Robert Mapplethorpe, Autoritratto |
Alla Fondazione Forma di
Milano, nei primi mesi del 2012, si svolse una importante mostra
dedicata a Robert Mapplethorpe, il grande fotografo americano morto
nel 1989, che di sé aveva detto: “Se fossi nato un secolo o due
fa, forse sarei stato scultore”. All'evento “il manifesto”
dedicò una pagina molto bella con un articolo e una scheda di
Roberta Perna. Riprendo qui l'uno e l'altra, corredando il tutto con
alcune immagini citate nell'articolo, che ho ripreso dalla rete.
(S.L.L.)
Ken Moody e Robert Sherman |
Dalle polaroid dei primi armi Settanta
agli stili life, dai numerosi ritratti di artisti alla perturbante
serie dedicata alla campionessa mondiale di body building Lisa Lyon,
fino agli struggenti autori-tratti scattati poco prima di morire, in
cui la figura del teschio, simbolo tradizionale di vanitas,
rammenta allo spettatore l’estrema fragilità della condizione
umana, la retrospettiva di Robert Mapplethorpe allestita fino al 9
aprile negli ampi spazi della Fondazione Forma di Milano si rivela
un’occasione unica per approfondire il lavoro del grande fotografo
americano scomparso ormai più di vent’anni fa, nel 1989.
Attraverso più di centosettanta fotografie l’esposizione,
proveniente dalla Robert Mapplethorpe Foundation di New York,
ripercorre con grande efficacia e una impeccabile selezione delle
opere la ricerca visiva di uno degli autori più rilevanti del
panorama internazionale della seconda metà del Novecento.
Estetica punk
Il percorso di Mapplethorpe prende
avvio nella prima metà degli anni Sessanta con l’iscrizione al
Pratt Institute di Brooklyn, dove inizia a realizzare i primi collage
polimaterici, nei quali incorpora tra l’altro ritagli e foto tratte
da giornali e riviste. Alla fine del decennio risale l’incontro con
Patti Smith, a cui rimarrà sempre molto legato. Da questo intenso
rapporto affettivo prendono vita celebri scatti che popolano tuttora
l’immaginario visivo dei numerosissimi fan della cantante
americana, considerata a buon diritto madrina e antesignana del punk.
"Horses" , 1975 - Il primo album di Patti Smith |
A Mapplethorpe si deve la foto di
copertina dell’album di esordio Horses (1975), tra le più
famose e incisive della storia del rock, inserita dalla rivista
«Rolling Stone» nella lista delle cento migliori cover di tutti i
tempi. Tra i due, allora entrambi giovanissimi, si instaura un legame
profondo fatto di complicità e sostegno reciproco, un’affinità
elettiva che traspare chiaramente in Horses, dove Patti Smith
è ritratta come un’eroina antiborghese fortemente ambigua che, con
la sua androginia, i capelli scompigliati e gli abiti maschili, sfida
ruoli e convenzioni sociali.
Per lo sfondo della foto Mapplethorpe
sceglie la semplicità di un muro bianco nell’appartamento del suo
mecenate e amico Sam Wagstaff; l’abbigliamento della cantante,
apparentemente casuale, è in realtà studiato in ogni minimo
dettaglio, dal completo di taglio maschile alle bretelle, per
un’immagine carica di significati che diventerà a breve un punto
cardine dell’estetica punk. In mostra anche altri celebri ritratti
di Patti Smith, tra cui l’enigmatica foto di copertina di Wave
(1979), dove la cantante è ritratta con due colombe bianche posate
sulle mani, mentre fissa con i grandi occhi spalancati lo spettatore.
Curve e spigoli
L’ambiguità di tali immagini è un
elemento nodale della ricerca fotografica di Mapplethorpe: i rituali
sadomaso più violenti, al pari degli ieratici vasi di fiori,
generano un senso di perfezione dovuto all’incontro di realtà
contropposte, eppure complementari. L’esasperato studio della forma
- legato a una concezione della fotografia in netta antitesi rispetto
alla ricerca del «momento decisivo» - congela volti, azioni,
oggetti e persone per consegnarli intatti a un utopico ideale di
immortalità, a un presente assoluto, dilatato all’infinito, capace
di fagocitare passato e futuro.
