L'estensore di questa
recensione si trova in un certo imbarazzo, dato che deve conciliare
due atteggiamenti diversi presi, pur nel corso del tempo, di fronte
alla saggistica di Calvino (come del resto anche alla sua opera
narrativa). Quando infatti lo scrittore ligure pubblicò negli Anni
50 o subito dopo saggi famosi quali il «Midollo del leone», il
«Mare dell'oggettività», la «Sfida al labirinto» (saggi che
giustamente sono all'inizio della presente raccolta, Una pietra
sopra, Einaudi, 1980), il
sottoscritto non lesinò le critiche e le riserve. Successivamente
invece il distacco o addirittura l'avversità si mutarono in accordo,
in consenso via via crescente.
Che cosa è successo, chi
è cambiato, l'autore o il lettore? Diciamo che si potrebbe parlare
di un onorevole compromesso: l'autore è passato senza dubbio
attraverso un'attenta autocritica, mentre il lettore, il critico si è
deciso a lasciar cadere un metro non troppo adeguato al suo oggetto,
vale a dire la pretesa di avere a che fare con uno scrittore «tutto
d'un pezzo», coerente e radicale nelle sue scelte: laddove Calvino
si dichiara, con volontaria e ironica adozione di uno stereotipo,
«alieno da ogni estremismo», continuamente portato a giocare su
vari registri e a praticare la figura retorica della palinodia:
autore, quindi, in via di perenne metamorfosi quasi sotto i nostri
occhi.
Nessuno ha saputo essere
più duro di lui, a posteriori, sulla nostra letteratura degli Anni
50, ravvisandovi alcuni difetti fondamentali: quello di voler
«rappresentare la coscienza etica e sociale dell'Italia
contemporanea», ovvero di essere illustrativa di una verità già
posseduta dalla politica, e l'altro, del resto confluente, di fare
mostra di un «assortimento di eterni sentimenti umani»; dal che
risultava anche un atteggiamento di paternalismo verso il lettore,
guidato per mano sulla giusta strada. Ma nei saggi famosi che ho
ricordato prima Calvino difendeva queste due ottiche, seppure con
quella cautela, quel filtro dubitativo che sono connaturati alla sua
personalità, e non senza avvertire il fascino degli idoli polemici,
appunto il «mare dell'oggettività», vale a dire la decisione, di
Robbe-Grillet e compagni, di farla finita con quella che altrove
Calvino stesso chiama la «melassa di umanità»; e il labirinto,
ovvero l'idea di un racconto che non si svolge linearmente: idea di
cui egli stesso in seguito diverrà un fervente cultore.
Ecco perché era giusto,
sullo scorcio degli Anni 50, polemizzare con «quel» Calvino troppo
cauto, che non rompeva la solidarietà con l'«impegno», con
l'umanesimo convenzionale, con la letteratura dei buoni sentimenti.
Ma di tutto ciò egli subito dopo ha fatto onorevole ammenda, e ha
ampiamente riconosciuto i meriti storici che allora spettarono alla
neoavanguardia per aver allargato l'orizzonte della letteratura,
adottando modelli aperti e problematici di interpretazione della
realtà.
D'altra parte, dopo il
periodo di scontro, non ci poteva neppure essere un incontro sulla
base di un comune estremismo sperimentale: non potevano certo
convenire a Calvino, né allora né in seguito, le ipotesi di una
ricerca linguistica «bassa», tra il dialettale e l'onirico, o di
una adozione normalizzata e quantitativamente espansa della «corrente
di coscienza». Bisogna però ricordare che i teorici della
neoavanguardia non puntavano tutte le loro fortune su questo solo
blocco di strumenti; venne introdotta abbastanza presto anche la
prospettiva di un ricorso alla comicità e all'ironia, oppure
a una letteratura «artificiale», «al quadrato». Del resto, stava
per sopraggiungere l'ondata dello strutturalismo a mutare il quadro
dei contrasti, a far sparire i partiti opposti degli storicisti
crociano-gramsciani e dei fenomenologi.
