Dopo il suo viaggio negli Stati Uniti dell’86 per rivedere la sua
famiglia, Ava Gardner non era più stata bene di salute. Il suo
corpo, ha precisato Paul Mills, verrà ora traslato nella cittadina
americana di cui era originaria, Smithfield, nella Carolina del nord,
per essere sepolto nella tomba di famiglia.
Una delle star più note degli anni '50 (tra le sue principali
interpretazioni I gangsters, Il bacio di Venere, Le
nevi dei Kilimangiaro, Mogambo, La Maia desnuda e
La contessa scalza), Ava Gardner aveva lasciato Hollywood dopo
il fallimento del suo matrimonio con Frank Sinatra. Viveva a Londra
dal 1968. Nel 1986 aveva avuto un infarto.
Nata Lucy Johnson il 24 dicembre del 1922, prima che con Sinatra la
Gardner era stata sposata con l’attore Mickey Rooney e con il
musicista jazz e direttore d’orchestra swing Artie Shaw.
«Le piaceva vivere a Londra - ha detto Mills - non amava la fretta
del nord America. La gente era abituata a vederla a passeggio con il
suo cane nel parco. Nessuno la disturbava». La Gardner viveva in una
tranquilla piazza alberata vicina a Hyde Park.
Era diventata «la donna più bella del mondo» quando nel
film di Joseph Mankiewicz, La contessa scalza (The Barefoot
Contessa, 1954) cantò l’ultimo canto della diva. Simulacro
della donna irragiungibile del grande schermo, mentre la tv marciava
contro Hollywood, Ava Gardner fu immortalata nel marmo di una pietra
tombale, gelida statua della bellezza, a cui piedi piangeva, sotto
una lugubre pioggia, Humphrey Bogart.
Era morta uccisa dal marito impotente (Rossano Brazzi), incapace di
sfiorarla, paralizzato di fronte alla sua regalità di star, alla sua
essenza di pellicola. Lui non poteva che adorarla, che tenerla
segregata nello splendido palazzo italiano a picco sul mare. E quando
lei, fatta di carne e sangue, aveva cercato la passione e la
maternità in un rapporto con un uomo senza fantasia (il suo autista)
lui l’aveva uccisa e fissata per sempre nella perfezione immortale
della pietra (del film). Humphrey Bogart, ultimo testimone della
Hollywood d’oro, come lei, era stato il suo unico amico e
confidente. L’unico che poteva capire il dramma della morte a cui
il divo era destinato inesorabilmente con l’avvento della civiltà
elettronica.
Ed è proprio Hollywood la causa della tragedia: lei
all’inizio del film è solo una piccola e ardente ballerina
spagnola, che a malavoglia accetta di diventare star, dopo le
pressanti richieste di un produttore nordamericano (e di un regista:
Bogart). È l’inizio della sua fine. Hollywood la trascinerà nella
sua caduta. E forse il film di Mankiewicz contribuì alla decisione
dell’attrice di lasciare «l’industria dei sogni» per l’Europa.
Già tre anni prima del magico parco di Ravello dov’è ambientata
La contessa scalza, un altro film, Pandora di Albert
Lewin (Pandora and the flyng dutchman, 1951) giocava sulla
straziante lotta della «più bella del mondo» contro se stessa,
contro una donna a cui la vita è negata. Bellissima ancora nei
colori pastello del film, Ava Gardner si innamora dell’Olandese
Volante, un uorpo venuto dal passato, che con lei divide la
consistenza dell’ectoplasma. Gli occhi fissi sulle nuvole che
sovrastano l’oceano, Pandora aspetta l’apparizione del vascello
fantasma (quello di Peter Pan, del ragazzo che non voleva crescere) e
della sua unica possibilità di esistere: morire per il mondo e
raggiungere l’infinita felicità delle stelle.
Ma la carriera di Ava Gardner, un’immagine-pulsione fortissima
della storia di Hollywood (non a caso circondata dai più fantasiosi,
barocchi, alternativi e piccanti aneddoti extra-set tra i quali la
love-story con Lana Turner che turbò molto Frank Sinatra) per noi
europei, è concentrata soprattutto in un «triangolo delle Bermude»
di film dall’eros incandescente e dalla plastica inusuale che si
completa con Il sole sorgerà ancora di Henry King (’57,
20th Century Fox). Lo ha scritto Gilles Deleuze
nell'Immagine-movimento: «Un tipo originario di donna
imperiale e atletica è rappresentato da Ava Gardner: per tre volte
la pulsione la trascina irresistibilmente a unirsi all’uomo morto o
impotente (Pandora, La contessa scalza e Il sole
sorgerà ancora).
Tutta la carriera dell’attrice è segnata da questa mortale
seduzione del cinema. E non a caso in L’uomo dai sette capestri
il suo ruolo è quello della mitica celebrità, che si crede morta, e
che alla fine del film, come in un sogno, appare per un attimo, e che
squarcia lo schermo con il fascino del passato. Fu il suo amico John
Huston (che l’aveva diretta nella Bibbia e nella Notte
dell’iguana), nel ’72, a sbalzarla dal bassorilievo nel
quale, non senza ironia, s’era adagiata e trasformarla, per gioco,
in statua vera e propria, ma «da arredamento saloon», divinità per
un solo adoratore, il tremendo giudice Roy Bean.
Ava Gardner si era presa, fino ad allora, sempre troppo sul serio, da
quando nel ’46 aveva più o meno esordito come perversa e vorace
Kitty Collins in I gangsters di Robert Siodmak (con
Lancaster), ma con fossetta indifesa sul mento, fino a quando, in
Urss, diretta da George Cukor, aveva indossato i panni addirittura
della «Lussuria», nel Giardino della felicità (’75, da
Meaterlinck).
In
mezzo, amori spagnoli, tauromachici,
il flirt con Walter Chiari, una sfilza di catastrofici finali «all
old stars», e la bellezza bianca, bruna, distante, radiante e altera
che Hollywood aveva preferito mandare in giro in tutto il mondo,
meglio se incastonata in ambienti esotici afro-latini, tra iguane e
Kilimangiari, il più lontana possibile dalla asessuata civiltà
puritana e ariana che proprio non si addice a Hollywood.
“il manifesto”, 26 gennaio 1990
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