Lisa Lyon, 1982 |
Le foto di Mapplethorpe si muovono a
ridosso dei generi, i suoi fiori sono insieme forme falliche e vagine
schiuse, i suoi corpi un’alternanza di curve e spigoli, una
costellazione altamente stilizzata di forme penetrate e penetranti.
Il fascino dei ritratti di Lisa Lyon, realizzati a partire dal 1980 e
confluiti nel volume Lady, Lisa Lyon (1983), scaturisce da un
particolare misto di attrazione e repulsione generato dalla
compresenza e dalla coesistenza di mascolino e femminino. Il corpo
statuario della campionessa di body building incarna
pienamente il mito della primordiale unione degli opposti, la
ritrovata compresenza di entrambi i sessi in un unico individuo. Alla
stessa esigenza di esprimere una sessualità fluida, non più
ancorata a generi e canoni stabiliti, rispondono i diversi
autoritratti in cui Mapplethorpe si presenta con labbra e occhi
vistosamente truccati, capelli cotonati, avvolto da un grande collo
di pelliccia Impossibile non pensare alla nota opera di Marcel
Duchamp, che all’inizio degli anni Venti si fa ritrarre da Man Ray
nei panni del suo alter ego femminile Rrose Sélavy,
costituendo un importante precedente per le numerose pratiche
performative incentrate sul travestimento e il cambio di identità
sviluppatesi durante tutto l’arco del Novecento, fino a oggi
Pratiche estetiche come quelle di Katarina Sieverding, Urs Lùthi,
Jürgen Klauke, Andy Warhol e altri, basate sulla messa in crisi del
tradizionale binomio uomo-donna, al fine di dare vita a un erotismo
ibrido e non normativo.
L’androginia, nel caso delle immagini
di Mapplethorpe, non interessa soltanto la sfera sessuale ma investe
più o meno apertamente tutti i soggetti ritratti, in cui elementi
positivi e negativi si compenetrano, fino a creare esseri (oggetti,
piante, persone) idealisticamente completi e autosufficienti. Non vi
è dunque soluzione di continuità tra le scene di bondage più
spinto e gli stili life più algidi: «Se guardo un pezzo di
pane o un fiore oppure te, il mio sguardo non è diverso», sostiene
Mapplethorpe in una lunga intervista realizzata da Janet Kardon,
tradotta per la prima volta in italiano nel catalogo della mostra
milanese, edito da Contrasto, a cura di Alessandra Mauro e Alessia
Tagliaventi.
La differenza tra le foto di S&M e
quelle di papaveri o calle risiede semmai nel rapporto che
Mapplethorpe instaura con i modelli. Un legame umano basato sulla
fiducia, che si traduce in un profondo senso di dignità del soggetto
ritratto, anche nelle scene sadomaso più crude e sconcertanti Il suo
lavoro è interamente fondato sulla capacità di trasmettere
sicurezza e affidabilità, di far avvertire il suo pieno
coinvolgimento nell’azione fotografica. Non vi è differenza alcuna
tra il fotografo dietro l’obiettivo e i modelli che praticano atti
estremi di bondage: Mapplethorpe è uno di loro e soprattutto è
percepito come tale.
Lady, Lisa Lyon |
«Altri fotografi», scrive
Mapplethorpe, «la vedono in tutt’altro modo, ma il fatto è che,
in quanto fotografo, collabori con il soggetto. Io sono solo la metà
dell’atto fotografico, se parliamo di ritrattistica, perciò tutto
dipende dall’avere gente che si senta bene con se stessa e con il
modo in cui ti ci rapporti. È allora che ne tiri fuori un momento
magico. Nei ritratti fare la foto è solo metà dell’opera:
lavorare sulla propria personalità fino al punto di riuscire a
trattare con ogni tipo di persona, quella è l’altra metà». La
reciprocità nel legame tra fotografo e modello si configura dunque
come punto cardine della prassi artistica di Mapplethorpe: «Dal modo
in cui i soggetti si danno all’obiettivo si capisce il rapporto
paritario con l’altro. Non stanno facendo qualcosa per una foto,
rispettano il fotografo».
Louise Bourgeois |
Soltanto a partire da una visione
siffatta si può spiegare la capacità di Mapplethorpe di creare
ritratti indimenticabili, come quello della scultrice francese Louise
Bourgeois (1982), ripresa mentre porta sottobraccio con estrema
disinvoltura una sua opera a forma di fallo gigante. Ha oltre
settant’anni, il volto rugoso, ma lo sguardo vispo e un po’
insolente di una bambina sorpresa subito dopo una birbanteria.
