Octavio Paz |
Il nodo del problema -
esplicito o implicito in ogni discussione della cultura del nostro
secolo - è questo: se la storia sia una, come affermazione d'una
scala di valori universale, svolgimento lineare d'un discorso
traducibile in ogni lingua, oppure se i valori veri risiedano in ciò
che è particolare d'una cultura e linguaggio, in ciò che è
inassimilabile, irriducibile al corso d'una storia che pretenda
d'essere univoca, e se cercati nell'ambito dell'individuo, si trovino
nell'esplorazione dell'io più intimo ed esclusivo, nell'espressione
di ciò che è al di là della parola o almeno del discorso pubblico.
Tra questi due poli, con innumerevoli gradazioni intermedie, si
possono situare le proposte intellettuali che hanno più contato nel
corso della nostra vita.
Questo nodo problematico
è rappresentato in modo esemplare in Octavio Paz. Le sue meditazioni
sull'identità messicana nel Labirinto della solitudine
l'hanno portato a rivendicare insieme i valori delle civiltà
preispaniche dell' America Centrale e quelli d'una cultura universale
dell'era moderna, sia nel senso della vocazione universalista di una
parte della cultura spagnola, sia nel senso della cultura europea, e
francese in particolare, che trae origine dai Lumi e dalla
Rivoluzione francese. Valorizzando il tesoro nascosto nelle antiche
mitologie dei popoli del Messico (e poi anche in quelle dell'India
dove egli è vissuto a lungo come ambasciatore del suo paese) e la
funzionalità delle loro strutture sociali autoctone, l'opera
saggistica di Octavio Paz si situa nel filone della critica dell'idea
di progresso lineare ed eurocentrica e tecnocratica. Ma per far
questo egli svolge un discorso che ha la Storia come sua spina
dorsale, e ciò lo rende particolarmente vicino a noi italiani, dato
che la nostra cultura, almeno fino a ieri, è stata fatta - si può
dire - esclusivamente di interpretazioni storiche o prospettive
storiche. (Forse non è un caso che questa preferenza per il discorso
storico accomuni popoli che hanno avuto bisogno di definire la
propria identità attraverso uno sforzo di costruzione
intellettuale).
Nello stesso tempo va
tenuto presente che Octavio Paz è innanzitutto un poeta e che
l'esperienza della poesia è il tema di gran parte dei suoi saggi.
Tra i lineamenti del suo profilo intellettuale vanno dunque
considerate la fluidità lussureggiante, barocca e poi simbolista,
d'una tradizione ispanica e ispano-americana, e nello stesso tempo la
lucida densità filosofica di Suor Juana Inès de la Cruz, il tutto
proiettato sull'orizzonte della poesia mondiale contemporanea, della
grande rivoluzione nell'uso della mente e del linguaggio che è
l'eredità di Rimbaud, Mallarmè, Apollinaire e poi del surrealismo.
Il senso complessivo del suo discorso potrebbe dunque essere definito
così: come le mitologie extraeuropee, così le punte estreme della
poesia e dell'arte contemporanee provano che il pensiero razionale,
storico, scientifico lascia fuori modi d'essere e di sapere
insostituibili. Detto questo, bisogna anche osservare che il discorso
di Paz, tanto nel ricercare le radici autoctone profonde quanto nel
vivere le esperienze più avanzate della letteratura e dell'arte
internazionale, è sempre pensato ed espresso nel linguaggio del
rigore razionale e della consapevolezza storica. (La storia della
cultura è sempre presente quando Paz definisce un'esperienza
intellettuale, sia come continuità ideale, per esempio tra J.J.
Rousseau e Andrè Breton, sia come analogie o contrasti suggestivi,
per esempio tra Giordano Bruno e Marcel Duchamp).
Solo il rispetto delle
singolarità - nella natura e storia d'ogni singolo ambiente e
individuo - può salvarci dalla imposizione di modelli che pretendono
d'essere universali e che finiscono per essere universalmente
oppressivi. Così il modello di rivoluzione che - nonostante la
ricorrente illusione d'una rivoluzione diversa dalle altre, coerente
allo spirito autoctono - risulta sboccare nella uniformità senza via
d'uscita del totalitarismo poliziesco. Le riflessioni di Octavio Paz
su questo problema, in particolare quelle degli ultimi anni, sono una
confutazione rigorosa di queste illusioni e del mito d'una
palingenesi rivoluzionaria latino-americana, mito che porta
direttamente all'accettazione del peggiore modello di potere
assoluto. Anche le ragioni più sacrosante da cui una rivoluzione può
nascere, e la spinta alla soluzione di problemi reali che una
rivoluzione porta con sé, vengono presto soffocate dalla estranea
corazza di ferro dell'adesione a un sistema di potere che risponde
solo alla logica della propria conservazione.
