Il monumento a Pietro il Grande a San Pietroburgo |
Figlio di secondo letto
dello zar Aleksèj Michàjlovic (il "mansuetissimo", che
aveva però stroncato la rivolta capeggiata dal cosacco Sten'ka
Razin), Pjotr Aleksèevic era salito al trono appena decenne, nel
1682, assieme al fratellastro Ioann, dopo una terribile sommossa di
palazzo (la famosa Chovànscina, cui Modèst Mùsorgskij dedicherà
una delle sue opere più famose), in cui aveva visto massacrati
alcuni dei familiari più prossimi per mano degli Strelzi, le
turbolente guardie di Palazzo della vecchia Moscovia. Ma il potere
effettivo stava saldamente nelle mani della reggente, cioè della più
anziana sorellastra di Pjotr, Sofija. Una situazione del tutto
anomala nella stessa Russia secentesca, che dopo il regno dei primi
tre zar della casata Romanov rischiava di precipitare in un nuovo
periodo di torbidi. E giusto tre secoli or sono - tra il 1685 e il
1686 - il giovane Zar se ne stava appartato, assieme alla madre,
nella tenuta di Preobrazhènskoe, tutto preso dai suoi giochi "dei
soldati", assieme ad un male assortito gruppo di coetanei, che
la reggente assecondava deliberatamente, rifornendoli anche di
materiale bellico (il fratello giocasse pure, e se ne stesse fuori
dai piedi).
Quanto poco innocui
fossero quei giochi militari, se ne doveva accorgere di lì a poco la
stessa Sofija, quando nell' agosto del 1689 tentò di insediarsi
definitivamente sul trono, e invece - grazie anche ai reggimenti "da
gioco" (costituiti non più da adolescenti, ma da giovani sui
vent'anni) - si ritrovò in convento. Dopo la morte del fratellastro
minorato, nel 1696, Pjotr Aleksèevic fu - e per quasi trent'anni -
l'unico vero autocrate di Russia. E da una situazione prossima al
tracollo istituzionale, tutta intessuta delle trame del lungo
Medioevo russo, stava per sorgere la Russia moderna.
Credo che ancor oggi
l'occidentale medio non si renda ben conto della profondità e della
qualità della frattura provocata da Pietro il Grande nella storia
russa. A ciò può aiutarlo certamente la lettura del volume di
Robert K. Massie, Pietro il Grande (traduzione di Vittorio
Benini, Rizzoli). Non si tratta solo del fatto che, a partire dalla
vittoria di Poltava sugli svedesi (1709), la Russia entra da
protagonista nella storia mondiale; o che, con l'apertura
dell'algarottiana "finestra sull' Europa" - rappresentata
dalla fondazione di Pietroburgo, e ancor più dall'esautoramento di
Mosca come capitale - la Rus' (poi Moscovia) si sia trasformata in
Rossìja; e nemmeno, ancora, del fatto che nel giro d'un decennio la
vecchia nobiltà russa si sia trasformata - tra barbe tagliate e
vestiti "alla tedesca" - in moderna "classe
dirigente". Per dare un'idea delle trasformazioni avvenute col
regno di Pietro il Grande, può essere più giusto (sebbene solo
metaforico) dire che lo Stato russo abbattuto dalla rivoluzione del
1917 non era quello che affondava le sue origini nel lontano passato
semiasiatico dei Gran Principi, poi Zar, di Moscovia; era invece lo
Stato imperiale, "pietroburghese", delle riforme petrine.
"Devo raccogliere
una grande quantità di grano", sembra dicesse Pietro, "ma
non ho il mulino; e non c'è neppure abbastanza acqua per costruire
un mulino ad acqua. Ma costruirò un mulino anche senza acqua, e
lascerò ordini perché sia intrapresa la costruzione del canale.
Questo obbligherà i miei successori a portare acqua al mulino".
Riforme di Pietro,
rivoluzione d'Ottobre. In questi duecento anni s'è giocato il
destino della Russia moderna, e dunque in larga misura quello del
mondo moderno. C'è un episodio della biografia di Pietro che - sia
pure per via di enfatizzazioni leggendarie - sembra ricollegare
direttamente questi due momenti decisivi della storia russa. Il 26
giugno 1718 moriva drammaticamente, dopo una penosa reclusione
inquisitoriale, il primogenito di Pietro ed erede "naturale"
al trono, Aleksèj Petrovic. Debole, bigotto (e non meno alcolizzato
del padre), di fronte alla scelta impostagli da Pietro (o imperiale
successore - nello spirito delle riforme petrine, naturalmente -, o
monaco) aveva preferito battersela ricercando protezione dagli
Asburgo, prima a Vienna, poi a Napoli.
Deluso dall'atteggiamento
del figlio, offeso dall'ingerenza di potenze straniere nel "suo"
progetto, e soprattutto preoccupato che attorno alla figura di
Alessio (pavido quanto si vuole, ma destinato a salire sul trono) si
coagulassero le forze tradizionaliste ostili alla sua impresa
innovativa, vale a dire il clero e la vecchia nobiltà, Pietro riuscì
a costringere lo Zarevic a tornare in Russia. Interrogatori, perdoni
e confessioni più o meno sincere, la camera di tortura, la condanna
a morte. Poi, la fine improvvisa del figlio degenere.
