Era odiato dai rivali
per i metodi con cui otteneva le commissioni
Venezia, Chiesa di S. Maria della Salute, Tintoretto, Le Nozze di Cana |
Non finì mai in
prigione, come Cellini; né uccise un uomo in una rissa, come
Caravaggio. Non morì in miseria né suicida. La sua vita non fu
inquieta come la sua opera. Eppure Tintoretto si è meritato nella
storia dell'arte una leggenda duratura di simpatica canaglia. Un
aggressivo, incendiario grano di pepe. Un pazzo e un mascalzone –
un "tristo", per usare le parole di Pietro Aretino (il
quale doveva intendersene, essendo la massima canaglia del momento).
Ma cosa aveva fatto Tintoretto per guadagnarsi questa fama? Qual'era
il suo crimine? Non sapremo mai quanti quadri ha dipinto. Chi dice
468, chi 420, chi 260. Per ogni Tintoretto che viene espunto dal
catalogo e declassato a prodotto di bottega, di copista o imitatore,
ne spunta un altro, che riemerge con grande clamore mediatico da un
castello inglese, dal mercato antiquario o da chissà dove.
Ma anche senza
addentrarsi nel ginepraio delle attribuzioni, Tintoretto dipinse più
di tutti gli altri pittori del suo tempo, e più di quanto sembra
umanamente possibile. "Certo che egli abbraccia troppo",
lamentava un conoscente già nel 1556, quando la sua bulimia creativa
non si era ancora scatenata. Giorgio Vasari deprecava i ghiribizzi
dell´intelletto che lo spingevano a dipingere "fuori dall´uso
degli altri pittori" e a non rifinire i quadri; Federico Zuccari
lo accusava di avere fatto decadere la pittura con la sua frenesia e
il suo furore.
Ma la tecnica pittorica
di Tintoretto non li scandalizzava meno dei metodi coi quali si
procurava il lavoro. Perché non rispettava precedenze né gerarchie.
Era refrattario alle regole in un'epoca in cui parole e comportamenti
erano rigidamente codificati. I suoi faticosi primi quindici anni di
attività gli avevano insegnato che i concorsi non si vincono col
progetto migliore. Ma con quello meglio appoggiato. Così Tintoretto
s'ingegna. È disposto a manipolare il concorso, a farlo annullare. A
lavorare gratis. A contraffare lo stile altrui, a essere se stesso e
i suoi rivali, a dipingere in ogni maniera – a essere ognuno. La
sua ubiqua inafferrabilità aizza il malumore dei colleghi e le
ironie dei critici.
Ma che cosa vuole
veramente Tintoretto? Denaro? Riscatto sociale? Rispettabilità?
Primato sugli altri pittori? Gloria? Forse. In sessant'anni di lavoro
si costruisce una posizione, sposa una borghese, schianta la
concorrenza, crea una fiorente bottega-azienda, si compra una casa
con vista sul canale, diventa celebre. Ma in realtà non gli importa
nulla di tutto questo. Ciò che solo vuole, e i suoi contemporanei
non lo capiscono, è dipingere. È coi quadri che parla e pensa, la
pittura l'unica lingua in cui si esprime e si rivela. A quel tempo un
pittore non dipingeva per sé. Era inconcepibile. Dipingeva solo su
commissione. Dunque Tintoretto ha bisogno di commissioni. E se le
procura, a qualunque costo e in qualunque modo. Alla fine, possiamo
pensare che fosse dominato e posseduto da una magnifica ossessione:
dipingere tutto. Far sì che in ogni contrada di Venezia, chiesa,
cappella, palazzo, soffitto, facciata, sala di riunioni, altare,
tribunale, restasse traccia di sé. Nascondersi nell'opera, e in essa
essere in salvo. Era forse una temeraria, folle sfida alla morte. E
Tintoretto l´ha vinta.
la Repubblica 25 febbraio 2012
Nessun commento:
Posta un commento