Che Virginia fu molto
malata lo sappiamo. Di pochi scrittori, credo, sia stato, con
altrettanta dovizia di particolari, rivelato tutto. Lettere, diari,
biografie, autobiografie di nipoti, amici, gente ancora viva, e
pronta a parlare, a dire tutto di lei... : non ultimo il libro di
Stephen Trombley, All that summer she was mad, scritto appunto
per narrare le vicende, le fasi, le terapie della sua malattia... Ma
questo non ci interessa. Sappiamo, non importa come, in fondo, che
Virginia fu malata: di una malattia che ci appare prima di tutto come
un certo tremore nel suo sguardo; o, se volete, come un'angoscia che
segna la sua scrittura. A volerla definire, la sua malattia, credo
che potremmo genericamente collocarla nel campo della follia
maniaco-depressiva, come una serie di episodi maniaco depressivi che,
con varie intensità, si ripresentarono nella sua vita, fino al più
grave, il definitivo, quel punto di massima intensità che si
registrò con il suicidio.
Ma non è, evidentemente,
la diagnosi che qui ci interessa. Che mi interessa. Non sono né
psichiatra, né psicoanalista. Mi riguarda, della Woolf, non la sua
malattia in quanto appartenente al campo della psichiatria, e delle
sue classificazioni; ma quanto della sua malattia, nel congiungersi
con il fatto che lei è scrittrice, riguarda quella questione,
centrale per la letteratura, del rapporto tra un soggetto e la sua
parola.
Non questione
psicologica, né psichiatrica, la malattia della Woolf è qui
guardata come ciò che apre su una questione che direi metafisica :
questione di un certo rapporto dell'essere rispetto alla sua
posizione nel reale. Nella depressione, sappiamo, si sviluppa (o
dovremmo dire s'arresta?) un particolare modo di rapporto al reale ;
che è stranamente (o giustamente?) accordato, nel caso di Virginia,
con il modo in cui lei prende posto nel reale in quanto scrittrice.
Attraverso le sue malattie — che è lei stessa a definire «in
parte mistiche» — Virginia si separa dal mondo, ed entra in un
luogo, o terreno, che è lo stesso cui la conduce la sua vocazione di
scrittrice.
Non dico che tra malattia
e scrittura vi sia una forzosa alleanza: che sempre il folle è
artista, e sempre l'artista folle. Non sto dicendo questo: dico che
la malattia e la scrittura producono in Virginia un'incrinatura
silenziosa che sentiamo lentamente progredire insieme nella vita e
nell'opera. E non dico neppure che l'incrinatura sia auspicabile; ma
è certo che la malattia ii Virginia le dona accesso a qualcosa ad
avvicinare il quale la salute non basta. E se la salute non basta è
perché v'è qualcosa che è stato pensato sempre e soltanto con la
malattia; o se con la salute, solo ai suoi bordi.
L'angoscia, il timore, o
il tremore, che derivano dal bordeggiare quel qualcosa, non sono che
il segno di un certo pericolo cui certi esseri si espongono, e altri
no. E lo spartiacque qui non è solo tra lo scrittore (il creatore),
e l'uomo comune; vi sono scrittori che forse non hanno mai accostato
davvero quel qualcosa, che con Beckett (che certo l'ha accostato)
potremmo nominare l'innominabile. Altri invece i quali ritengono che
nell'accostare questo punto consista tutta l'avventura dell'arte ;
forse anche della vita stessa.
Comunque sia, se
scrittore è colui che vive in relazione al linguaggio un rapporto
estremo, un vero scrittore non potrà non aver sfiorato questo
pericolo, foss'anche per un attimo. Così come, se non in tutti i
«folli», forse, la malattia presenta la stessa gravità di
sconnessione tra il significato e l'esprimibile, questa sconnessione
tuttavia rimane, della follia, un tratto specifico, essenziale.
V'è nella malattia di
Virginia (lei lo racconta in un saggio, On being ill, che
tratta appunto di cosa significa essere malati) una lesione del dire.
Forse poi la malattia, dice Virginia, non è che questo impaccio,
quando una falla si apre, un'apertura si mostra, una spaccatura del
dire (perché «for pain words are lacking»); sì che il dire sfugge
al detto e il soggetto della parola non sa ristabilire il rapporto
tra questi due tempi del parlare umano; non sa accordare l'esperienza
del proprio voler dire al patrimonio del già detto.
Sul terreno, o nel luogo
della creazione artistica, accade qualcosa che non è dissimile da
ciò che accade nel terreno della malattia: anzi, la stessa distanza
tra il significato e l'inesprimibile nutre la logica del poetico. In
questo senso la malattia di Virginia non fu un caso: non fu né
contingente, né passeggera. Non fu passeggera; sappiamo, al
contrario, che non si risolse lungo l'arco della sua vita, anzi, la
condusse fino alla morte. Né fu contingente; al contrario, la
malattia non cessò di scriversi, fu cioè necessaria, come è
necessario ciò che non cessa di passare.
Così quello che
nell'opera di Virginia si presentò come la cosa essenziale dell'atto
creativo stesso, nella vita alimentò il terreno della malattia.
Virginia prese la vita, e la scrittura, nel modo più largo: come
un'avventura dell'anima. In questo le due esperienze sono per lei una
cosa sola, e vanno di pari passo; e ciò che si presenta nell'una,
non può non ritornare nell'altra. Nella sua opera, allora, oltre il
gusto, la delizia, il godimento della creazione, la felicità
dell'espressione, troveremo dell'altro che verso di essa ci attira:
qualcosa di più elementare e di più essenziale, come una
precipitazione, un'emorragia centrale, che lascia l'anima sospesa,
inerme rispetto alle fragili barriere che preservano, solitamente,
una vita dall 'incontrare il proprio punto di fuga o di caduta.
“il manifesto”, 20
settembre 1984
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