Nell'aprile del 1974 era
in corso la campagna per il referendum voluto dai clericali per
l'abrogazione della “legge Fortuna”, quella che nel 1970 aveva
introdotto in Italia l'istituto del divorzio. Tra i sostenitori del
Sì all'abrogazione era in prima fila Giorgio Almirante, il
segretario del MSI neofascista, e con lui tutto l'apparato del suo
partito di estrema destra. In prima fila per il No all'abrogazione
c'era l'UDI (Unione Donne Italiane), la storica associazione delle
donne di sinistra, a quel tempo in grande crescita, insieme
alimentata e scossa del vento del femminismo. Per il 25 aprile il
settimanale dell'UDI “Noi donne” pubblicò uno speciale dal
titolo I fascisti: sempre gli stessi contro la donna,
sul maschilismo nel ventennio e dopo il ventennio. Ci sono ben due
articoli dedicati al cinema, uno del critico Enzo Rava centrato sulla
figura femminile nei film italiani degli anni Trenta e un altro di
Patrizia Carrano su un film recente, il Mussolini ultimo
atto di Carlo Lizzani, una
“stroncatura” molto ben riuscita. Non sono del tutto d'accordo
con la Carrano a proposito del film, ma il suo pezzo mi pare un
notevole esempio della critica femminista di quegli anni, degno di
essere fatto conoscere anche a 43 anni di distanza dalla sua stesura.
(S.L.L.)
Nell’ambiguo
film di Lizzani
Mussolini ultimo
atto
è
chiara solo una cosa:
per
il capo fascista
la
moglie sta a casa
e
l’amante nell’alcova
Il vero, assoluto protagonista del film Mussolini ultimo atto è l’amore di Claretta Petacci e di Ben, come lei affettuosamente chiamava «il duce». Solo che, probabilmente Lizzani s’è confuso, e ha creduto di girare un film sulla tragedia di Mayerling, una versione in costume anni quaranta di Giulietta e Romeo, una interpretazione romanzata in panni semimoderni di Paolo e Francesca, e non come invece lui stesso sostiene « la ricostruzione del grande dibattito intorno alla fine di Mussolini che si svolse a Milano, nei comandi tedeschi, nelle ambasciate alleate, nelle zone partigiane ».
Infatti
più che all’epilogo d’una tragica pagina della nostra storia noi
assistiamo alla fuga di due amanti braccati: lui tetro, compreso di
apocalittici pensieri eppure dignitoso e presente a se stesso. Lei
disperata, piangente, romantica, felice finalmente d’essere vicina
al suo «lui», che ormai da tanti anni divideva non solo con la
legittima consorte ma anche con tutte le altre occasionali
visitatrici di palazzo Venezia. Già, perché come tutti gli amanti
della tradizione i due non solo sono ostacolati nella loro ricerca di
felicità dal mondo esterno (e cioè alleati, partigiani, tedeschi
tutti mescolati in un unico calderone), ma anche da una condizione
oggettiva: lui è sposato, ama fervidamente lei, ma non si stacca dal
talamo nuziale; la tiene presso di sé ma intanto telefona alla
moglie (e, mascalzone, le dice anche che è l’unica donna che abbia
mai veramente amato, mandando in vacca cosi il sentimento che lo lega
all’amata e insinuando in noi il dubbio che sia un farabutto).
Salvo poi riabilitarsi quando, «costretto» a salvarsi e a indossare
un cappotto tedesco per sfuggire alla cattura, chiede che anche lei
possa essere sottratta alla furia del popolo (che guardacaso sono gli
antifascisti italiani). Alla fine però, queste due vite, vincolate
dall’amore e divise dal fato si riuniscono nella morte. E c’è
anche da chiedersi se non andranno in paradiso.
