Colette in "La chair" (1908) |
Anche la scelta del
teatro è, in Colette, segno di un'ambiguità perché risponde, allo
stesso tempo, all'esigenza — che le è propria — di esibirsi e al
bisogno, in senso letterale, di sopravvivere. Così Colette è
attrice di music hall e mima agli inizi del Novecento, prima di tutto
per un atto di ribellione contro il primo marito molto amato —
Henry Gauthier-Villars detto Willy — che l'ha brutalizzata in ogni
modo anche psicologicamente 'rubandole' addirittura il lavoro e
firmando con il suo nome i romanzi scritti da lei; e poi anche per
affermare una nuova scelta sessuale che passa, questa volta, non per
un uomo, ma per Lesbo.
La scelta del teatro,
dunque — come quella dello scrivere, del resto —non è del tutto
innocente ed è frutto del suo desiderio di mettersi in mostra. Nello
stesso tempo, però, Colette prova un senso di colpa per il suo
esibizionismo, malgrado la sua decisione — che è poi la sua
concezione del pudore — di non rivelare mai a nessuno i suoi
sentimenti più profondi. Scrive infatti: "Passano dei mesi,
degli anni, durante i quali, dandomi qua e là allo spettacolo usavo
del diritto di non parlare di me stessa”.
Eppure — e questo è il
segno della sua creativa contraddizione — nulla come il suo essere
attrice parla di lei, del suo narcisismo, della sua voluttà di
scandalo.
E scandalo infatti — e
narcisismo — l'aver sostituito la calzamaglia, d'obbligo nei primi
mimodrammi, con il nudo autentico sotto i drappeggi. D'altra parte,
però, la scelta che risponde ai dettami di quel naturalismo un po'
perverso che è una delle «chiavi» di Colette non è interamente
sua ma si uniforma alle pressioni esercitate dall'ambiente e dagli
impresari. Sul suo talento teatrale i critici dell'epoca sono divisi:
gli uomini non l'amano “ballava la pantomima — scrive uno di loro
— nuda: triste esibizione”. Ma una signora del surrealismo, la
grande Rachilde sostiene, al contrario, che Colette “non ballava,
ma viveva il suo sogno e tramutava in natura vera la più artefatta
delle visioni”.
Colette negli scandalosi abiti maschili che indossava nei primi anni del 900 |
Suo maestro in questi
anni scapigliati vissuti pericolosamente, vicinissima al credo
sessuale e al circolo esclusivo di personaggi come Nathalie Barney e
Renée Vivien, è il mimo Georges Wague, emulo del grande Debureau; i
suoi teatri il Moulin Rouge, la Gatte Rochechouart, il Ba-Ta-Clan; le
sue colleghe le tante ragazze che con la valigetta del trucco
sottobraccio e un mantello leggero sulle spalle sfidano — un po'
proterve, ma generose sempre — la fame, il freddo e l'indifferenza.
Ed è pensando a loro e a sé che nella Vagabonda Colette si
lascia andare a una riflessione che sarebbe piaciuta anche a Genet:
“A testa alta, come dei detenuti superbi, noi sopportiamo il
disprezzo e il desiderio della folla in calore”. Quello che
importa, allora, sta dietro alle quinte, al di là dello specchio
dentro il quale guarda il pubblico e parla di passioni, di dolori e
di miserie.
Anche come attrice
Colette non viene mai meno alla sua fama di 'scandalosa': il 3
gennaio del 1907, in coppia con la donna che è la sua compagna anche
nella vita, la marchesa di Belbeuf nata Morny detta familiarmente
Missyche adora i vestiti da uomo, al Moulin Rouge recita in Sogno
d'Egitto scritto dall'amica: storia di una mummia che,
svegliatasi dal sonno eterno, si scioglie dalle bende e, nuda, danza
i passati amori. Ma la vita d'attrice di Colette è solo un momento
nella sua storia di donna: un passaggio necessario, segnato dalla
trasgressione, prima di affermarsi come scrittrice e giornalista,
trovare un secondo marito e trasgredire ancora, magari solo con la
penna.
Dopo il secondo
matrimonio con Henry de Jouvenel, infatti, il binomio Colette-teatro
riguarda solo la sua attività di scrittrice anche se piuttosto
marginalmente: è la riscrittura per il palcoscenico a quattro mani
di un celebre romanzo, Chéri, cavallo di battaglia di più di
una signora della scena europea. Un soggetto in cui c'è — ancora
una volta — tutta Colette: la storia di una donna non più giovane,
Lea, mondana di professione (e i modelli sono celebri: Liana De Pougy
e la Bella Otero) che s'innamora e mantiene un bell'adolescente allo
stesso tempo tenero e perverso al quale dà il nome di Chéri, ultimo
padrone-giocattolo di una consapevole maturità resa forse meno
triste nelle sue rinunce dal fatto ai potere bere la cioccolata
stando a letto fra belle lenzuola ricamate. E il tema
dell'adolescenza come momento della vita in cui tutto è possibile
torna anche in Gigi, ridotto per le scene da Anita Laos e poi
diventato un musical cinematografico, ma anche in un altro romanzo
poi diventato film (regia di Autant-Lara) Il grano in erba,
nato sviluppando il progetto, mai andato in porto, di un atto unico
per la Comédie dove, nel buio più fitto, ad alzar di sipario, un
uomo e una donna parlano, con molta maturità ed esperienza, d'amore.
Salvo poi lasciare il pubblico di stucco quando, alla fine, si rende
conto che lui e lei non sono che due ragazzi.
Ma anche questa nostalgia
dell'adolescenza, della sua totalità inquietante e aggressiva, della
sua indifferenza, della sua noia e della sua amoralità vogliono dire
scandalo per Colette. E lo scandalo coinvolge sia Cheri che
piace enormemente a Gide, che Il grano in erba, ma non
scalfisce minimamente la consapevolezza, ormai matura, della
scrittrice e, soprattutto, della donna. Così quando nel 1945 un
giovane giornalista le chiede arrossendo se Chéri è esistito
davvero Colette replica con assoluta tranquillità: “Ragazzo,
potrei rispondervi che, sì, ho conosciuto Chéri, e più di uno,
come tante altre tentazioni. A ogni donna i suoi turbamenti e il
confronto con turbamenti diversi”. Ancora una volta è tutta
Colette a rispondere: la 'scandalosa' come parve a molti, e il 'genio
francese' come sembrò ad alcuni.
“l'Unità”, 21
settembre 1986
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