La fascinazione
collettiva,
il ruolo degli archeologi,
la retorica magnogreca.
In un’epoca nella quale i media erano già capaci di omogeneizzare qualsivoglia notizia e di porgerla alle masse depotenziata di ogni valore intrinseco, è venuto facile, auto-consolatorio e rivendicatorio, alla classe dirigente della regione nella quale erano stati rinvenuti e poi musealizzati, «calabresizzare» le statue. Se è vero che ricordando il passato gli uomini lo ricreano attribuendogli un senso che è sempre in relazione alla loro idea del presente; e che i gruppi sociali selezionano, reinterpretano e rifondano il passato alla luce di quel che sono oggi, i calabresi in maggioranza l'hanno fatto accettando, passivamente e mimeticamente, la titolarità identitaria di magnogreci. I bronzi da Riace nobilitano e, per ellissi di attribuzione, inverano, più di ogni altra cosa, questa identificazione che ha disseccato, malauguratamente, tutte le altre radici. Il libro Donzelli (2015), con gli interventi e i saggi di Simonetta Bonomi, Gregorio Botta, Pier Giovanni Guzzo, Carmelo G. Malacrino, Pucci e Mario Torelli, sollecita calabresi e non calabresi a tenere conto del Classico in tutta la sua complessità. Esso riguarda non solo il passato remoto ma è indispensabile per comprendere il presente e per avere una visione del futuro.
Faceva molto caldo in
quelle mattine dell’agosto 1972, quando migliaia di persone
cingevano d’assedio le spiagge di Riace. Persone di tutte le
condizioni sociali che si assoggettavano alla calura agostana pur di
assistere, anche da lontano, all'uscita dalle acque di due statue di
bronzo rinvenute sul basso fondale, poco al largo della cittadina
ionica calabrese. Fra la folla, alcune vecchiette nerovestite
pregavano verso lo scoglio del ritrovamento, detto dei Santi Cosma e
Damiano. I bronzi infatti furono quasi sùbito assunti nell'inconscio
dei riacesi come i simulacri dei due santi medici in onore dei quali,
due volte l'anno, si svolge un pellegrinaggio. Erano stati trovati,
per caso, da un giovane sub dilettante romano, Stefano Mariottini, a
soli dieci metri di profondità e poi portati in superficie dai
sommozzatori dei carabinieri aiutati da decine, centinaia di
volontari. La spiaggia bianca si riempì d’una umanità accaldata e
vociante. Li trassero a riva a braccia, li misero in piedi per farsi
fotografare sulla battigia, li strofinarono per togliere la patina
più superficiale, li adagiarono su materassi posati su improvvisate
lettighe lignee che trasportarono, accalcandosi gli uni agli altri,
come se portassero un loro parente ferito al Pronto soccorso o come
se traslassero, in processione, le sacre reliquie di un loro santo. A
fronte di cotanta partecipazione popolare, inizialmente i giornali
diedero pochissimo spazio alla notizia, solo un trafiletto locale.
Poi quel ritrovamento «spaesante» avrebbe occupato sempre più
spazio, fino ad arrivare alle prime pagine e ai tg nazionali. Esso
produce ancora oggi una quantità imprevedibile di turbamenti
dell'anima di quanti vengono a trovarsi al cospetto delle statue. Dai
lontani anni settanta i due atleti di bronzo - antichi, ma allo
stesso tempo «nuovi» perché non più visti da alcuno da due
millenni - sono stati un affaire non solo archeologico, ma anche
antropologico e sociologico, un vero e proprio capitolo di costume
italiano.
Adesso un libro a cura di
Maurizio Paoletti e Salvatore Settis – Sul buono e sul cattivo uso
dei Bronzi di Riace (Donzellizelli «virgola», pp. XVI+116, €
20,00) - ricostruisce il clamore che suscitò il ritrovamento dei
bronzi e l'uso che se ne fece: reportage televisivi, giornalistici in
Italia e in tutto il mondo, poi, per gli otto anni necessari al primo
restauro di Firenze, il silenzio. Silenzio che fu rotto dalla prima
apparizione pubblica dei Bronzi, presso il Museo Archeologico di
Firenze, in tutto il loro splendore classico. Il risultato fu un
afflusso di centinaia di migliaia di visitatori tanto imponente ed
entusiasta che i giornali dovettero parlare di un fenomeno collettivo
di fascinazione, mai riscontrato prima. Una reazione debole ebbero
invece gli archeologi che, all'epoca, erano divisi in due opposte
fazioni: gli storici dell'arte e gli archeologi militanti della
nascente «cultura materiale», ma gli uni e gli altri, secondo
Settis, abdicarono alla propria missione civile lasciando il ruolo da
protagonista non solo alla folla sulla spiaggia, ma anche alla folla
nella mostra e nei musei in cui furono esposti.
