegli scontri,
sola, nella piazza Madama Cristina. La piazza era deserta, e distesa
in un silenzio strano dopo tanta rumorosa confusione. Davanti al
portone chiuso di una casa, due bambini sedevano a terra, chini sopra
una scatola di biscotti. Mangiavano avidamente con il viso
soddisfatto e ridente.
«Non fate indigestione»
dissi: pensavo al modo con cui quella scatola doveva essere arrivata
nelle loro mani.
«Sono dolci», disse il
più piccolo, sorridendo con vero piacere. E quella beata
soddisfazione esprimeva tutto il bisogno di zucchero, compresso dalla
lunga privazione. Finii per consentire al loro
entusiasmo:«Mangiateli. Ma andate a casa».
Accennando al portone
chiuso alle loro spalle dissero:«Ci hanno chiuso fuori».
«Fatevi aprire».
E ripresi il cammino
nelle vie silenziose, coi portoni socchiusi e le saracinesche
abbassate. Un'anziana donna del popolo camminava davanti a me,
lentamente e come interdetta. La raggiunsi. Si fermò smarrita:
teneva in mano una scarpa da uomo, nuova, una sola. Mostrandomela
disse: «Me l'hanno messa in mano. Non sapevano più quel che si
facessero. Gettavano le scatole e distribuivano la roba, così», e
sorrise, forse per l'inutilità di quella scarpa sola. Poi la depose
pianamente sul davanzale di una finestra chiusa, e se ne andò,
scuotendo il capo. E io mi sentii invadere all'improvviso da
un'ondata di amore per quel povero grande popolo del lavoro,
costretto al saccheggio.
Cesare rientrò a casa
molte ore dopo, stanchissimo, eccitato. Era stato in Borgo San Paolo.
Ci informò rapidamente degli avvenimenti: le donne, la folla, i
tumulti, i conflitti, la barricata.
«Hanno incendiato San
Bernardino» disse. «Quei frati, l'anno scorso avevano sorpreso dei
ragazzi a mangiare frutti nell'orto della chiesa. Li avevano
flagellati e terribilmente spaventati, radendo loro sul cranio, col
rasoio, il segno della croce; poi li avevano consegnati alle guardie.
Nella popolazione era rimasto il rancore. Stamane sono entrati nelle
cantine del convento: c'era un vero magazzino di viveri, di tutto; in
quantità grande. La gente s'è sdegnata: la contraddizione era
troppo forte. E qualcuno ha appiccato il fuoco».
«Questa guerra infame,
questa guerra di predoni contro predoni - commentò piano la mamma -
distrugge tutto, nel profondo, oltre che trucidarci i figli».
Uno dei suoi figli,
Giuseppe, era già caduto; Francesco era in trincea; Carlo scriveva
dalla scuola di Modena che si preparava a partire per la stessa
destinazione; Cesare stava per essere chiamato alle armi.
«Faremo finire la guerra
- disse Cesare - e cambieremo tutto. Il socialismo vincerà».
Esprimeva la speranza che
era al fondo di quella rivolta del popolo.
Il 24 agosto la lotta
diventò più aspra e sanguinosa. La forza pubblica, l'esercito,
passarono all'offensiva con mitragliatrici e tanks. Un reparto di
alpini, dinanzi alla folla che gridava «pane e pace», non sparò.
Ma altre armi furono puntate sugli insorti: le mitragliatrici
spararono all'impazzata su coloro che resistevano, sulla gente inerme
che fuggiva, nelle finestre, nelle porte, nei negozi. Combattimenti
individuali ebbero luogo nelle vie e nelle piazze. Nel corso Regina i
tanks avanzavano verso il passaggio a livello dove si diceva risorta
una barricata. Gruppi di donne escono dai portoni delle case, rompono
i cordoni, tagliano la strada ai carri blindati, che per un momento
si arrestano; poi riprendono il cammino. Le donne si lanciano allora
sui carri, si aggrappano alle ruote, supplicano i soldati di gettare
le armi. I soldati non sparano; avanzano ancora lentamente, poi si
fermano.
Avvenimenti, 24 marzo 1993
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