Cosa proporre come
alternativa? Appartengo a una generazione che si è tormentata per
molti anni cercando una soluzione a questi problemi, sia pur nelle
forme diverse che essi assumono nel cuore della vecchia Europa. Oggi
credo che più che inseguire soluzioni generali che non esistono,
conta essere preparati a riconoscere che il mondo è sempre più
vasto e molteplice e diverso di quel che noi crediamo, e tra tante
verità parziali che il mondo ci propone è importante capire qual è
la propria parte di verità e tenersi a quella, senza sentirsi
obbligati a far proprie verità che non ci appartengono, come spesso
i giovani si sentono in obbligo di fare, per conformismo o
anticonformismo.
Come mia tendenza
dominante sono sempre stato proiettato più verso il futuro che verso
il passato, e il futuro ha avuto sempre per me un'immagine
metropolitana, tecnologica, cosmopolita. La nostalgia dell'arcaico,
del paesano, del dialettale (o anche soltanto del mondo della propria
infanzia), atteggiamento molto diffuso nella cultura in cui mi sono
formato, l'ho sentita più come una limitazione d'orizzonte che come
uno stimolo poetico e intellettuale. D'altro canto so, soprattutto
oggi, che il poeta, lo scrittore, il filosofo, lo storico, sono e
devono essere coloro che ricordano il passato, in un mondo che sembra
andar avanti senza sapere dove lo portano i suoi passi e quali rischi
si aprono sul suo cammino. Dico il passato in quanto esperienza di
valori, o meglio in quanto scelta di valori da salvare da quella
immensa somma d'esperienze negative che è la Storia.
È questo il passato
che, volando verso il futuro, guarda l'angelo di Klee caro a Walter
Benjamin. Ma non vorrei che questo sguardo sul passato fosse inteso
come un attaccamento a quanto è più vicino, familiare e facile. Al
contrario direi questo, anche basandomi sull'esperienza della
letteratura: più ci si allontana dai territori dei propri
predecessori diretti, più ci si sentirà in sintonia con chi apriva
nuove vie in epoche più lontane, anche a distanza di secoli: come se
rifiutando la continuità con la tradizione recente per ricercare il
nuovo, si ristabilisca una continuità con una tradizione più
profonda e più fruttuosa. Il rifiuto del passato prossimo è la
condizione necessaria per il recupero del passato dimenticato, il
solo che favorisca l'espressione del nuovo.
Ricordare è necessario,
ma dimenticare è una funzione altrettanto vitale per il pensiero. Il
vero compito dell'intellettuale è quello di aiutare a ricordare il
dimenticato, ma per far questo deve prima aiutare a dimenticare ciò
che ricordiamo troppo: idee ricevute, parole ricevute, immagini
ricevute, che ci impediscono di vedere e pensare e dire il nuovo. Non
è un compito da poco: dimenticare e ricordare sono entrambe
operazioni estremamente difficili, e nella scelta di cosa dimenticare
e cosa ricordare, le possibilità di sbagliare sono innumerevoli;
mentre un singolo atto di giusto oblio o un singolo recupero della
memoria giusta già basterebbe a giustificare una vita.
P.S. Avevo appena spedito
questo testo al convegno messicano, quando ho letto sull'ultimo
numero (5/6) di “Linea d' ombra” uno scritto molto bello di
Francesco Ciafaloni sulla vita paesana nell'Abruzzo d' oggi, in cui
si parla della positività del dimenticare, in modo che mi convince
che il mio argomento dovrebbe essere sviluppato secondo un'altra
angolazione. Infatti non ho toccato il punto più importante che
Ciafaloni mette in luce: come solo il "dimenticare" renda
possibile la trasposizione d'un'eredità di valori in altri ambienti,
tempi, contesti culturali, ma con una "potenzialità
universalistica che è il contrario del vuoto". Partendo da un'
affermazione di Ernest Gellner, "una volta per essere
gentiluomini non occorreva sapere davvero il greco e il latino, ma
averli dimenticati", Ciafaloni scrive: "A me sembrava, e
sembra, che le mie particolarità culturali, quelle che potrebbero
rendermi diverso, anche se leggo presumibilmente testi analoghi, da
un australiano o da un canadese, non sia il ricordare e il difendere
la società e i valori della montagna abruzzese, ma l'averli
dimenticati, l'averli trasformati al punto che sono oggi
riconoscibili solo a me". Così resi astratti e non più legati
a un clan, acquistano, solo allora, un potere di convergenza
universale.
“la Repubblica”, 11
settembre 1984
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