Gli archeologi non
riuscirono a conquistare, in fondo, mai un ruolo da protagonisti
perché la ricerca si concentrò soprattutto sugli aspetti materiali,
l’analisi scientifica delle terre di fusione e del metallo, invece
che su quelli stilistici e formali. La storia dell'arte antica, come
molti sanno, è basata in buona parte su congetture e quelle che
riguardano i bronzi si possono riassumere dicendo che le due statue
sono state modellate nella Grecia continentale fra il 460 e il
430-420 a.C. e che, facendo parte del carico di una nave, sono
affondate insieme a essa in epoca antica non ancora precisata.
L'analisi stilistica è giunta a collocare le due statue in un arco
cronologico forse ancora troppo ampio, ma utile per ricostruire i
nessi con le maggiori scuole artistiche attive in Grecia nel V secolo
a.C.
Non sappiamo, ancora, con
certezza se i due bronzi di Riace siano opera di uno scultore o di
due, non sappiamo quando furono rimossi dal sito originario, né
quando naufragò la nave che li trasportava. Questo volume contiene,
però, due nuove ipotesi forti e suggestive. La prima, in realtà da
poco esposta altrove da Vinzenz Brinkmann, è quella che racconta,
ipotizzando un flusso narrativo, che i due bronzi sono due possenti
guerrieri realisticamente rappresentati mentre si fronteggiano, l'uno
(Eretteo, «Riace A»), armato alla greca, con l’aria un po'
arrogante del vincitore, l'altro (Eumolpo, «Riace B»), con il più
leggero armamento trace, e l'atteggiamento di quieta rassegnazione di
chi sarà sconfitto. Secondo la congettura di Brinkmann, quindi, le
statue erano più o meno contemporanee e facevano parte di un'unica
narrazione scultorea sita sull’Acropoli di Atene. La seconda
ipotesi, formulata proprio in questo volume da Giuseppe Pucci,
propone l'attribuzione a Mirone del «Riace A», identificandolo però
come il Tideo descritto in un epigramma di Posidippo (III secolo
a.C.), restituito da un papiro recentemente acquisito dall'Università
di Milano. La congettura di Pucci è fondata sulla premessa che un
eroe che digrigna i denti come fa il «Riace A» non si rinviene in
nessun altro monumento dell'arte greca e che, sulla base di molti
fondati argomenti, i denti sono il contrassegno di Tideo. Pucci
ritiene, dunque, che nel caso del «Riace A» i denti abbiano valore
di segno inferenziale che vale a rendere riconoscibile colui che lo
esibisce. L'ipotesi di un’attribuzione a Mirone del «Riace A»
sembra, in ogni caso, dare nuova consistenza e spessore alla
somiglianza, rilevata da Settis, di questa statua con il Doriforo di
Policleto e l’Apollo di Fidia, finora noti solo da copie, perché
secondo alcune fonti antiche questi due scultori furono, come Mirone,
allievi del grande, ma a noi poco noto, Ageladas.
Nella sua ricostruzione
dell’«uso» dei bronzi, Paoletti ricorda come il presidente
Pertini volle - dopo Firenze, ma prima del loro ritorno al Museo di
Reggio - che essi fossero esposti al Quirinale, dove un’altra
immane folla si recò in pellegrinaggio, dando, definitivamente,
l’avvio al fenomeno delle mostre-evento. A proposito dell’antico
e del suo rapporto con il kitsch, che ne rovescia il senso come in
uno specchio deformante, bisogna ricordare che i bronzi sono stati i
protagonisti di un profluvio di pubblicità ruspanti o grottesche.
Provocarono anche un turbamento erotico perché nella loro fulgente
nudità vennero riconosciuti e usati, da quella che ora si
chiamerebbe bolla mediatica, come portatori di una potenza sessuale
quasi indistinta sia verso le donne, sia verso gli uomini, come è
testimoniato dalle decine di pubblicità e copertine di giornali,
dibattiti sulla sessualità e, persino, dalla pubblicazione di
fumetti pornografici.
Alias domenica il
manifesto, 27 gennaio 2015
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