Per dare un significato
al mondo, bisogna farsi coinvolgere dalle scene che compaiono nel
mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, disciplina
mentale, sensibilità e senso della geometria. È risparmiando sui
mezzi che si arriva alla semplicità dell’espressione».
Fu il consiglio dato dal
grande fotografo Henri Cartier-Bresson al molto più giovane, allora
collega, Stanley Kubrick quando questi girava il mondo come
fotoreporter per la rivista americana Look negli anni dell’immediato
secondo dopoguerra, ossia dal 1945 al 1950.
Nell’aggirarsi negli
spazi espositivi dell’elegantissimo Palazzo Magnani di Reggio
Emilia, si rimane colpiti dalla carica vitale e la dignità umana
presenti nei soggetti catturati dall’obiettivo tenuto in mano da
colui che quasi contemporaneamente avrebbe dato vita a tutt’altro
percorso, quello di un cinema memorabile che va da Paura e
desiderio (girato nel 1951, fu a lungo introvabile, forse perché
ritenuto dal suo stesso autore «un tentativo serio realizzato in
modo maldestro») fino all’ultimo Eyes Wide Shut del 1999,
anno della sua morte a soli 61 anni.
In mezzo ci sono titoli
quali il sempre mitico 2001: Odissea nello spazio, il
magnifico Barry Lyndon, il feroce Full Metal Jacket o il
terribilmente violento Arancia meccanica.
Ciò che salta all’occhio
guardando le meravigliose foto stampate in grandi dimensioni (ora la
mostra itinerante è in partenza per Mosca) è il colpo di genio
nella messinscena sebbene si tratti di scatti singoli e non di scene
concepite per un film.
D’altronde fu proprio
una scena complessa catturata in un istante fotografico (un
edicolante rattristato per la notizia della morte dell’amato
presidente, Franklin D. Roosevelt, seduto in mezzo alle prime pagine
dei giornali appesi attorno a lui) a convincere la redazione di Look
ad assumerlo come fotografo, tanto che comprarono subito foto e
autore, facendogli un contratto di collaborazione fissa (mantenuta
fino al 1950 quando fece il primo corto sulla giornata del pugile
Walter Carrier, Dayoftheflght, autoprodotto con 3900 dollari e
venduto alla Rko per 4000, la quale poi gli produsse il titolo
successivo Flying Padre girato nel New Mexico).
Stanley Kubrik, Milits of a Paddy Wagon |
Le due sezioni Paddy
Wagon... quando si tocca il fondo e Il circo dietro le quinte
(entrambi del 1948) sono le due che rispecchiano al meglio questo
aspetto di messinscena, sia dal punto di vista del soggetto
inquadrato che da quello della stessa inquadratura. Paddy Wagon è
già costruita come sequenza (ideale) cinematografica giocata sui due
livelli di finzione e indice di realtà (tanto caro a Kubrick in
seguito), dovendo qui illustrare il veicolo utilizzato dalla polizia
di New York per trasportare i prigionieri amichevolmente chiamato
Paddy (dal gaelico Patrick, essendo la maggioranza dei poliziotti
newyorkesi di origine irlandese). Facendo un uso contemporaneo dei
livelli narrativi in primo piano e sullo sfondo, sfruttando quindi
tutta la linea della profondità di campo, il giovane Kubrick
focalizzava l’ambiguità dell’oggetto fotografato (qui il veicolo
apparentemente più idoneo e sicuro) e al contempo quella del mezzo
usato per fotografarlo, la macchina fotografica, con cui si decide
cosa e come inquadrare.
Così un muso
supermetallico riflette i palazzi attorno; il volto di un ispettore
guarda dritto in macchina; quattro prigionieri seduti all’interno
sullo sfondo sono illuminati a giorno mentre la schiena di colui che
li sorveglia, in primo piano, è nel buio e minacciosamente enorme;
un braccio armato di pistola capta tutta l’attenzione nel puntare
verso l’ipotetico lato esterno di una camionetta.
Non è noir, né
tipicamente hollywoodiano, è già «stile Kubrick» se pensiamo ai
netti contrasti tra personaggi, paesaggi e linee archi-tettoniche nei
successivi Il bacio dell'assassino e Orizzonti di gloria,
sempre girati in bianco e nero.
Stanley Kubrik, Rocky Marciano sotto la doccia |
Tutt’altro registro
nella sequenza dedicata al Circo, dove abbaglia la luce che domina
l’immaginario essendo quello circense un mondo a parte, dove regna
il gioco, l’altro - in tutti i sensi.
Kubrick riprende la tigre
in gabbia come se fosse l’uomo che la guarda a esserlo: lei, fiera,
dal pelo più che mai lucente grazie alla leggera solarizzazione in
fase di stampa della foto, lui, con maglietta bianchissima dietro le
sbarre in secondo piano a guardarla. Con ammirazione e perplessità.
Oppure, nella danza dei
leopardi dentro la grande gabbia di spettacolo, alla chiara luce di
un sole fortissimo appare invertito il rapporto di dominio tra
animali e uomo/domatore col bastone in perfetta estensione del
braccio verso le zampe delle tigri alzate: chi comanda chi?
A parte il fatto che a
livello di grana e messa a fuoco nelle mille sfaccettature dal bianco
al nero, è già una foto inquietantemente emozionante! Sembra un
miracolo che i negativi sepolti per oltre 50 anni, all’insaputa di
tutti, dentro le scatole contenenti il Look archive depositate presso
il Museum of the City of New York siano rimasti talmente integri e
intatti.