Carlo
Lizzani ha con questa sua ultima fatica fabbricato un polpettone
degno della campagna elettorale di Almirante. Fu Almirante infatti a
dichiarare alla televisione italiana che «i missini non rinnegavano
la resistenza e i suoi valori, ma neppure il fascismo e il suo
contributo alla storia d’Italia»: anche questo film non rinnega
niente e sotto un falso pretesto di oggettività racconta la storia
di un uomo sconfitto sul campo delle armi (l’inizio mostra una
grande cartina con le conquiste tedesche che pian piano si riducono
sino a diventare quella stretta lingua di terra in Italia e in
Germania in cui si svolsero i fatti dell'aprile del ’45) al quale,
forse un po' troppo frettolosamente, viene fatta la pelle. Il
Mussolini di Lizzani assomiglia paurosamente a Napoleone, forse anche
per colpa di Rod Steiger che già interpretò la figura del
condottiero francese nel film di Bondarciuk.
Noi tutti sappiamo che Napoleone era un guerrafondaio, che la sua era
una politica d'imperialismo sfrenato, che la sua «grandeur» era
l’espressione duna ideologia reazionaria (come prova del nove
basta ricordare che le leggi napoleoniche, poi applicate anche in
Italia sono il condensato della misoginia e che considerano la donna
come un oggetto di proprietà del marito). Però è anche innegabile
il fascino dell'imperatore, un fascino a cui i francesi ancora non si
sono sottratti.
Ora
non vorremmo che film come quello di Lizzani contribuissero a
irreggimentare quella sparuta truppa di nostalgici che ancora
inneggiano alle camicie nere fasciste. Il Mussolini di Lizzani è in
fondo un uomo probo e dignitoso, uno statista che ha fatto errori di
valutazione, e che ha sopravvalutato la forza dell'esercito tedesco,
un politico intelligente tradito da quei tristi fantocci dei suoi
generali. Che se non fossero stati cosi stupidi, non l’avrebbero
neppure condotto alla rovina. Tradito dai suoi, tallonato dai
tedeschi, braccato dagli inglesi e dagli italiani, Mussolini diventa
da carnefice vittima. E i partigiani degli algidi killer di maniera.
C’è un solo momento in cui il film abbandona le cupe voragini
della confusione e del qualunquismo: ed è quando i partigiani della
brigata Garibaldi mobilitano gli operai della fabbrica per ingannare
la colonna tedesca: ma anche lo sventolio della bandiera rossa, sulla
ciminiera dell’officina ha ben poca efficacia: lo stile è quello
d’un carosello per la réclame della pasta dentifricia. Lo stesso
colonnello Valerio non riesce a conquistarsi le simpatie del
pubblico: certo ha il bel viso di Franco Nero, ma in fondo tutta la
platea finisce con lo sperare nella fuga di Mussolini in Svizzera e
nel gioire di tutti gli impicci che si frappongono al compimento
della missione dei partigiani.
Due possono essere le ragioni di un film tanto disastroso e ambedue non fanno certo onore a Lizzani: la prima è una oggettiva ambiguità nelle intenzioni politiche, la seconda è invece una sostanziale onestà d'intenti tradita dall'incapacità di realizzarli. In ognuno dei due casi il verdetto è sconsolante: e pensare che Lizzani è un regista al quale dobbiamo un film sul fascismo, appunto, come Il processo di Verona. Anche Claretta, che vista l'importanza data al suo personaggio avrebbe potuto essere la giusta occasione per fare un discorso sulla donna «nera», fascista, legata fino alla fine al mito del duce, dell’eroe, vittima dell'ideologia che delle donne ha saputo fare solo delle vittime è, nel film di Lizzani, un personaggio che ha accenti più isterici che critici.
Due possono essere le ragioni di un film tanto disastroso e ambedue non fanno certo onore a Lizzani: la prima è una oggettiva ambiguità nelle intenzioni politiche, la seconda è invece una sostanziale onestà d'intenti tradita dall'incapacità di realizzarli. In ognuno dei due casi il verdetto è sconsolante: e pensare che Lizzani è un regista al quale dobbiamo un film sul fascismo, appunto, come Il processo di Verona. Anche Claretta, che vista l'importanza data al suo personaggio avrebbe potuto essere la giusta occasione per fare un discorso sulla donna «nera», fascista, legata fino alla fine al mito del duce, dell’eroe, vittima dell'ideologia che delle donne ha saputo fare solo delle vittime è, nel film di Lizzani, un personaggio che ha accenti più isterici che critici.
"Noi donne", 23 aprile 1974
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