Le carte si
rimescolano, e nel corso dei primi Anni 60 si costituisce un diverso
blocco progressivo, appunto nel nome delle nuove metodologie
analitiche e strutturaliste mutuate dalla linguistica Calvino
vi aderisce in pieno, trovandovi anzi il clima più congeniale ai
suoi mezzi. Si vedano le pagine sempre centrate che egli dedica alla
letteratura intesa come artificio, come tessuto di elementi
«discreti», come «ars combinatoria»: tutto l'opposto di un
umanesimo sfumato e generico; e si aggiungano anche i validi amori a
livello internazionale, le scelte omogenee a un tale assetto di
fondo, indirizzate verso l'«oulipo» (Ouvroir de littérature
potentielle) di Queneau e la patafisica di Jarry. Alle giuste
prese di posizione teoriche fanno coerente riscontro le produzioni
letterarie, dalle Cosmicomiche a Ti con zero al
Castello dei destini incrociati; l'irrequietudine e la
mobilità, che in passato apparivano più subite che amministrate,
costituendo la spia di una insoddisfazione di fondo, ora risultano
legittime, «interne» in qualche modo alla poetica assunta, che
impone di «provare» senza sosta composizioni e formule diverse.
Questo Calvino maturo,
disponibile, cosmopolita diviene quasi la coscienza della letteratura
italiana più avanzata, e per esempio prende posizione in misura
energica quando scoppia il caso della Storia della Morante, in
cui è contenuta la minaccia di riportarci agli Anni '50, o forse
anche più indietro, e cioè proprio alla «melassa di umanità» da
Calvino così risolutamente denunciata. È vero che egli non manca di
gettare una ciambella di salvataggio all'illustre collega,
prospettando l'ipotesi che essa abbia voluto ritentare il «romanzo
popolare», dove cioè l'umanesimo sarebbe assunto come stereotipo
volontario; ma tra le righe è chiaro che egli denuncia la seriosità,
l'assenza di distacco critico di quell'operazione, ovvero la pretesa
di far piangere il lettore, il che equivarrebbe a ritrovare una
superiorità paternalistica su di lui. A ciò Calvino risponde
optando per due vie ben diverse: farlo ridere, che vuol dire essergli
inferiore, essere il suo giullare, o fargli paura, che è un modo di
stabilire un rapporto di complicità alla pari, in nome di un fine di
intrattenimento piacevole, e non di edificazione.
Beninteso, anche in
questa prospettiva pur così congeniale di una letteratura discreta,
combinatoria, artificiale, Calvino non vuol fare l'estremista, andare
fino in fondo. Sarebbe pertanto sbagliato valutarlo sul metro di
Roussel, o di Robbe-Grillet, o di Borges, come pure è stato fatto di
recente: egli si avvia di volta in volta per la loro strada, ma poi
scatta un» meccanismo di palinodia, di controcanto, che magari lo
vede impegnato a ritrovare un po' di umanità, o di mistero, o di
mito. Non tutto avviene alla superficie, alla luce del sole. Calvino
è troppo versato nelle attuali scienze umane, per potersi permettere
di trascurare l'inconscio freudiano, o, secondo le sue stesse parole,
«il mare del non dicibile».
È questo un alibi che
gli consente di non affidarsi esclusivamente a una sola parte, ma di
essere sempre, e letteralmente, altrove. Giungiamo così al recente
Se una notte d'inverno un viaggiatore, ove le prese di distanza non
avvengono solo verso ogni pretesa natura del racconto, ma perfino
verso una sua artificialità, troppo scoperta e meccanica,
nell'intento di ammorbidirlo, di dotarlo di un po' di carne e di
consistenza naturale.
“Tuttolibri La Stampa”,
31 maggio 1980
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