Come siano andate in
realtà le cose, non lo sa nessuno. Tutto sommato, si può concordare
con Massie sul fatto che "quaranta colpi di nerbo sono
sufficienti a uccidere un uomo robusto e sano; Alessio non era
robusto, e lo shock e le ferite possono benissimo avergli causato la
morte". Ma, per dirla ancora con le parole dell' autore, "in
qualunque modo fosse morto Alessio, i contemporanei ritennero Pietro
responsabile di questo assassinio".
Già nel secolo XVIII si
diffuse in Russia una rappresentazione teatrale, anonima e popolare,
nella cui trama - il terribile imperatore Massimiliano viene a sapere
che suo figlio Adolfo si rifiuta di abiurare la fede cristiana e gli
fa tagliare la testa - molti videro il rispecchiamento della vicenda
di Pietro con Alessio. Man mano che la figura di Pietro il Grande
assumeva (in poesia e nella letteratura orale) i contorni del mito,
anche la vicenda dello Zarevic acquistava una sua precisa valenza
mitologica, finché, nel romanzo L'Anticristo di Dmìtrij
Merezhkòvskij (1905), è il padre che uccide di propria mano
Alessio; il quale, durante l'interrogatorio, pronuncia una terribile
profezia. "Tu sarai il primo a spargere sul patibolo il sangue
di tuo figlio, il sangue degli Zar russi!", riprese lo Zarevic;
e pareva che non parlasse più di sua propria volontà, le parole
avevano assunto un accento profetico: "Questo sangue ricadrà di
capo in capo sino all'ultimo degli Zar e tutto il nostro lignaggio
perirà nel sangue. Per causa tua, Dio punirà la Russia!".
Queste parole del romanzo
di Merezhkòvskij suscitarono certamente qualche fremito nella
schiena dei lettori, dopo il 1905 russo: ma dopo il 1917, e ancora
più dopo il massacro della famiglia imperiale a Ekaterinburg del 17
luglio 1918, esse assunsero un sapore veramente "da Cassandra".
Certo, nei terribili giorni dell' arresto, dell'interrogatorio, della
tortura, è ben difficile che il povero Alessio fosse in grado di
pronunciare le parole che gli mette in bocca Merezhkòvskij, ma
questo non toglie che la frattura provocata da Pietro nella storia
russa fosse tale da ispirare situazioni fantasmatiche degne della
tragedia greca.
Mito, tragedia, storia.
Per certi versi, anche carnevalata. Il regno di Pietro fu tutto
questo (e probabilmente anche altro). Per esempio, il lato infantile,
ludico (i giochi militari) dal quale abbiamo preso le mosse, è una
componente tutt'altro che secondaria nella storica impresa dello Zar.
Non mi riferisco soltanto agli elementi carnevaleschi del "Concilio
panubriaco", che Pietro coltivò sino ai suoi ultimi anni, con
le rozze mascherate del Principe-papa, insomma con l'elemento
buffonesco che nelle ore d'allegria egli sapeva sempre utilizzare ai
fini del suo progetto di svecchiamento della santa Russia.
Una innovazione così
radicale dei costumi (imposta con decreti seriosissimi, anche quando
riprendevano aspetti fatui della vita sociale come i balli, i
ricevimenti, la moda, gli spettacoli), non era possibile inventarla
senza una forte motivazione, accompagnata a una carica giocosa e
creativa. Ma anche dura e coercitiva. Spietata, quando era il caso,
secondo i modelli della dignità dello Zar, tratti dalla tradizione
moscovita.
Ora, sul piano della
ricostruzione e interpretazione storiografica della figura e dell'
opera di Pietro il Grande, ci si trova in una situazione difficile:
da un lato, la centralità dello Zar nella storia non solo russa, ma
europea e mondiale, ha generato alcune linee interpretative ormai
"classiche" (che possono essere ricondotte agli estremi
rappresentati, già nel XVIII secolo, dall'atteggiamento apologetico
di Voltaire e da quello critico di Rousseau); dall'altro lato, il
lavoro filologico di accertamento delle fonti è lungi dall'essere a
tutt'oggi esaurito. L' edizione delle Carte e lettere di Pietro,
iniziata nel lontano 1887, non è ancora terminata; e l'unica
biografia "scientifica", quella di M.M. Bogoslavskij, si
ferma al 1701. Hanno così potuto prosperare non solo i "romanzi"
su Pietro il Grande (da quello di Merezhkòvskij a quello di Aleksej
Tolstoj), ma le stesse biografie "storiche" (per non citare
che le più note, ricorderò quelle di Waliszewski, di Oudard e di
Troyat). Anche la monografia di Robert K. Massie si pone sullo stesso
piano, col corollario di citazioni di secondo grado e di aneddoti
difficilmente verificabili: una "storia", insomma, che
consiste nella descrizione di campagne militari più frammenti di
vita e di costume colti episodicamente. Tra quelle che conosciamo,
questa biografia è la più "moderna", e fors'anche la più
raccomandabile. Ma la storia di Pietro il Grande, e della svolta
decisiva che egli seppe imporre alla Russia, attende ancora il suo
storiografo.
"la Repubblica", 27 dicembre 1985
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