Merito della pellicola,
forse. Ma soprattutto, se possiamo vederle oggi (a dire il vero dal
2005, anno in cui era uscito il volume Drama and Shadows,
edito da Phaidon), è merito del fiuto eccezionale di Rainer Crone
che li ha ritrovati non arrendendosi mai.
Nemmeno dopo la
telefonata al quasi morente Stanley Kubrick nel 1998, in cui il
regista gli aveva confessato di aver intrapreso lui stesso la
«ricerca del Graal» non sapendo dove fossero. Anzi, quella
telefonata fungeva da ulteriore stimolo, avendo Kubrick rassicurato
lo studioso americano del fatto che non erano mai state tirate stampe
vintage.
Di fatto, tra il museo di
New York e la Library of Congress di Washington D.C. vennero alla
luce 14mila negativi raggruppati in trecento series e stories.
«Il contenuto di queste
scatole supera ogni aspettativa», si legge nell’introduzione
(firmata dallo stesso Crone) al bellissimo catalogo della mostra
(edito da Giunti, 32 euro) intitolata Il fascino discreto del
Sublime.
«Questi scatti sono
documenti del tempo che fanno luce sugli anni del dopoguerra in
America, ma non solo. Nell’ambito della storia della fotografia
essi si collocano in una posizione nuova che, forte della
consapevolezza di ciò che l’ha preceduta e delle tradizioni che ne
hanno determinato il percorso evolutivo, si spinge a sondare i limiti
del medium Queste foto sono niente di meno che un cambio di paradigma
delle potenzialità della fotografia».
Poi si aggiunge che
Kubrick fotografo, col senno del poi, non va affatto considerato come
uno tra tanti, ma «la sua opera fotografica va vista a se stante e
annoverata tra le più significative nella storia del medium».
Basta dare uno sguardo
alle altre serie esposte a Reggio Emilia: «Note di viaggio dal
Portogallo», compiute nel 1948, con veri e propri montaggi in
macchina per creare sequenze quasi hitchcockiane con soggetto una
coppia di turisti americani in una città non meglio definita, mentre
lo sguardo posato su un villaggio sulla costa - invece di inseguire i
classici motivi turistici da cartolina - fa intravedere luci e ombre,
fatica e miseria nella vita di pescatori, tra barche da tirare a
secco con le funi o le silhouette di donne nere rivolte verso
l’infinito del mare.
Stanley Kubrik, Coppia in un caffé |
E ancora l’«Omaggio
all’età del jazz» per seguire da vicino trombe, clarinetti e
contrabbasso suonati a meraviglia dagli artisti prevalentemente di
colore in locali in stile: nell’organizzazione delle foto si
percepisce l’amore del giovane Kubrick per questa musica giunta da
New Orleans al Bop City Club di New York, captando i musicisti in
posizioni informali, libere, free style appunto, per rispecchiare
meglio il free jazz da loro suonato.
Il settimanale “Look
“si dedicava anche ai personaggi famosi, per i quali Kubrick ogni
volta inventava stili di ripresa adatti ai soggetti: vediamo una
«debuttante» Betsy von Furstenberg, vestita elegante in ambienti
dell’alta società ma anche giocherellona, a gambe nude e
pantaloncini corti, a saltellare con le amiche su muretti o rami di
un albero, mentre il pugile Rocky Graziano l’aveva seguito «prima
del combattimento» tra massaggi al ginocchio, al volto e persino
sotto la doccia (scatto inedito, finora).
Se nella serie delle
donne nere in Portogallo Kubrick era riuscito a concentrare dignità
e rigore, negli scatti al giovanissimo Montgomery Clift (reduce del
suo primo successo, Il fiume rosso di Howard Hawks, nel 1949)
aveva unito irrequietezza e dolcezza insiti nell’attore morto
suicida a 46 anni nel 1966: preso leggermente dal basso a cavalcioni
con bimba in spalla; osservato dall’alto mentre è sdraiato per
terra accanto al letto in mutande e maglietta bevendo a collo da una
bottiglia (fu la prima volta, questa, che si vide una star vestita
con indumenti intimi, saranno poi James Dean e Marlon Brando a
lanciarne la moda nei primi anni ’50); sorpreso (apparentemente)
nel fare colazione la mattina o nel guardare fuori da una finestra e,
infine, leggermente dall’alto, in abito completo, cravatta
slacciata e impermeabile sgualcito sotto braccio, nel vialetto con
sfondo di case popolari.
Sintesi di un’anima
alla ricerca dell’essere. Occhio acuto sul mondo. «Tutto ciò che
può essere scritto o pensato può essere filmato», aveva detto una
volta l’autore che ha lasciato il suo segno particolare in ogni sua
immagine, dal documentaristico alla satira politica, dalla
fantascienza alla critica della guerra, dallo storico al noir.
E, in queste fotografie,
tra ombre e drammaturgia, come insegna anche la storia di Mickey, il
ragazzino biondo di 9 anni, a scuola al mattino, lustrascarpe e
fattorino nel pomeriggio, amante dei piccioni sui tetti, liberati
come simboli delle anime libere.
O meglio degli spiriti
liberi: uno di sicuro si chiamava Stanley Kubrick.
Alias il manifesto, 30
luglio 2011
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