“Neanche
un giorno senza un rigo”. Rigo musicale o di lettera per lui pari
furono. Non venivano prima né la musica né le parole: compositore
fecondissimo, di spaventosa velocità, depresso quando per qualche
ragione la vena si bloccava (che si inaridisse, non accadde mai),
Dmitrij Shostakovic (1906-1975) fu anche uno scrittore di lettere ai
confini della grafomania. E tale rimase anche quando l'abitudine e il
gusto della corrispondenza stavano venendo uccisi dal progresso come
molti dei vezzi del buon tempo antico: «Nella nostra epoca di
telegrafi, telefoni, radio ecc. si va perdendo l'arte epistolare. Lei
è uno dei pochi che possiedano alla perfezione quest'arte stupenda,
ma in via di estinzione», scrive al collega Lev Lebedinskij il 17
febbraio 1960.
Questa e
altre trecento delle sue innumerevoli lettere sono state raccolte da
Elizabeth Wilson in un bel libro, Trascrivere la vita intera
(il Saggiatore, pp. 512, €25, prefazione di Enzo Restagno) che
uscirà il 31 agosto con il sostegno del festival torinese Settembre
Musica, dove lo presenteranno, il 9 settembre, la terza moglie Irina
Shostakovic e Quirino Principe. Per inciso: questo è il modo giusto
di festeggiare gli anniversari. Anzi, forse leggere questo libro,
denso ma piacevolissimo (Shostakovic ha una prosa secca e nervosa e
non si scrive mai addosso: in troppi epistolari è il difetto che
ammazza il diletto), è l'antidoto ideale ai troppi mozartologi
improvvisati e alle troppe improvvisazioni di mozartologi che hanno
infestato questo disgraziato 2006, proclamato «anno Mozart» a causa
dei 250 dalla nascita di «Amadeus», come dicono loro.
Naturalmente,
il libro è anche lo strumento fondamentale per penetrare
nell'officina, creativa e domestica, di uno dei massimi musicisti del
secolo scorso. E, insieme, un documento agghiacciante della
distruzione della sua personalità provocata dal regime non solo
criminale, ma ottuso nel quale gli toccò vivere. Shostakovic era
stato un enfant prodige e, dopo la rivelazione della sua Prima
sinfonia, il 12 maggio 1926, restò per qualche anno un giovane
compositore in carriera estroverso, brillante, ironico, un po'
esibizionista e con un'intima eleganza, di modi e di pensiero,
sconfinante quasi nel dandismo. Il comunismo lo annientò: non
fisicamente, come toccò a molti dei suoi amici, ma spiritualmente.
Pensando alle vessazioni che dovette sopportare, viene in mente
Vaclav Havel quando disse che i guasti morali provocati del comunismo
erano più gravi di quelli materiali, pur enormi.
La
sensibilità di Shostakovic divenne nevrosi; la vena malinconica,
prima depressione e poi ossessione; la sua naturale bontà (era un
uomo di principi, e ottimi), disillusione.
Curiosamente,
le persecuzioni più sadiche sono, in queste lettere, quelle meno
documentate.
Nell'Urss, in certi anni, si aveva paura a parlare, figuriamoci a
scrivere. Per il musicista, tutto cominciò il 28 gennaio 1936, con
il famoso articolo della Pravda che titolava «Caos invece di musica»
la recensione della Lady
Macbeth
del distretto di Mcensk, capolavoro operistico di Shostakovic e di
tutto il teatro musicale del Novecento. Il resto dell'articolo,
anonimo ma probabilmente scritto dal giornalista David Zaslavskij e
sicuramente ispirato da Stalin, scagliava sull'opera e sul suo autore
tutti gli anatemi dell'ortodossia critica comunista, dal «rozzo
naturalismo» al «formalismo piccoloborghese». Seguì, il 6
febbraio, sempre sulla Pravda, il massacro del balletto Il
rivo chiaro.
Titolo: «Una falsificazione del balletto».
Su
Shostakovic si scatenò la bufera. Negli anni delle grandi purghe,
nei quali il persecutore di oggi era il perseguitato di domani, in
questa ruota della fortuna in formato dantesco, Shostakovic si abituò
a dormire con una valigetta pronta accanto al letto, dato che la
gente veniva prelevata di notte e nella notte spariva. L'anno
seguente, un brutto sabato, venne convocato al quartier generale
del-l'Nkvd di Leningrado e interrogato da un ufficiale di nome
Zakrevski, che prima cercò di fargli confessare di aver partecipato
a un fantomatico complotto contro Stalin e poi gli ingiunse di
ripresentarsi il lunedì successivo. Dopo aver passato la domenica
che si può immaginare, Shostakovic tornò, in preda al terrore, ma
gli venne detto di andarsene, perché Zakrevski era stato fucilato
per tradimento il giorno precedente. E poi le autocritiche, le
delazioni, i sospetti, i divieti, i servilismi, le riabilitazioni e
le ricadute in disgrazia, gli esami di marxismo-leninismo, l'obbligo
all'estero di dire male di Stravinskij o di Schonberg perché così
aveva decretato il partito: come il suo popolo, Shostakovic visse
sotto una doccia scozzese di purghe e aperture, uragani di sofferenza
e schiarite di tolleranza.
Ancora
nel dicembre '62, in pieno «disgelo», le autorità fecero di tutto
per sabotare la prima della Tredicesima sinfonia, in sospetto di
deviazionismo ideologico. E dire che in Occidente si considerava la
sua musica la colonna sonora dell'epica socialista... Lui si
rifugiava nella musica, negli affetti (tre matrimoni - con vicende
tempestose -e due figli) e nel calcio. Negli anni più terribili
erano le imprese della Dinamo Leningrado a svagarlo. Si legga la
lettera dell'8 agosto 1938, una cronaca puntuale e appassionata degna
di un giornalista sportivo: mancano, si direbbe, solo le pagelle. Del
resto, il suo balletto II secolo d'oro mette in scena la vittoria di
una squadra di calcio che batte i capitalisti decadenti grazie al suo
modulo leninista.
Resta
il fatto, e fu la sua tragedia, che Shostakovic era molto migliore
del regime nel quale gli toccò vivere. Un maestro che scriveva agli
allievi «il bene, l’amore e la coscienza: ecco cosa c'è di
prezioso nell'uomo» non poteva vivere bene nella Russia sovietica.
Poteva sopravvivere, con un'intima sofferenza di cui le lettere sono
la testimonianza.
La
Stampa, 19 agosto 2006
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