Forse non è un caso che Mapplethorpe
riesca a interpretare così magistralmente proprio la personalità di
una scultrice: «Se fossi nato un secolo o due fa, forse sarei stato
scultore, ma la fotografia è un modo così immediato di vedere, di
scolpire». Le sue immagini intrattengono difatti rapporti
strettissimi con la scultura, corpi possenti dei suoi modelli e mo
delle si trasformano in statue marmoree, in masse volumetricamente
scolpite e dalla superficie riflettente. Nella tensione muscolare del
nudo di Lysa Iion c’è un consapevole richiamo all’opera
michelangiolesca. L’attrazione per il corpo, soprattutto per quello
maschile, è sottoposta a un simultaneo processo di erotizzazione e
distanziamento estetico, l’immagine con la sua traboccante carica
sessuale è mediata e decantata dal filtro della scultura antica.
L’iconografia classica diventa il modello a cui conformare la
fisicità del corpo in carne e ossa, alla ricerca di una bellezza
ideale di winckelmanniana memoria.
La ricerca del bello
Ajitto |
Da qui nasce il forte interesse di
Mapplethorpe per l’opera del barone Wilhelm von Gloeden
(1856-1931), fotografo tedesco trasferitosi giovanissimo a Taormina,
celebre per i suoi tableaux vivants fotografici di efebi
abbigliati all’antica. Mapplethorpe non soltanto ne colleziona le
stampe, ma gli rende omaggio citandolo apertamente in opere come
Ajitto del 1981 o nell’autoritratto come fauno del 1985
(entrambe in mostra), rispettivamente ispirate al Caino e ai
numerosi satiri gloedeniaani. La ricerca estenuante della perfezione,
del bello a ogni costo, di corpi glabri e statuari da ritrarre
plasticamente, diventa il motore primo, l’impulso decisivo del
paradigma fotografico di questi due autori: voluttuosamente carnale e
dionisiaco Gloeden, ossessionato dalla purezza e
dall’assolutizzazione della forma Mapplethorpe.
Nel suo caso infatti il corpo diviene
oggetto di una radicale trasfigurazione, resa possibile da rigorosi
principi di geometrizzazione e iper-formalizzazione dell’immagine.
Criteri mentali, prima ancora che visivi, capaci di generare un
risoluto processo di astrazione della realtà, plasmata secondo le
idee di un grande fotografo che scolpisce il proprio mondo attraverso
l’uso di luci e ombre.
Calla (1984) |
SCHEDA
Dalle «Polaroids» al Whitney
Robert Mapplethorpe nasce nel 1946 nel
Queens (New York City).
Nel 1963 si iscrive al Pratt Institute,
dove studia disegno, pittura e scultura e realizza collage
polimaterici. Nel 1970 compra una macchina Polaroid con la quale
scatta le prime foto, che inizialmente inserisce nei collage. Nel
1973 la Light Gallery di New York ospita la sua prima mostra
personale «Polaroids».
A metà del decennio, con una Hasselblad
ricevuta in dono, inizia a ritrarre amici, conoscenti, artisti,
musicisti, personaggi della scena underground e del S&M. Nelle
seconda metà degli anni Settanta intensifica l’attività
espositiva: nel 1977 è alla Documenta di Kassel, nel 1978 viene
messo sotto contratto dalla Robert Miller Gallery. Nel 1986 realizza
le scenografie dello spettacolo di danza di Lucinda Childs,
«Portraits in Reflection». Nel 1988 il Whitney Museum gli dedica
una grande mostra antologica, un anno prima della morte avvenuta nel
1989 a causa dell’Aids.
Oggi il suo lavoro è promosso da
importanti musei, gallerie private e soprattutto dalla Robert
Mapplethorpe Foundation, da lui istituita nel 1988 per promuovere la
fotografia e finanziare la ricerca contro l’Aids. La mostra
allestita alla Fondazione Forma perla Fotografia, all'interno dello
storico deposito dei tram del quartiere Ticinese a Milano, comprende
una selezione di 178 scatti, provenienti appunto dalla Robert
Mapplethorpe Foundation. (r.p.)
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